Varie ed eventuali

Francesco Barilli | Il tradrittore |

Venere Privata è un romanzo di Giorgio Scerbanenco, diventato fumetto un paio d’anni fa grazie a Paolo Bacilieri. Romanzo e fumetto molto belli e questo ti vale come consiglio di lettura e stop, già così la faccenda si farà lunga. Tu fermati a questa immagine.

Il primo balloon di Bacilieri (in parte pure il secondo) mi hanno ricordato la storia di Jean-Claude Romand, mirabilmente raccontata da Emmanuel Carrère.

Romand è uno a cui un giorno capita di fare una cazzata. È iscritto alla facoltà di medicina e non si presenta all’esame finale del secondo anno. Però a casa dice di averlo superato…

Una cazzata bella grossa, ma non irreparabile e neppure così rara. Lui però non si ferma a quella. Prima di diventare L’Avversario diventa un impostore seriale, anzi, L’Impostore. Titolo forse meno efficace di quello scelto da Carrère, ma non meno calzante.

Come un masso che si stacca da un monte e si fa valanga, sempre più inarrestabile, la menzogna iniziale porta Romand ad aggiungerne altre. Nella sua autonarrazione si laurea, diventa medico ricercatore all’Organizzazione Mondiale per la Sanità, un uomo ricco e di successo. Si sposa, ha due figli, e sostiene il castello di menzogne per diciassette anni. Finge di andare al lavoro tutti i giorni. Si procura il denaro per vivere e mantenere la famiglia accumulando debiti e “inventandosi” investitore di capitali altrui, che ovviamente utilizza per sè. Tutti credono a quell’uomo, tranquillo e affettuoso, solido e affidabile. Per DICIASSETTE ANNI, se ti è sfuggito…

Prima ho fatto la metafora della valanga. Un’altra, banale quanto calzante, è quella dell’auto lanciata a folle velocità senza freni. Sai che andrai a sbattere, ma non puoi farci nulla. Diventi spettatore del viaggio, curioso quanto atterrito dal sapere che il finale sarà tragico e scontato. Si tratta solo di capire quando arriverà.

Non più in grado di sostenere le proprie menzogne, Romand uccide la moglie e i due figli. Il giorno dopo è il turno dei genitori. Uccide persino il loro cane. Poi incendia la sua abitazione e prova a suicidarsi. Forse è l’ultima bugia. Il dubbio resta e credo neppure lui sappia se il suicidio sia stato un fallimento o una simulazione. Tutto questo per evitare la vergogna di vedere scoperti i debiti contratti e ormai insostenibili, la propria vita inventata, il suo ruolo sociale fittizio. In una parola, le proprie falsità.

Ti risparmio il resto della storia, il percorso dell’assassino in carcere, le sfaccettature di una personalità forgiata dall’imperativo di non mentire trasmessogli proprio dai genitori. Un fardello che, scansato una volta e poi serialmente fino a farsi abitudine obbligata, lo porta alla tragedia. Cosa fai ancora qui? Corri a leggere Carrère! Se resti, tieni a mente solo il macro-tema che sto proponendo. Menzogne e auto-narrazione, in sostanza.

Lo scorso mese la “rivista che non legge nessunə” ha avuto come tema il proprio (Quasi) premio al libro qui sopra. I premi provocano sempre malumori, non poteva sfuggire alla regola neppure un riconoscimento così sui generis. Oh, l’accenno ai malumori lo faccio considerando che pure Boris e Paolo ne hanno parlato, a me la cosa interessa poco. Lo faccio perché i premi letterari/fumettistici non sono solo inutili e fastidiosi, anche per meccanismi che signor Cencelli scansati (lo dicono proprio Boris e Paolo qui). Sono proprio dannosi. Avvelenano gli animi. Un’eccezione possono essere i premi alla carriera. Fanno storcere il naso ad alcuni, ma secondo me possono avere un senso, se conferiti senza aggiungergli un vago sentore di necrofilia.

Divagazione chiusa. E, se t’interessa, Il Saraceno di Vincenzo Filosa è piaciuto pure a me, così come il precedente Italo. Però ora voglio parlarti di un’altra circostanza che mi ha colpito. Seguimi.

L’8 maggio Paolo pubblica il suo primo pezzo sul fumetto di Filosa. E parlando di autobiografie (genere assai esplorato nei fumetti, non solo in tempi recenti) fa un paragone con il lavoro di Zerocalcare.

«Quello dell’autore romano è, con ogni evidenza, una simulazione di autobiografia: il personaggio è il protagonista della serie – ormai crossmediale – realizzata da Michele Rech. Il fatto che Rech abbia scelto il nome del personaggio come pseudonimo e giochi senza paura con la sovrapposizione tra autore e omino di carta che si muove dinoccolato sulla pagina, indossando una maglietta nera con il teschio, abilita un’illusione di autobiografia: il personaggio, è, in realtà, la proiezione attoriale di Zerocalcare, l’autore; è come se il disegno gli avesse fornito palco, sgabello e microfono; può fare la sua cosa di parole, immagini, rabbia, comicità, amore e recitazione.»

Ho specificato la data dell’articolo perché in quel momento Paolo non poteva aver letto l’ultimo libro del fumettista romano, Quando muori resta a me. Dove, a complicare le cose, trovi questa:

È la prima volta in cui Zerocalcare si ritrae con segno realistico. Di più: “Zerocalcare-personaggio” si guarda allo specchio e vede Michele Rech, invertendo il processo autoriale consueto, in cui Michele si specchia e vede (rappresenta) quell’omino con maglietta e teschio da noi conosciuto come “Zerocalcare-personaggio”. Stavolta il riflesso restituisce un uomo che crediamo di conoscere. Barba incolta, capelli corti e un accenno di stempiatura, rughe, lo sguardo di chi si sente fuori posto.

Non credo affatto sia una citazione volontaria, ma a me è venuta in mente una delle sequenze più emozionanti scritte da Gipi (un altro che sull’autobiografia “elaborata” lavora spesso) in unastoria.

Che in unastoria il protagonista, scrittore sulla soglia dei cinquant’anni e di una crisi di nervi, abbia il nome di Silvano Landi è ininfluente. Anche qui in fondo, molto in fondo, il tema è sempre quello dell’impostore, verso se stesso o altri poco conta. Declinato diversamente (certo e ci mancherebbe!) dalla storia di Romand. Più vicino stavolta al tema delle maschere che indossiamo di pirandelliana memoria. Nulla è nuovo in letteratura ed è giusto così. Devi solo cercare modi nuovi, o almeno interessanti, per raccontare le solite tre cose: conflitti e sentimenti e ricerca di te stesso. Persino mentendo. Anche perché magari chi usa una sincerità assoluta produce questa…

La vignetta è di Makkox, uscita su Il Foglio dopo la vittoria di Nemo all’Eurovision Song Contest 2024. Cita il generale Vannacci e, famola breve, allude a uno stereotipo (“il generale parla male degli omosessuali perché in realtà nasconderebbe una pulsione gay”).

Puoi immaginare cosa penso delle idee di Vannacci. Ma la vignetta non mi è piaciuta per niente. Ho visto però un sacco di gente postarla sui social dicendo quanto è bravo Makkox, questa sì che è satira, ebbravo chi percula Vannacci, e in fondo «chi disprezza compra, no?». E sai le risate sul politico che difende la famiglia tradizionale, però è divorziato e c’ha un figlio fuori dal matrimonio, oppure è stato pizzicato con una prostituta africana… Il giorno in cui capiterà un fascio rigorosamente razzista ed etero che brucia un campo nomadi o un locale gay ne apprezzeremo la rigida coerenza?

Guarda, inutile interrogarsi sulla scala morale. Possiamo essere sopra o sotto ad altri, ma sempre sulla stessa rampa. Sarò strano io, nella vignetta di Makkox vedo solo un machismo da bar, semplicemente di segno opposto a quello di un Vannacci. Per conto mio, in un periodo in cui si ha la significativa sfacciataggine di chiamare “storie” cazzate autoindulgenti ed egocentriche su Instagram, ben vengano Zerocalcare, Filosa e Gipi. Anche mentendo un po’. Che poi sincero davvero non è chi dice la verità, ma chi si mostra nudo allo sguardo altrui.

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