Tutto succede per caso, o forse no. Sta di fatto che una sera di aprile, appena tornato da un viaggio indimenticabile in Nepal, mi ritrovo immerso nella visione di un documentario su Art Spiegelman sul canale franco-tedesco Arte. Nel filmato, Spiegelman racconta di come, a partire dagli anni Sessanta, un’intera generazione di fumettisti – tra cui Robert Crumb – si fosse ribellata allo status quo e alle restrittive leggi sull’oscenità degli Stati Uniti. Con opere stampate e distribuite in modo indipendente, questi artisti creavano fumetti sempre più audaci, radicali, pornografici e psichedelici, sfidando le convenzioni dell’epoca e aprendo nuove frontiere nella narrazione grafica.
Tra i vari nomi di autori, ormai leggendari, che facevano parte di quella controcultura, Spiegelman citava Justin Green e il suo rivoluzionario Binky Brown Meets the Holy Virgin Mary. Questo fumetto del 1972, secondo Spiegelman, avrebbe contribuito a cambiare la storia del mezzo, ispirando non solo lui ma tutto il genere moderno dei fumetti autobiografici.
Cosa? Chi?
Ovviamente, non potevo evitare di leggere un fumetto dal titolo così effettivamente accattivante. Cercai e trovai una versione PDF dell’originale di 40 pagine pubblicato nel 1972. La cosa interessante era che quest’opera aveva guadagnato un posto nella prestigiosa Eisner Award Hall of Fame al San Diego Comic-Con del 2023. Ma in Italia, a parte un remoto articolo su Fumettologica, sembrava che pochi ne conoscessero l’esistenza.
Essendo autobiografico, il fumetto, racconta la vita di Justin Green, cresciuto da una madre cattolica e un padre ebreo nei sobborghi di Chicago negli anni Cinquanta. Green frequentò la scuola cattolica e soffrì per tutta la vita di disturbo ossessivo-compulsivo, non diagnosticato per decenni. La “storia” di Binky Brown è un vero e proprio catalogo delle nevrosi del personaggio: dalla preoccupazione su come scendere le scale nel modo corretto, al timore che la bomba atomica sia un segno dell’imminente Giudizio Universale. Pieno di paranoia e ansia, uno degli episodi iniziali vede Binky rimproverato dalla madre per aver accidentalmente rotto una statua della Madonna. Ossessionato dal concetto di peccato, Binky è costantemente alla ricerca di segni nascosti che possano indicare la sua salvezza o dannazione.
Un aspetto particolarmente originale di Binky Brown è rappresentato dai “penis rays” distruttivi che si estendono dal suo pene, dalle dita e dai piedi che, per Binky, assumono un aspetto fallico. La sua paura del proprio potere libidinale e della possibilità che questo possa offendere sia Dio che la madre di Dio diventa un fardello opprimente, limitando la sua capacità di muoversi, pensare o persino pregare per la paura che i raggi delle sue dita-fallo possano puntare nella direzione sbagliata.
Il finale di Binky Brown è un amalgama di misticismo e blasfemia. Ritroviamo il protagonista, ormai ventisettenne e residente a San Francisco, ancora alle prese con i suoi demoni interiori. Trovandosi di fronte a una statua della Vergine Maria, Binky decide di affrontare definitivamente il potere che la madre di Dio esercita su di lui. Spogliandosi fino a restare in mutande e circondato da una dozzina di statue della Madonna prodotte in serie, dichiara che le sue mani sono solo mani, il suo pene è solo un pene e le statue non sono altro che «materia, che io frantumo», distruggendole una dopo l’altra. Tuttavia, una delle statue viene risparmiata dalla sua furia distruttiva. Binky colloca la “sopravvissuta” sul davanzale della finestra e decide di costruire nuove e più sane credenze attorno a questo unico idolo rimasto.
È innegabile che quest’opera, come sottolineato anche da Spiegelman, abbia esercitato un’influenza significativa su numerosi autori americani che hanno utilizzato il medium del fumetto come forma di terapia per confrontarsi con i propri demoni interiori (come nel caso di Blankets). Questo genere, giunto in Europa un decennio più tardi, è emerso come una diretta risposta alle opere degli autori americani. Possiamo immaginare una catena di decine, se non centinaia, di anelli che partendo da Binky Brown arrivano fino all’opera più recente di Zerocalcare. Pertanto, non è esagerato affermare che Justin Green sia il padre del fumetto autobiografico. Ed è un peccato che pochi lo sappiano.
Laureato in archeologia del Vicino Oriente Antico alla Sapienza Università di Roma. Ha collaborato con diverse missioni archeologiche in Italia e all’estero (Siria e Turchia). Da sempre appassionato di fumetti, ormai quarantenne, decide di studiare sceneggiatura presso la Scuola di Fumetto Online di ComicOut. Ha all’attivo, nella veste di sceneggiatore, collaborazioni con diverse realtà editoriali, tra cui il settimanale Internazionale. Con Alessio Lo Manto crea i personaggi dellɜ archeologɜ Isa e Melano. I due appaiono prima su un breve articolo a fumetti per la rivista “Ex-NOVO Journal of Archaeology”, poi in alcune vignette per la Confederazione Italiana Archeologi e infine nel Graphic Novel «Diario di Scavo. Considerazioni finali» (Oblò-APS, 2021).
Moglie e figlɜ permettendo, continua a scrivere fumetti.