Forse lo sai già. Da qualche giorno a Parigi c’è una mostra che pare essere irrinunciabile. Non si può far finta di niente: nell’estate delle Olimpiadi parigine il Centre Pompidou riserva sei piani di esposizioni al fumetto. Tra queste, ce n’è una particolarmente significativa: Bande dessinée, 1964 – 2024, che sarà visitabile dal 29 maggio al 4 novembre. Se vai sul sito della mostra – e non ti spaventa ascoltare un effluvio di parole tronche e “R” arrotondate – c’è perfino un podcast che ti racconta la struttura dell’esposizione.
È, senza dubbio, una cosa grossa.
Igort ha reputato opportuno evidenziare le ragioni della sua esclusione da questo evento: le ha spiegate in un post Facebook. Dice che gli erano state chieste le pagine di Quaderni Ucraini 2 ma, siccome non esistono gli originali di quel lavoro realizzato con urgenza diaristica, i curatori hanno rifiutato delle stampe – di altissima qualità – dei file digitali. La replica di Igort è precisa e puntuta, come sempre:
«Davanti a una prova di simile idiozia ho ritenuto che si vive benissimo anche senza partecipare a operazioni condotte con criteri di purismo ottocenteschi e ho chiuso le comunicazioni. Trovo patetico che ancora oggi si pensi che esistano modi giusti e modi sbagliati di colorare le tavole o fare il proprio lavoro.»
Non potrei essere più d’accordo. A me l’idea di originale del fumetto, da appendere al muro, pare raccontare con precisione la volontà di qualcuno di mostrare dei semilavorati, dei prodotti intermedi del processo di realizzazione. Utilissima, eh, se si vuole dare un’occhiata in cucina per scoprire come vengono preparate le pietanze. A volte, lo sappiamo, non è una bella esperienza. Si rischia di scoprire che il pesce puzza, le padelle hanno incrostazioni secolari e il cuoco si toglie il cerume col mignolo.
Detto questo, però, le osservazioni di Igort mi fanno venire alcuni dubbi che si riferiscono al vincolo, al merito, al canale e al metodo. Di dormire non se ne parla, neanche stanotte: allora, li condivido con te.
Per quel che riguarda il vincolo specificato da Igort come causa della sua esclusione dalla mostra, mi pare di aver capito che il digitale non sia stato affatto escluso. Nella mostra sono esposte tavole digitali su schermo. C’è da sospettare di essere di fronte a un’incomprensione – e al conseguente scambio di cortesie – tra il fumettista italiano e il curatore francese.
Il dubbio sul merito si riferisce alla scelta dei curatori di chiedere a Igort pagine da Quaderni ucraini 2. Quel libro afferisce alla produzione non narrativa di Igort. Da una quindicina d’anni, quell’autore, quando fa fumetti, si dedica a raccontare i suoi viaggi e i suoi diari. La sensazione che ne traggo è che abbia superato il periodo più interessante della sua carriera e – dopo aver mollato Baobab – stia gestendo un lunghissimo riflusso, dedicandosi a opere minori, ma non per questo meno vendibili. Guardo con interesse (e aspettative significative) la nuova storia che sta serializzando su “Alterlinus”.
Poi, mi pongo una questione sul canale. Se davvero sta conducendo una battaglia culturale, perché non apre una discussione sul tema che gli sta a cuore usando le pagine di “Linus”, la rivista che dirige. Le domande cui dare risposta sono tante e importanti. Si potrebbe addirittura scomodare Benjamin: dov’è l’aura del fumetto?
Ha scelto di scrivere un post su Facebook, conquistando – dalla sua posizione di potere (è il direttore di una casa editrice e di una rivista) – un sacco di “Like”: i commenti di un qualche interesse sono stati diluiti tra le dichiarazioni di incondizionato rispetto portate con deferenza dalla claque mediatica. Mi dico che sarebbe stato meglio – molto meglio – allargare la questione e predisporre uno spazio per accogliere pensieri articolati, in luogo di commenti iperdistillati.
Infine ho un dubbio di metodo. Mi è arrivato il catalogo della mostra. Non ho mosso il mio pesante deretano dalla provincia milanese negli ultimi giorni e non ho, quindi, visitato la mostra. Però ho sfogliato il catalogo. È costruito intorno a un’idea rotonda e bella da raccontare. Uno specifico interesse a dire le forme cangianti del fumetto in un periodo che si chiude perfettamente: uno strano anello di sessant’anni tondi.
Per dire cosa sia successo al fumetto, i curatori decidono di prendere sei decenni, accogliendo quale punto di origine quello che, più degli altri, ha visto l’emergere dei giovani. Bisognava che quell’arco temporale contenesse l’arrivo dell’underground, dell’erotismo (nella visione di Losfeld), del gekiga e delle grandi riviste.
Si sceglie quindi quale Big Bang arbitrario il 1964, l’anno della fondazione della rivista nipponica “Garo”, e si dice, con una certa dissennata sicurezza che da lì parte «il decennio in cui il fumetto si reinventò». E sarebbe pure vero, bello e rotondo, se non fosse che quell’epiteto si può applicare a qualsiasi decennio. Se fossi io a dover decidere da dove partire, per esempio, adotterei un arbitrio diverso: cercherei una buona scusa per tornare indietro di un altro decennio, catturando la nascita di “Pilote” e l’esplosione delle sceneggiature di René Goscinny, l’invenzione di “Mad” e l’idea dirompente di racconto di Harvey Kurtzman, il comics code e il fumetto umoristico e i nuovi supereroi, l’invenzione del manga da parte di Osamu Tezuka…
Va beh… mentre cerco un difetto metodologico alla mostra, scopro che, alla fine, non è poi così importante trovargliene uno.
Appena posso (e riesco a trovare uno spazio parigino a un prezzo ragionevole) vado a godermi lo spettacolo.
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).