Nell’estate del 2005, continuavo ad ascoltare un disco di cui non capivo niente fin dal titolo: Takk… del gruppo islandese Sigur Rós. Per un caso davvero fortuito (un’amica lavorava nell’organizzazione del festival), ero andato a sentirli dal vivo vicino casa, nella magnifica ambientazione di Villa Arconati a Bollate. Un paio di giorni dopo, sul “Manifesto”, che ancora leggevo con la regolarità donatami dal mio disturbo ossessivo-compulsivo, c’era un’intervista a Jónsi. Raccontava le solite cose: come il nome della formazione derivasse da quello della sorella nata qualche giorno prima del gruppo, l’incontro con Bjork, la difficoltà degli inizi… Poi, all’improvviso, scartando dalle domande fuori fuoco dell’intervistatore, iniziava a sottolineare la centralità del brano Hoptpípolla nel disco. Senza che nessuno glielo chiedesse, raccontava come quel brano, che aveva dato l’impronta all’intero album, fosse nato dalla scoperta dei lavori di un giovanissimo fumettista: Ólafur Gunnlaugsson che si firmava Taistelukenttä, un nome che significa “campo di battaglia”.
Da quel momento ho iniziato a cercare i suoi fumetti. Sono stato fortunato: c’erano storie brevi in un paio di numeri di “Stripburger” e, durante un Crack romano, ho trovato un libricino – minuscolo, meraviglioso e stampato con la consueta cura certosina – sul tavolo di Le Dernier Cri.
Dopo quei ritrovamenti fortuiti, reperire altre cose di Taistelukenttä è stato difficilissimo.
Da sempre lontanissimo dall’editoria tradizionale, questo autore incredibile si rifugiava in un mondo di autoproduzioni minuscole, spesso effimere. Il rifiuto di distribuire i suoi lavori usando Internet e i social come canali di promozione ha fatto sì che i suoi albi vivessero in un mondo realmente underground: distribuito sottoterra in cunicoli in cui valevano solo le amicizie, il passaparola e le copie che si spostano di man in mano all’interno di un gruppo di “happy few”.
La prima cosa che ti colpiva quando ti ritrovavi di fronte a una sua pubblicazione era la qualità di stampa e la scelta dei materiali. Ho tra le mani il tredicesimo numero di “Katoavainen nautinto” del 2012, la collana in cui ha pubblicato molti suoi lavori. Probabilmente influenzato da Chris Ware, cambiava il formato dell’albo a ogni uscita e per ogni fumetto sceglieva tecniche e stili diversi. Questo numero è una striscia verticale, 12×32, di un centinaio di pagine, legato in brossura. La copertina è sottile e patinata, ma sopra di essa è stato applicato un cammello di pezza che pare disegnato a mano su un rombo di tessuto. A fogli di carta uso mano ad alta grammatura, si alternano fogli leggerissimi e neri che paiono di carta velina. Un lavoro di costruzione del prodotto assurdo, che fa sembrare ogni copia, anche la mia, un manufatto unico, irripetibile. Quasi come se l’autore avesse volito stringere un rapporto di intimità esclusiva con ciascun lettore.
Poi, aperto l’albo, inizia la magia, mentre mi immergo in una storia che si intitola Induktiivinen kalkkuna. Un disegnatore straordinario che racconta una vicenda unica. In un mondo di desolatezza sconsolante, ci sono vecchi che si comportano come ragazzi dissoluti: sesso promiscuo, alcol a fiumi, uso disinvolto di qualsiasi droga e musica suonata da casse che continuano a comparire quasi per magia e cantata a squarciagola dalle bocche sdentate di eleganti punk ottuagenari. Non riesco a intendere cosa si dicano i personaggi: le parole nei balloon sembrano messaggi nella bottiglia provenienti da Marte. Eppure, capisco che i protagonisti non sono i vecchi, ma dei bambini operosi, vestiti come bambini, che cercano di rieducare e reinserire nella società gli anziani scapestrati. I bambini lavorano, hanno relazioni stabili, fanno la spesa nel supermercato sotto casa e cenano sempre alla stessa ora, con la televisione accesa.
Ecco, anche leggendo i successivi Upea pakkomielle e Perjantaina syömme kalaa, si capisce che la poetica dell’autore è tutta incentrata su personaggi che si comportano in maniera incongrua per la loro età.
E anche l’autore. Infatti, è morto di vecchiaia mercoledì scorso a neanche quarant’anni.
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).