Cigni e tacchini: Le poche parole che riesco a trovare per parlarti di Taistelukenttä

Boris Battaglia | Pantomime del Calisota |

Questo è un giugno di lutti importanti per il mio immaginario. Il 6 è morto Eric Hazam, l’uomo che mi ha fatto conoscere, capire e amare Parigi (e mi ha insegnato a continuare ad amarla nonostante tutto quello che mi ha fatto); l’11 è morta Françoise Hardy, al netto delle sue posizioni politiche la donna che, seconda solo a Lio, mi ha spinto a comprendere il più a fondo possibile la lingua in cui cantava e scriveva (renditi conto: nel 1967 Hugo Pratt usò il suo volto per le fattezze di Pandora Groovesnore e Guy Peellaert per quelle di Pravda, mentre nel 1983 Guido Crepax disegnerà su di lei Belinda, come potevo non amarla anche se votava per Sarkozy?); il 12, a quanto pare senza altra causa che il naturale esaurimento delle sue facoltà vitali, si è spento Ólafur Gunnlaugsson, che probabilmente tu conosci come Taistelukenttä, lo pseudonimo con cui firmava i suoi fumetti.

Hazam e Hardy erano ottantenni, da tempo senza grandi prospettive di vita a causa di malattie che non ti lasciano scampo, tra l’altro tra insensati dolori (e se una cosa va riconosciuta a Hardy è la sua strenua e sofferta lotta per una legge sul fine vita). La notizia della loro morte non mi è arrivata inaspettata. Anzi, forse, per alcuni versi, quasi come un sollievo. Ma Ólafur, cazzo!, non aveva ancora quarant’anni – li avrebbe compiuti il 15 settembre – e l’ultima volta che l’ho incrociato, lo scorso marzo a Marsiglia durante uno scatenato concerto dei Seitsemän Vodkapullojen (gruppo newpunk suo conterraneo e del cui omonimo EP aveva disegnato la copertina) sulla terrazza de La Friche la Belle de Mai, mi era sembrato godere – più o meno come me – di buona salute.

Non era un amico. Anche se per sei sette mesi all’anno viveva a Marsiglia, quando ci passavo non era facilissimo incontrarsi, e gli amici non sono amici se non li vedi nel solito bar almeno due, tre volte a settimana. Era un fumettista di rara intelligenza e di una dirittura ideologica che ho sempre ammirato. Era piacevolissimo discuterci di fumetti. Non c’è più. Sono triste. La sua morte mi ha lasciato senza parole. Allora voglio riproporti qui un pezzo che scrissi, boh… poco meno di una ventina di anni fa, su “Le Regard Nu”, rivista marsigliese di fumetti e critica militante, fondata dal collettivo Craint Dégun e diretta all’epoca dalla mia carissima amica (e fumettista ragguardevole, ma vaglielo a spiegare agli editori italiani che guardano solo i like su Instagram per decidere chi pubblicare) Amande Deuil, che per l’uscita francese del suo Le dinde inductiviste (Le Dernier Cri, 2007), me lo aveva fatto conoscere.

Come tutte le persone che nascono in paesi freddi e con quella luce crepuscolare per la maggior parte dell’anno, i finlandesi che possono farlo vengono a riempirsi lo sguardo con la luce del sud. Pensa ai fratelli Kaurismaki che vivono la metà della loro vita in Portogallo! Così Ólafur Gunnlaugsson, in arte Taistelukenttä (una cosa che – mi hanno detto, giuro che non conosco il finnico – suona più o meno come: Campo di battaglia) passa i mesi più bui dell’anno qui a Marsiglia perché, dice, la sua arte ha bisogno di tutta la luce possibile. Sarà che sono perdutamente innamorato di questa città, ma credo che abbia ragione e che non ci sia altra luce che possa riempire meglio le storie e i disegni che ci piace leggere.

Sfoglio il suo meraviglioso volumetto in stampa serigrafica a tiratura limitatissima (50 copie) appena edito dai ragazzi di Le Dernier Cri e ce la ritrovo tutta questa meravigliosa luce. Non so se il suo Le dinde inductiviste lo ha realizzato qui o a Helsinki (nota di adesso: scopro, mentre parlo con il mio socio di (Quasi) di questo lutto, che lui ne possiede un’edizione finlandese, ma è impossibile stabilire quale è venuta prima… maledetta prassi degli autori underground di non mettere mai le indicazioni di luogo e di tempo delle tirature!), ma la luce che taglia il nero del suo inchiostro è quella che ho negli occhi mentre guardo il mare dai Docks di questa città.

Non sto parlando a caso della luce. Perché il tema di questo fumetto è la nostra cecità. Nostra nel senso di “collettiva”.

In una sorta di wasteland postatomica (però non siamo nemmeno certi che sia successa una guerra nucleare, è una sorta di abitudine narrativa che ce lo fa pensare, la società come la conosciamo potrebbe essere finita per altri mille motivi –  ti ricordi che Ballard tra il 1961 e il 1966 in quattro incredibili capolavori ci racconta quattro diverse possibili apocalissi e nessuna atomica: un vento furioso e implacabile, un’inondazione globale, una cristallizzazione di ogni forma vivente e una siccità totale?) il mondo è diviso tra vecchi e giovani. Come tacchini induttivisti (ce lo hai presente il paradosso di Bertrand Russel? ecco sappi che qui Taistelukenttä lo rilegge nella chiave del Cigno Nero di Nassim Nicholas Taleb) mentre leggiamo ci convinciamo che i vecchi, dediti a ogni sorta di divertimento e perversione siano coloro che stanno portando la società alla catastrofe, mentre i giovani operosi e propositivi stanno preparando il futuro per salvare se stessi e i vecchi.

Che lettori ciechi che siamo. Quale correlazione illusoria, tra giovinezza e salvezza, abbiamo messo in atto! Ci siamo concentrati solo sui fatti che ci venivano mostrati e come il tacchino di Russel abbiamo tratto la logica conclusione che seguendo i giovani saremmo stati salvi. Invece siamo finiti al macello. La nostra induzione logica si è fondata sul pregiudizio ontologico che la gioventù sia migliore e votata alla costruzione del futuro, mentre i vecchi sono votati alla morte.

E invece la vita sta negli eccessi.

Ti è piaciuto? Condividi questo articolo con qualcun* a cui vuoi bene:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

(Quasi)