Inland Empire, un’esperienza fisica de L’impero della mente

Federico Beghin | post-it |

Tempo fa ho deciso di iniziare il mio percorso nel cinema di David Lynch.
Due miei amici ne parlavano spesso e, ogni volta che lo facevano, mi incuriosivano. Così è scattato il recupero con Dune (1984) e… si è subito arenato. Mi faccio odiare subito: quel film non mi è piaciuto quasi per niente, preferisco di gran lunga i due di Denis Villeneuve (2021 e 2024).
Dopo una pausa ho pensato di riprovare. Stavolta approccio leggero: il cortometraggio What did Jack do? (2017) in cui lo stesso Lynch recita, parlando con una scimmia.
Diciassette minuti con questi due che se la raccontano, discutono di un omicidio, di una gallina e di un gallo. Più dell’indagine, è divertente ascoltare l’accento dei due personaggi, notarne le posture, cercare di seguire un filo logico che a un certo punto scompare.

Era fatta, avevo trovato la mia entrata nel mondo di Lynch! Dopo il corto, eccomi di nuovo in pista. Le tappe sono state casuali, a seconda della facilità con la quale riuscivo a reperire i dvd. Mulholland Drive (2001) mi ha folgorato, mi ha tenuto incollato allo schermo. Le inquadrature ravvicinate sui volti di Rita e Betty e sulla vicina di casa matta sono veramente inquietanti: ripresi in quel modo i volti sembrano delle maschere. A riproduzione terminata ho letto un po’ di interpretazioni e mi stuzzicava quella del sogno, che prende in considerazione anche il doppio, ossia il tema sul quale mi sono maggiormente soffermato durante la visione. Al di là delle specifiche elucubrazioni, ho apprezzato il fatto di essermi concentrato e di aver ragionato tanto, soprattutto sulle teorie sopraggiunte in seguito, anche mentre facevo dell’altro, perché significa che la pellicola mi ha lasciato qualcosa.

Di Velluto blu (1986) ho apprezzato molto il rapporto che Jeff crea con Sandy e con Dorothy e ho trovato interessante il personaggio di Frank con la sua doppiezza, un aspetto che, come anticipato, ritorna nei vari film di Lynch. Su Una storia vera (1999), semplicemente bellissimo, mi sono già dilungato qui su (Quasi). E posso spendere le stesse due parole, avverbio più aggettivo, per The Elephant Man (1980). Io che sono un freak, anche se per fortuna non quanto John Merrick, non ho potuto fare a meno di stamparmi nella testa questa frase: «La mia vita è bella, perché so di essere amato».

Ultima sosta, finora, del mio viaggio è Inland Empire (2006). Da aprile non guardo un film di Lynch, ma su questo tornerò più avanti. L’esperienza vissuta con L’impero della mente è stata probante, in primis sul piano fisico. All’entusiasmo iniziale è seguito uno spaesamento sempre maggiore che è coinciso con la nascita e lo sviluppo graduale dentro di me di una domanda. Un po’ annoiato, molto perso, forse annoiato proprio perché perso, con una certa incredulità e un determinato fastidio, mi rimbalzava in testa fino a uscire dalla mia bocca sotto forma di esclamazione interrogativa un: «Ma che cazzo sto guardando?!».

Tutto da buttare a parte l’incipit, dunque? Assolutamente no! Cercando invano una posizione comoda, armandomi di tutta la pazienza e di tutta la testardaggine di cui sono capace, ho superato i limiti della mia resistenza mentale e soprattutto fisica arrivando alla fine dei centosettantadue minuti più sfibranti della mia esistenza di spettatore. Sia chiaro: ho visto film più lunghi, ne ho visti di brutti e noiosi, di inutili e inconcludenti. Di tutti i tipi, forse. Ma mai, ripeto mai, ero stato messo così alla prova.
Novello Sherlock Holmes o Dylan Dog, con le mani giunte e una gamba a scavalcare il bracciolo della poltrona, scandagliavo lo schermo alla ricerca di risposte, spremevo le mie meningi fino a farmi uscire il fumo dalla testa che neanche Majin Bu nei suoi momenti di rabbia incontrollata e incontrollabile. Mi alzavo in piedi, ondeggiavo a destra e a sinistra senza staccare gli occhi da quel teatrino dell’assurdo, da quella matrioska visiva a cui cercavo di mettere ordine. «‘Na faticata», per dirla con il Totò che detta a Peppino la famosa lettera da recapitare alla Malafemmina.
Ora che ho chiarito che forse, sì, sono un “piedidolci” come mi avrebbero definito nel Far West ma che non mi arrendo facilmente, posso dire tutta la verità, nient’altro che la verità. Alla fine Inland Empire è il film di Lynch che più mi è rimasto impresso. Nel corpo, proprio: ernie e cervicali in fiamme, emicrania abile e arruolata, vescica sul punto di scoppiare (ma che bella immagine, eh?).
Formulo banalmente, tanto mica sono un critico: mi sono piaciute moltissimo la prima mezz’ora, con i primissimi piani oscuri e inquietanti che avevo già trovato in Mulholland Drive, e la sequenza in cui la protagonista, Laura Dern, è stesa agonizzante sulla strada mentre una coppia se la canta e se la suona, come se niente fosse. Inoltre mi hanno incuriosito le parti con i conigli che ritroverò in Rabbits (2002), quando lo vedrò.

Riassumendo al massimo, posso affermare che si tratta di tre lunghe immagini che mi tornano spesso davanti agli occhi, costringendomi a rivivere, non senza diletto, l’inquietudine provata durante la visione. E il resto? Boh, mah, chissà.

Siccome, però, non sono riuscito a godermi pienamente il lungometraggio e ne ho persa una parte, perché gli occhi lo seguivano ma la ragione vagava alla ricerca di un senso, mi sono ripromesso di approfittare dell’estate, con qualche incombenza in meno, per inserire di nuovo il dvd nella mia Play 3. Ecco i miei compiti delle vacanze: voglio rivedere Inland Empire, senza intestardirmi nel cercarne il significato, e completare la filmografia di Lynch. Possiedo già Eraserhead (1977), Cuore Selvaggio (1990) e Strade perdute (1997); devo ancora acquistare Fuoco cammina con me (1992), ma lo farò solo dopo che avrò riattivato l’abbonamento alla piattaforma dove conto di trovare le stagioni di Twin Peaks.
Conoscendomi, so che difficilmente riuscirò a fare tutto…

Ti è piaciuto? Condividi questo articolo con qualcun* a cui vuoi bene:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

(Quasi)