Tutto il fumetto del mondo (quasi)
Nonostante alcuni limiti, qualche grave assenza e un impianto teorico non completamente condivisibile, Bande dessinée 1964-2024, la principale delle tre esposizioni dedicate (su tre piani) dal Centre Pompidou alla BD, è probabilmente il primo tentativo (in forma di mostra) in cui si cerca di tracciare una storia mondiale ed essenziale del fumetto. Un tentativo che, anche se non completamente riuscito e figlio di equilibri economici e accademici, non può essere liquidato con la superficialità con cui l’ho sentito fare da qualche autore escluso. Un tentativo con il quale, sono convinto, sarà d’ora in poi inevitabile confrontarsi per affrontare qualsiasi discorso storiografico sull’argomento.
Per vederla sono stato a Parigi tre giorni. Quella che segue è, a mo’ di compito delle vacanze (ricordi quando la stramaledetta professoressa di lettere ti obbligava a tenere il diario dei tuoi giorni di libertà dalla scuola tanto per non farti dimenticare che il tuo destino era tornarci, in quella prigione?) la cronaca di quei tre giorni – e no, non sto dicendo che (Quasi) è la mia prigione… mi diverto a raccontarteli quei tre giorni. Comunque, se quello che ti interessa leggere è solo il reportage della mostra, vai direttamente alla seconda puntata (esce domani) ed evitati anche la terza. Se invece vuoi qualche dritta per il tuo prossimo soggiorno nella capitale dei “mangiarane”, beh, leggitele tutte e tre.
Paname fatale
Una volta mia moglie mi ha detto: «Tu non ami Parigi, tu ami il XIII». In qualche modo è vero. Ma c’è un motivo. La prima volta che sono stato a Parigi era il 1978, avevo 10 anni e seguivo mio padre in un qualche viaggio di lavoro. Adesso non ricordo i dettagli (e vorrei vedere! sono passati 46 anni), l’unica cosa di cui sono sicuro è che alloggiavamo nel XV, dalle parti del polo fieristico Porte de Versailles, in uno di quegli orribili, moderni e giganteschi alberghi internazionali in cui transitano turisti e gente d’affari di ogni risma e razza (cosa che potrebbe essere anche una bella occasione di melting pot, ma in quei crocevia, ai quali ben si attaglia la definizione di “non luoghi” coniata da Marc Auge, nessuno è interessato a conoscere l’altro se non per firmare contratti (gli uomini d’affari) o per consolidare i propri pregiudizi (i turisti). Era inverno, i primi mesi dell’anno e faceva un freddo cane.
Un’altra cosa ricordo con nitidezza: che in un qualche momento di una giornata in cui mio padre era libero, ci ha portati, me e mio fratello in una libreria di fumetti. Amo pensare che fosse la Futuropolis di Florence Cestac e Étienne Robial (d’altra parte stava proprio lì, nel Quindicesimo, al 130 di rue du Théâtre), ma considerando i suoi interessi (la passione… stavo per dirti l’interesse sociologico, ma no… è vera e propria rattuseria, per qualsiasi materiale erotico l’avrò pur presa da qualche parte) è più facile che fosse la Terrain Vague di (sì, proprio quella al civico 16 di rue de Verneuil: ho controllato, la libreria chiuderà nel 1979 alla morte di Losfeld, quindi avrebbe potuto benissimo essere stata la tappa di un nostro pellegrinaggio quell’inverno); ma forse mi sto inventando tutto ed era una libreria di fumetti qualsiasi che in quel tempo, sull’onda proprio di Futuropolis, stavano timidamente cominciando a spuntare nelle città francesi. Dove era e quale era, non sono dati rilevanti. Quello che conta è la sorpresa che provai.
Non so perché amo i fumetti (cioè, lo so e sto cercando di spiegartelo saggio dopo saggio, ma qui mi serviva un bel attacco retorico). So solo che li amo e li guardo da sempre, prima ancora di imparare a leggere. Con qualche rara eccezione (i volumi Mondadori dedicati egoticamente ai personaggi Disney, dove avevo scoperto Carl Barks e Floyd Gottfredson… mentre ancora non sapevo della Milano libri e dei suoi volumi da libreria) li trovavo solo in edicola. Scoprire che c’era una città in cui a quelle «letture per gli sciocchi» – come le chiamava la mia maestra – dedicavano addirittura un’intera libreria piena di volumi e di adulti che li compravano, fu per me una vera rivelazione.
E, fatalmente, scoppiò l’amore.
Fino a che non ebbi l’età per andarmene in giro da solo cercai di non perdere occasione per incollarmi a mio padre, come un bagaglio a mano, ogni volta che doveva andare a Parigi (mai tante quante avrei voluto). Poi, appunto, ci fu il periodo in cui presi a viaggiare da solo (boh, se non ricordo male tra i 19 e i 20 anni) e allora finivo nel Marais in uno squallidissimo hotel (ricordo che aveva il nome di quella famosa battaglia navale che segnò la nascita della legegnda di Sir Horatio Nelson, e probabilmente esiste ancora) almeno una volta all’anno, per qualche giorno di sosta dopo che tornavo dal festival di Angoulême. Sempre a gennaio. Sempre un freddo dell’accidenti.
Parigi come personaggio
Nessuno lo aveva mai fatto prima. Sì, c’erano stati Balzac e Eugenie Sue in letteratura, e Luis Feuillade al cinema con la sua serie di dodici film – realizzati in tre anni (1910-1912) – su Bebé, ma loro l’avevano usata tutta in blocco, una protagonista assoluta dei loro romanzi e film. È Leo Malet ad avere l’idea geniale: prendere Parigi nelle sue singole realtà (gli arrondissement non sono solo segmentazioni amministrative, sono vere e proprie città nella città) e trasformarne ognuna nel personaggio di un’inchiesta di Nestor Burma.
Tra il 1954 e il 1959 escono 15 romanzi, dedicato ognuno a un preciso arrondissement. Non è un conto difficile, gli arrondissement sono 20 e all’appello ne mancano 5, che Malet non scriverà mai. Non mi risulta che nessuno abbia avuto l’idea di riprendere Burma e chiudere il ciclo. Strano.
Comunque: la scoperta di Jacques Tardi la devo, mi fa male ammetterlo, a Massimo Galletti. Non credo che avesse letto nient’altro di suo, ma è lui che a una Lucca di fine anni Ottanta, dopo una chiacchierata sul concetto di mura cittadine, mi trascinò da un rivendugliolo cartaceo di roba muffa e ingiallita e mi obbligò a prendere Il paese chiuso: quella che, pubblicata -se non sbaglio- nel 1982 da Luigi Bernardi, a tutt’oggi resta l’unica edizione italiana leggibile di Ici Meme.
Te la faccio breve
Per colpa di Galletti, nei primi anni Novanta recupero, in francese tutto quello che Tardi ha realizzato. Adele Blanc-Sec, ma soprattutto Nestor Burma. Sì, Tardi ha realizzato a fumetti svariati romanzi di Malet. Bruillard au pont de Tolbiac è un’altra rivelazione. Lo prendo ad Angoulême, me lo leggo in treno verso Paname (quando, sulla scorta di Tardi mi leggerò tutto Malet scoprirò che i parigini chiamavano così la loro città – il perché te lo racconto un’altra volta- e non smetterò più di farlo) e quando ci arrivo, col cazzo che mi fermo nel Marais: vado dritto con la M14 nel XIII e mi trovo un buco in rue de Tolbiac.
Tornerò lì, al 15 di rue de Tolbiac almeno una volta all’ anno, tutti gli anni. Non più in inverno, ma in primavera/estate. Prima soli io e il mio cane; poi si aggiunge la compagna che diventerà mia moglie; poi, uno alla volta i due figli. Sempre lì, allo stesso indirizzo. Esploriamo ogni centimetro dell’arrondissement: dalla Gare d’Austerliz alla Salpêtrière, da Chinatown a Place d’Italie, dalla esplanade della Bibliothèque Nationale ai locali della rive gauche, dai Gobelins alla Butte aux Cailles (a parte un’incredibile piscina costruita su un pozzo artesiano, dove ti consiglio di farti una nuotata- è il luogo della estrema resistenza dei comunardi che, al comando di Walery Antoni Wròbleski, per quattro volte tra il 24 e il 25 maggio 1871 respinsero le truppe dei versagliesi).
Fino all’agosto del 2015. Poi succede una cosa che non ho voglia di raccontarti, ma l’idillio tra Paname e me si spezza. Non ci frequenteremo più, per quasi nove anni.
(Quasi) nove anni dopo
Oggi è il 21 giugno 2024. E sono di nuovo qui: davanti al 15 di rue de Tolbiac (non c’è più lo scassato condominio dove affittavo un appartamento, ma un albergo decente – te lo consiglio, ti capitasse). Mi serviva una scusa per tornare a Parigi e farci pace. Me l’hanno fornita le curatrici e i curatori (Anne Lemonnier, Emmanuéle Payen, Thierry Groensteen e Lucas Hureau, gente che non stimo per niente, anzi che forse per il potere che rappresentano e incarnano, disprezzo) della mostra Bande dessinée 1964-2024 al Beaubourg. Visitarla per raccontarla a chi non legge (Quasi) era il pretesto che mi serviva e l’ho colto al volo. Nel senso che ho preso il primo volo utile per Parigi appena sono stato libero. Per questo adesso sono qui, fuori dal portone dell’albergo al 15 di rue de Tolbiac. È quasi ora di cena e ho tutta la notte che mi aspetta. Cosa faccio?
Proprio davanti a me, al civico 12, c’è un bistrot. Nove anni fa non c’era. Si chiama Milord. Mi ci infilo. Ordino sottospalla reale in riduzione di vino rosso e miele con contorno di cavolo rosso e una bottiglia di Vauvray Sec’ Arpent, Chenin in purezza che Sebastien Brunet realizza con metodo naturale. Godo. E quando chiedo il conto ho la conferma che la bontà costa quasi quanto la bellezza. Quando esco dal Bistrot è ancora presto, e allora mi viene voglia di lasciarmi debordianamente andare alla deriva: salto sul BUS 62 che sta passando proprio in quel momento e decido che vado su, alla Butte.
Sei fermate direzione Porte de Saint-Cloud. Scendo all’incrocio tra rue de Tolbiac e rue Bobillot. Comincio a salire verso Place Paul Verlaine. Sento della musica. C’è un gruppo che suona fuori dal Kanasuk (un bistrot creolo con una selezione di Rhum da paura: sì, li ho provati mentre ascoltavo i ragazzi suonare). Cazzo, è vero! Oggi è il 21 giugno! Gli ultimi nove anni passati senza mettere piede a Paname me lo avevano fatto scordare. Invece tu, sicuro, te lo ricordi Jack Lang. Ministro della cultura durante il regno di François Maurice Adrien Marie Mitterrand, nel 1982 si era inventato la Festa della Musica che cadeva proprio a ogni solstizio d’estate. Per qualche tempo era stata celebrata in quasi tutti i paesi della Comunità, poi, pian piano era stata dimenticata. Tranne qui a Parigi. Qui a ogni solstizio si fa musica praticamente a ogni angolo.
Quando i ragazzi che suonano fuori dal Kanasuk hanno finito, è quasi mezzanotte. Risalgo tutta la piazza e giro a sinistra in rue de la Butte aux Cailles. Appena svolto l’angolo, mi trovo in mezzo a un vero e proprio rave. Dj set da paura e danze sfrenate. Te l’ho detto. Ho tutta la notte. Mi prendo una birra a Le Merle Moqueur e mi butto nella mischia.
Paname, non c’era bisogno che organizzassi una festa simile per fare pace. Scherzo, lo so che è capitato tutto per caso. Però non toglie niente a nessuno se facciamo finta che l’hai organizzato apposta. Ti voglio bene Paname, o forse ha ragione mia moglie: ti voglio bene Tredicesimo.
Stasera la musica. Domani i fumetti.
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.