Tre piani di fumetti. Diario di una visita alla mostra Bande dessinée 1964-2024 (2 di 3)

Boris Battaglia | Derive di Quasi |

22 giugno 2024

Il mattino dopo piove. È un tempo perfetto per infilarmi al Beaubourg e visitare questa mostra che ho usato come pretesto per tornare a fare pace con Parigi.

Come dice Eric Hazan… lo vedo dal tuo sguardo vacuo di lettore del Tex di Giuseppe Palumbo o di qualsiasi cazzata che riguardi i Vendicatori, che stai dissimulando. Non fare finta: non hai la minima idea di chi cazzo era Hazan e il suo nome non ti dice niente. Non è un male, se hai voglia te lo racconto una delle prossime volte, altrimenti non ci sbrighiamo più e lo so che, pettegolә come sei, quello che vuoi veramente sapere è solo se gli attacchi isterici degli autori (italici e viventi, che i morti, per fortuna, e nonostante gli eredi, se ne stanno zitti) esclusi hanno un fondamento oppure no. Insomma: questa mostra è un momento fondativo come millanta, oppure no?

Alla fine, te lo dico. Però dovresti mettere in conto di alzare il culo e andartela a vedere (eh, lo so, Parigi è cara, ma se rinunci a una settimana agostana in qualche squallidissima spiaggia ligure o romagnola, puoi farcela… come sempre è questione di priorità). In questo senso solo una cosa voglio darti per certa: se Parigi vale sempre una messa, questa mostra vale di certo una mossa.

Ma torniamo a noi. Ti dicevo che condivido quanto sosteneva Hazan in quell’indispensabile saggio che dovresti leggere prima di prendere il primo volo utile per Parigi e che si intitola: Paris sous tension (La Fabrique editions, 2011), e cioè: «non lo chiamo mai “Centre Pompidou”, perché Georges Pompidu aveva un gusto estetico a dir poco deplorevole – il suo ufficio era stato arredato dal pacchianissimo Agam – e si era strenuamente opposto al progetto di Renzo Piano e Richard Rogers, che venne approvato solo grazie alla volontà di Jean Preuvé, presidente della commissione internazionale» che nel 1971 scelse il progetto di quei due giovani sconosciuti, poco più che trentenni, tra i 681 presentati.

Sono un posone, lo sai. E anch’io, come Hazan, preferisco chiamarlo Beaubourg.

Ho già il biglietto. L’ho fatto ieri prima di infilarmi nelle nebbie di Tolbiac. Purtroppo, da dopo il Covid non si è persa l’abitudine di contingentare tutto. Non puoi arrivare quando ti pare. Hai un biglietto con stampato su un orario e devi rispettarlo. Si entra a scaglioni di un quarto d’ora alla volta. Non mi ricordo  a che ora è finita la mia notte ieri, ma adesso – nonostante tutto – mi sento fresco e riposato e, quando prendo la scala mobile per il sesto piano di questa architettura di vetro, acciaio e plexiglass che ogni volta mi ammira e stupisce, il mio spirito critico è più vigile che mai (i due caffe doppi bevuti al Cafè Le Central dentro al Beaubourg – evita di pranzarci, è gastronomicamente una tristezza infinita e pagare così cara la tristezza non ha senso se non sei un turista da comitiva –hanno dissolto il debito di sonno che pagavo agli eccessi di ieri).

Mi mette di buon umore notare quante famiglie, con figli piccoli, salgono con me la scala mobile verso la mostra. Tutti francofoni e la cosa non mi stupisce.

Bip Bip. Il lettore di codici a barre riconosce come valido il mio biglietto. Supero una splendida gigantografia di Blutch che omaggia la Hypocrite di Jean-Claude Forest e sono dentro a una storia lunga ottanta anni, disposta per dodici sale tematiche: Bande dessinèe 1964-2024.

Quando i fumetti hanno smesso di essere letture per gli sciocchi

Non ho alcuna stima per i curatori di questa mostra. Non ne ho per nessuno che abbia potere e capacità compromissoria tali da realizzare una cosa simile. Però sono contento che lo abbiano fatto, perché la domanda che si sono posti per costruirla è fondamentale: in quale momento il fumetto è diventato un costrutto culturale destinato agli adulti? La risposta che si danno colloca questo cambio di paradigma negli anni Sessanta, decennio in cui il fumetto diventa uno degli ambiti espressivi preferenziali della controcultura. Ovvio, le curatrici e i curatori della mostra sono tutti dei vecchi bobos parigini e hanno come idea di adulto se stessi e la loro classe sociale: in quest’ottica accademico-intellettuale alto-borghese i presupposti della mostra sono assolutamente fondati. Presupposti che non hanno nulla a che vedere con la natura ontologica del fumetto e la realtà diffusa del suo pubblico (tranquillә: come tutto l’assunto della mostra allestita qui al sesto piano verrà poi rimesso in discussione al quinto, anche forse involontariamente rispetto ai presupposti dei curatori, lo vediamo dopo) ma che hanno, a livello di immaginario, un peso storiografico con cui, lo ribadisco, non possiamo non fare i conti.

Superiamo la soglia, vieni con me.

Sala 1   Controcultura

L’allestimento di questa prima sala è decisamente scenografico. Mi accolgono, in senso orario, copertine giganti di “Hara-Kiri”, di “Garo”, della Barbarella di Losfeld, di “Bazooka” e di “Zap Comix”. La botta emotiva è forte, ma il mio spirito critico, dopo un iniziale barcollamento, probabilmente anche grazie ai due caffè di cui ti dicevo, riprende subito a fare il suo lavoro. Questa sala è una dichiarazione d’intento, quello che regge tutta la mostra. Non mi lascio coinvolgere.

Il fumetto si avvicina a un pubblico maturo, dicono i curatori, nel momento in cui la controcultura se ne appropria come mezzo comunicativo. E questo, a loro avviso, avviene negli anni Sessanta.

Ora, questo non è tecnicamente del tutto corretto. Perché, se è vero che possiamo considerare la produzione fumettistica europea e giapponese dei tre decenni precedenti agli anni Sessanta come prevalentemente destinata alla “jeunesse”, questo non è assolutamente vero per il fumetto americano (come risulterà chiaro già dalla sala due della mostra e soprattutto al piano di sotto, nell’altra mostra La Bande dessinée au Musée). Comunque, se si mette da parte questa forzatura storica, l’assunto funziona.

Le riviste e i volumi di Losfeld esposti in questa sala vanno dal 1960 (“Hara-Kiri”) al 1974 (“Zap Comix”), e se assumiamo come valida (e non possiamo non farlo) la definizione di John Milton Yinger secondo la quale ci troviamo davanti a manifestazioni di controcultura

«ovunque il sistema normativo di un gruppo contenga, come elemento primario, un tema di conflitto con i valori della società complessiva, dove le variabili di personalità sono direttamente coinvolte nello sviluppo e nel mantenimento dei valori del gruppo e ovunque le sue norme possano essere comprese solo facendo riferimento alle relazioni del gruppo con una cultura dominante circostante»,

tutte le realtà esposte in questa sala ne fanno parte.

A questo punto però si manifestano le assenze. Quelle che ho colto sono almeno tre. Due, non assolutamente necessarie: la rivista “Linus” che proprio nel 1965 porta un contributo decisivo all’adultizzazione del fumetto, ma che può rientrare nella categoria Losfeld, e poi “Cannibale”, del 1977 che però può essere accostata al collettivo Bazooka. Una invece mi è sembrata grave. Ed è “MAD”, è del 1952, è adultissima e senza di lei, è innegabile, non ci sarebbe stata “Hara-Kiri”. A questo punto, mentre mi arrovello sui limiti temporali della mostra e dell’adultizzazione del fumetto, mi trovo davanti agli originali della Barbarella di Jean-Claude Forest. E ammutolisco.

Sala 2 Ridere dal ridere

Dopo tutta quella bellezza entro nella sala numero due, dedicata al “ridere”, assolutamente bendisposto. Con l’incomprensibile assenza di Bonvi (immagino che il motivo sia che il fondo Leclerc non possiede sue tavole), i giganti del fumetto umoristico ci sono tutti, da Jacovitti a Riad Sattouf, passando per Fujiko Fujio. E guarda un po’: c’è anche Harvey Kurtzman, con tre tavole collocabili tra il 1945 e il 1959. A questo punto mi è chiaro che l’intervallo temporale scelto dai curatori è solo un pretesto a cui Thierry Groensteen ha cercato, con un lungo intervento pubblicato sul catalogo, di dare – senza riuscirci appieno – valore critico, e fondatezza storiografica. In realtà un pretesto su cui far ruotare le tavole esposte nelle 11 sale successive alla prima seguendo una serie di tematiche che, a mio avviso, hanno una necessità più accademica che critica.

Le altre 10 sale

Nell’ordine i temi delle sale dalla 3 alla 12, sono i seguenti: Spavento (e le tavole del Gen di Hiroshima di Keiji Nakazawa mettono davvero i brividi), Sogno (originali di Fred che avrei voluto rubare), Giorno dopo giorno, Autonarrazione (e qui le assenze di Andrea Pazienza e anche di Zerocalcare si sentono), Bianco nero e a colori (le tavole e i carnet di Mattotti me li passo via, ma Moebius sto a guardarmelo per tempo infinito), Storia e memoria (mi liquefaccio davanti agli originali di Jacques Tardi),

Letteratura (forse la sala in cui sosto meno tempo), Fantascienza (giuro, mi eccito con Philippe Druillet e giungo a godimento, di nuovo, con Forest), Città (Marc-Antoine Mathieu su tutto e tutti), Geometria (forse l’accostamento più interessante e meno banalmente accademico: Chris Ware, Yuichi Yokoyama e Guido Crepax).

Esco dalla mostra con negli occhi Valentina nel metro. Ha senso. L’assunto, diciamolo, decisamente pretestuoso che ha dato l’avvio al percorso lungo il sesto piano del Beaubourg, è stato rimesso in discussione ad ogni tappa. La mappa che ne esce è attualmente la base discutibile ma imprescindibile su cui costruire, attraverso il confronto, un nuovo (sto usando il termine in senso filologico e non televisivo) palinsesto.

Altri piani

Non è finita. L’evento complessivo allestito al Beaubourg lo hanno intitolato La BD à tous les étages. Me ne mancano due. Scendo al quinto, dove all’interno dell’esposizione permanente hanno costruito un discorso forse più coerente di quello al sesto piano. Ma te ne dico domani.

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(Quasi)