«Vattene»

Margherita Govi | Intervallo |

Quando vado a casa di Riccardo rimango ore attaccata alla porta della sua camera. La luce dentro è accecante e io sono una falena.
Quando mi chiede di andarmene faccio un passo dentro e la tempia gli si gonfia immediatamente. Quando dice che sono pazza penso che si sia interessato a come si organizzino i miei pensieri. Mi serve, perché nemmeno io so più come funzionino. Ad esempio mi convinco che se resisto abbastanza sulla soglia mi inviterà a entrare.

«Vattene, ti prego».

Quando me ne vado da quella porta muore Raffaella Carrà. Cambio marca di sigarette ed elaboro il lutto con dignità e in silenzio, l’unico modo in cui mi hanno insegnato a farlo.

Mi lavo i capelli nei giorni stabiliti, infilo i bottoni nelle asole con lentezza e pulisco i pavimenti ogni domenica.

Al lavoro arrivo prima delle altre e lucido le audioguide con vigore, allineandole perfettamente nei loro scomparti. Finito il turno cammino a lungo e a vuoto, passando pericolosamente vicino ai luoghi che frequentavamo assieme. Come un sicario al contrario spero di incontrarlo per farmi del male. È Sara la prima a prendere il coraggio e dirmi quello che stanno pensando tutti. Ha uno sguardo pietoso che mi infastidisce. Fumo una camel blue dietro l’altra con l’intento di confonderla sulla mia identità. A Sara non importa che io sia una persona nuova. Lei vuole, dice, che io pianga. L’accendino si inceppa proprio a questa richiesta e sono obbligata a guardarla negli occhi.

«Sto bene, è stata una decisione presa di comune accordo.»

È una di quelle bugie che sembra di spostare la virgola di una frase per stravolgerne il senso. L’impegno è minimo ma la portata sconvolgente. Scacco matto. Sara si arrende, recupera la borsa e sparisce dalla porta a vetri.

Per allungare le mie passeggiate vado al mare, perché anche nei film di serie B sembra che quella sia la soluzione a tutte le cose. Arrivo in spiaggia come un pentito entra in caserma.
Vado a consegnarmi, a confessare che non sto bene. Sara parte per la Spagna e la accompagno in aeroporto. È contenta di andarsene e non la biasimo. È solo giugno ma si riesce a prevedere la follia di agosto. Io da giorni sono una pessima compagnia e il contesto non aiuta. La città nasconde una nevrosi sottile, di quelle che temi per tutta la vita di avere ereditato ma che si palesa solo in tarda età. In macchina vorrei dirle che ho pianto ma facciamo una classifica dei tormentoni estivi. Mi abbraccia al “kiss and fly” e riparto.

In tangenziale sento le mancanze accumularsi una sull’altra. È mia nonna ad avermi insegnato il rigore della perdita. Vedo la sua sagoma nera chinarsi in una stanza intonsa. Da anni non esce, dice, la casa deve restare pulita. Ogni giorno la schiena arrugginita si arcua verso un punto preciso delle piastrelle lucide. Con la punta dell’indice collassa su una briciola e ritorna in posizione. Il mio rigore è una copia sbiadita del suo. Senza la spinta religiosa non ho la stessa costanza e presto torno alle mie abitudini. Dagli altoparlanti di tutti i bar gracchia la discografia della soubrette.

«E se ti lascia lo sai che si fa?»

Non trovo una regola per colmare i vuoti, è un esercizio di improvvisazione. Sara mi manda foto tutti i giorni. Lei sul bordo di un motoscafo. Lei in spiaggia con dei ragazzi. Una tavola imbandita. Sembra che voglia riempire il mio di vuoto, riesce a vederlo più di quanto non riesca io. Torno alle mie sigarette, le camel fanno schifo. Mi avvicino a un distributore ma la vetrina mi restituisce l’immagine della strada assolata. Mi intercetto nel riflesso e alle mie spalle vedo un’altra figura. I nostri sguardi si incontrano fra le molle vuote. Digito il 23. Mi immagino photoshoppata nelle foto di Sara. Ci tuffiamo dal motoscafo e nuotiamo verso il fondo. È un film di serie A con la saturazione al massimo. Quando riemergo raggiungiamo gli altri in spiaggia e dormiamo nelle tende finché l’alba non ci sveglia.

La luce è accecante e io sono una falena. Un tonfo sordo mi riporta alla realtà. Poi un suono metallico. Mi chino per raccogliere il resto e quando mi rialzo la strada è deserta. Guardo il pacchetto azzurro acceso, ancora intonso nel suo involucro di plastica. Mi fisso nel riflesso e mi dico «Vattene».

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