Entrambe le borracce che posseggo sono tappezzate di figurine. Con anche quelle dei ciclisti, che hanno meno appeal di quelle storiche dei calciatori, i cui album tuttavia esistono.
Ci sono state annate nelle quali, nel tentativo di renderle popolari, le regalavano in allegato a riviste sportive o quotidiani. Ma il ciclismo è uno sport diverso: non solo i calciatori sono anche stilosi, oggi, modaioli nei tagli di capelli e abbigliamento (i calzettoni abbassati di Paulo Dybala, quelli sopra il ginocchio di Theo Hernandez per citare qualche esempio) è anche nei diversi gesti tecnici che si crea l’elegia. Il ciclismo ha nella pedalata un unico gesto, che sia seduta o sulle gambe sempre di pedalata si tratta e caschetto e occhiali protettivi non aiutano dell’immedesimazione.
Allora ho pensato di farlo io, questo tentativo di immedesimazione: disegnare i volti dei ciclisti, persone che potremmo incrociare per strada e nemmeno riconoscere.
Tappa 1: Venaria Reale – Torino, sabato 4 maggio
Nel 75esimo anniversario della tragedia di Superga quando, il 4 maggio 1949, l’aereo che ospitava il Grande Torino, l’equipaggio e diversi giornalisti si schiantò sulla collina sopra la città non vedendola a causa della nebbia, parte il Giro d’Italia, omaggiando la grande squadra.
“Solo il fato, li vinse” è la famosa frase che descrive quel Torino, che regalò emozioni e speranza agli italiani usciti dalla guerra e dalle nefandezze del nazifascismo. Con le imprese ciclistiche di Gino Bartali e di Fausto Coppi, furono proprio i granata, il loro gioco, il loro essere compagine, il loro stare in campo che donava spensieratezza e sogno, furono loro la magia di un’Italia che tornava a vivere. Torino è splendente nonostante tutto: il rosa e il granata si mescolano incrociandosi negli sport nazionali in una strana forma di continuità storica.
Lo dicono tutti, dai telecronisti della RAI ai corridori stessi intervistati prima della tappa, l’emozione è tangibile, la voce carica e propositiva, vecchie glorie ora commentatori ricordano i loro Giro e faticano a rimanere freddi nella voce spesso non fermissima.
Di Filippo Fiorelli ne scrive anche “GirodiRuota”, il sito del giornalista Giovanni Battistuzzi: la sua fuga insieme ad altri cinque ciclisti (l’altro italiano era Andrea Pietrobon della Polti Kometa) per un attimo ha acceso la speranza di una fuga. Ma questo è anche il Giro: avere la possibilità di rivedere ciclisti e vederne i miglioramenti. Fiorelli nel 2021 ha vinto il Poreč Trophy, indosserà la prima maglia ciclamino in corsa (l’ha presa il vincitore di tappa, l’ecuadoriano della Ineos Jhonatan Narváez, ma per le regole di gara le maglie devono sempre essere indossate, ecco perché se il primo classificato ha già un’altra maglia, la indossa il secondo in classifica), viene ospitato al Processo alla Tappa della Rai dandogli una visibilità ulteriore, oggi noi appassionati di ciclismo ne dedichiamo righe e disegni. Per me, poi, dopo la Vuelta del 2020, inizia la serie delle figurine. Ogni stagione dei miei ritratti, le mie “figurine”, scelgo una gara ciclistica di cui ritraggo quelli che per me sono i protagonisti. Nella tappa 1 è Filippo Fiorelli della VF Group – Bardiani CF – Faizanè.
Tappa 2: San Francesco al Campo – Santuario di Oropa (Biella), domenica 5 maggio
Nella giornata del ricordo di Marco Pantani che sulla salita di Oropa, nel 1999, sistemando la bicicletta dopo l’uscita di catena, risalta in sella e va a vincere superando 49 corridori, i giornalisti fantasticano già che 25 anni dopo sarà Tadej Pogacar a replicare quell’impresa.
Il Giro d’Italia 1999 fu gioia e infinito dolore: fu il Giro che decretò la fine sportiva di Marco Pantani, quello della tappa a Madonna di Campiglio, del doppio antidoping al cesenate, dell’estromissione discussa, mai chiarita, complottistica da quella competizione quando Pantani era già maglia rosa e apparentemente nessuno avrebbe potuto riprenderlo.
Fu anche la gioia di quella salita a Oropa, fu anche la gioia di quella primavera che diventava estate nei miei ricordi riminesi e la gente che si accalcava davanti alla televisione per le pedalate del romagnolo col pizzetto e la bandana.
Oropa stessa gli dedica un contributo, una bicicletta gigante coi colori di quell’anno.
Per cui la narrazione della tappa è tutta improntata su come, quando, se Pogacar replicherà quell’impresa, ne batterà il record nell’ascesa, vincerà epicamente come Pantani decenni prima.
No, non lo farà. Cadrà inavvertitamente per una foratura già segnalata mentre aspettava l’ammiraglia per il cambio di bicicletta, sarà trainato in salita mantenendo l’andatura nel gruppo dei migliori dal compagno di squadra, il polacco Rafal Majka, che quando si sposterà vedrà partire in salita con la sua solita progressione esplosiva che spezza le gambe di tutti proprio Pogacar che andrà a vincere prendendosi la maglia rosa, festeggerà lanciando gli occhiali sulle cui lenti ci sono gli sponsor e li lancerà al pubblico indossando già quelli con la montatura rosa, chiederà al suo staff “Quante interviste oggi?” già in rosa scendendo dal palco in quei piccoli, brevissimi, momenti di solitudine dopo la discesa dal palco.
Ma c’è anche la narrazione pura e semplice della tappa, la cronaca vera e propria, che è quella che dice che fino allo scatto fulminante del vincitore Pogacar c’è stato un gruppo compatto dei migliori e che si è sfilacciato lentamente nelle continue salite e discese, nei continui scatti e controscatti, c’è una cronaca vera e propria che dice che in quel nugolo di ciclisti l’unico italiano, per altro insospettabile considerata la narrazione dei giornalisti e degli esperti che vuole il protagonista italiano di questo Giro nel pistolero Antonio Tiberi della Bahrein (la sua nuova squadra, licenziato dalla Trek all’epoca Segafredo e oggi LIDL, ciclista indubbiamente di prospettiva, peccato per l’uomo che sparò con un fucile ad aria compressa a un gatto che gli dava fastidio, uccidendolo), Tiberi che invece non ha tenuto il ritmo distaccandosi dai migliori mentre Lorenzo Fortunato dell’Astana è rimasto lì, classificandosi nei primi dieci di una tappa con una salita micidiale.
Ecco che per me la figurina della seconda tappa invece è proprio Lorenzo Fortunato che ha già dimostrato il suo valore (professionista dal 2019, nel 2021 vince una tappa al Giro sul mitico arrivo del Monte Zoncolan e la Adriatica Ionica Race), che ha bisogno di avere maggiore fiducia e di non essere il solito italiano in squadre straniere che viene sempre sacrificato come gregario, perché la gamba e la testa ci sono.
Dirà il giorno dopo in telecronaca su Eurosport, Moreno Moser, nipote di Francesco Moser ed ex ciclista a sua volta, mentre per gli altri continua la narrazione su Pogacar: Chi capisce di ciclismo sa che la grande impresa ieri l’ha fatta Fortunato arrivando col gruppo dei migliori che vale quasi quanto una vittoria.
Mi crogiolo nel mio orgoglio per un nanosecondo.
Tappa 3: Novara – Fossano, lunedì 6 maggio
Nel giorno del grande sciopero dei giornalisti RAI anche il Giro rimane muto con le sole immagini del gruppo colorato dei ciclisti nella distesa delle campagne piemontesi.
Le prime tappe di questa edizione del Giro non sono lunghissime, una media di 160 chilometri con le prime due addirittura di montagna e già la terza adatta ai velocisti, ecco perché gli uomini di classifica pedalano concentrati ma in modalità crociera lasciando spazio a chi vuole conquistarsi punti per la maglia ciclamino.
Chi segue il ciclismo sa che nei grandi giri non c’è solo la maglia della vittoria (rosa al Giro, gialla al Tour de France, rossa alla Vuelta di Spagna) ma un ventaglio di altre maglie altrettanto ambiziose e di caratura.
La più famosa è indubbiamente la maglia bianca a pois rossi che al Tour conquistano i “grimper”, gli scalatori che fanno classifica con i punti dei GPM, i Gran Premi della Montagna sulle cui cime sono posti traguardi volanti. Nel corrispettivo italiano è blu, mentre ciclamino per i velocisti e bianca per i giovani, al Tour sempre bianca per i giovani ma verde per i velocisti, tant’è che Peter Sagan prima di lasciare il professionismo ne ha collezionate ben 7 per altrettanti Tour. Il mio babbo non sopportava molto i velocisti, almeno quelli che dopo aver conquistato la maglia lasciavano la competizione: uno era Marcel Kittel, insopportabile perché appena conquistata matematicamente la maglia verde lasciava il Tour, e infatti gli piaceva Sagan o comunque quei velocisti che onoravano la gara fino all’ultima tappa.
Tappa per velocisti quindi, per quanto uno strappo negli ultimi 10 chilometri nei quali Pogacar scatta inseguito da Geraint Thomas e un altro corridore della EF sembra rimescolare le carte. E infatti le rimescola perché molti velocisti non reggono la ripresa dei due e la volata è viziata del buco creato. Il friulano Jonathan Milan della LIDL – Trek è uno dei favoriti.
Se c’è altro, insieme agli spaghetti nel menù tradizionale, che l’Italia ha lasciato all’Etiopia, all’Eritrea e alla Somalia durante l’occupazione fascista, è il ciclismo. Di biciclette se ne vedono, ad Addis Abeba, appena fuori dalla città, ma quelle professionistiche saltano agli occhi e non è del tutto infrequente vederne quando si è lì in città.
Biniam Grmay è un ciclista eritreo. Fa parte di una generazione di professionisti che provengono proprio da quel trittico di italica vergogna e negli anni passati ha avuto picchi di condizione da fargli vincere, tra altre gare e tappe, anche quella di Jesi al Giro 2023.
In questa volata così lunga, Grmay arriva quarto ed è sua la figurina della terza tappa.
Tappa 4: Aqui Terme – Andora, martedì 7 maggio
Una parte del percorso è lo stesso della Milano – Sanremo ed è la tappa che passa dal Piemonte alla Liguria. Una Liguria che si sveglia nel sole di Andora e, in quel di Genova, con gli arresti del Presidente di Regione, Giovanni Toti, e di altri volti imprenditoriali noti nella zona tra cui l’ex Presidente del Genoa degli anni ‘90, Aldo Spinelli.
Andora è bagnata dal sole – e persino il palco del Processo alla tappa è in riva al mare – mentre la tappa è proprio bagnata: nuvole scure e persino basse quando i corridori attraversano la prima ascesa che svalica in Liguria per poi prendere così tanta pioggia che la caduta più corposa vede Grmay, figurina della terza tappa, insieme ad altri rotolare giù. Mentre tutti ripartono, l’eritreo scuote la testa, indica dove gli fa male, si fa aiutare a salire sulla bicicletta dallo staff dell’ammiraglia, ci prova a inseguire il gruppo, fino a che su una curva in discesa scivola di nuovo, e allora non c’è più nulla da fare: Biniam Grmay deve lasciare il Giro.
Filippo Ganna è un velocista, la sua squadra è la INEOS e il suo programma annuale prevede anche tanta pista. Jonathan Milan, uno dei nomi della tappa di oggi, è suo compagno di quartetto quando gareggiano nel velodromo. Con loro, Simone Consonni.
Le squadre della pista sono molto vincenti: ne faceva parte anche Elia Viviani che però ha sempre preferito anche altre specialità su pista. Sono tutti corridori velocissimi e Ganna è, nel 2023, l’uomo più veloce del mondo su bicicletta, battendo il record dell’ora.
Fa due cose Ganna oggi: la prima si esaurisce presto, cerca di andare in fuga ma l’ammiraglia lo fa rientrare in gruppo; la seconda, quando già è spuntato il sole ligure, scatta ai meno 5 dal traguardo con la seria intenzione di passarci sotto da primo. Ma viene ripreso (e nelle interviste RAI di fine gara la sua delusione sarà notevolmente evidente) e allora i team si organizzano nei treni per i velocisti nella volata finale.
Simone Consonni in pista è un gigante, ma la pista ha un modo diverso di far parte della squadra: è come la staffetta, la propria parte è, potrebbe essere, decisiva per la vittoria finale. Su strada, far parte della squadra ha un significato diverso: si è gregari o si è i capitani. Simone Consonni si è specializzato in un ruolo particolare, “l’ultimo uomo”, cioè quel corridore che rimane fino all’ultimo con il velocista e lo lancia nella volata finale; è quindi colui che scatta a manetta inseguito da un compagno e poi si fa da parte mentre quell’altro va, nelle migliori letture del momento, vincere la gara.
Quando era alla UAE Emirates lo stesso team non aveva capito cosa volesse essere, poi è arrivato Tadej Pogacar e quella UAE non esiste più; alla Cofidis in questo ruolo lanciava Elia Viviani; arrivato alla LIDL – Trek è l’ultimo uomo di Jonathan Milan. Che vince la tappa, un anno esatto da un’altra sua vittoria al Giro. Ma essere l’ultimo uomo non è facile, spesso è proprio quello che vale il 90 per cento della vittoria del velocista cogliendone l’istante perfetto nel quale lanciarlo.
Simone Consonni è la quarta figurina di questo Giro d’Italia 2024 in un dettaglio tecnico, per altro, che non interessa a nessuno ma che mi rendono questi piccoli ritratti gustosissimi da disegnare. Anni fa avevo comprato a un Carrefour di Nizza in zona Richier, un album di fogli 24×33: un leone acquarellato in copertina usciva dal foglio bianco esaltandone la tenuta della grammatura della carta. In effetti quando mi è capitato di usarla per un’illustrazione mi sorpresi dell’ottima qualità, ottima la stesura della china col pennino, ottima la brillantezza dell’acquerello. Usandola per queste figurine, ritrovo quella sorpresa e quella fiducia negli strumenti che si usano in questo lavoro per chi, come me, lavora ancora su carta e ne ama qualunque particolare, quasi che trovo sia un peccato che le figurine siano solo in bianco e nero.
Tappa 5: Genova – Lucca, mercoledì 8 maggio
Nella Genova della corruzione, la cui notizia apre tutte le prime pagine dei quotidiani della Nazione, parte la tappa 5 del Giro.
Nervi (dove ha lo studio il padre di “Julia”, Giancarlo Berardi), Recco (la focaccia al formaggio più buona della Liguria), Chiavari (la mia Chiavari, quella che conosco meglio e che ha nella fabbricazione della sedia chiavarina, leggerissima e splendida, la sua caratteristica principale), i ciclisti passano a Rapallo sul lungomare e poi prendono la panoramica che in auto ho percorso così tante volte in dieci anni, che non le conto più. Noto subito la strada rifatta in tantissimi tratti che erano grattugia, che oggi rendono al meglio tra salite e discese della strada panoramica mentre scorci incantevoli nella giornata di sole fanno venire voglia di una birra in spiaggia invece che il lavoro in studio. Il Giro passerà anche da Lavagna e da Sestri Levante, poi salirà per le colline e gli altopiani del Passo Bracco arrivando a Lucca, un’altra città che molti del settore del fumetto nazionale conoscono bene. Non a caso, il disegnatore inglesissimo di Nottingham, Karl Kopinski, grandissimo appassionato di ciclismo e autore del manifesto del Lucca Comics&Games 2015, non solo è lì, a Lucca, per godersi l’arrivo della tappa, ma in giro per la città toscana ci sono biglie da spiaggia enormi con all’interno le sue illustrazioni dei ciclisti, da Moser a Pantani tra gli altri, come fossimo rispediti, in un vortice di adolescenziale nostalgia, sulle spiagge a costruire piste e curve e a fare gare di biglie.
Ma la figurina di oggi, a prescindere dal vincitore, è dedicata all’ultimo numero 108 che il Giro d’Italia abbia più visto, perché quel numero infatti da quel giorno di quasi tredici anni fa, quel 9 maggio che non è solo la ricorrenza degli omicidi di Peppino Impastato e di Aldo Moro, è stato ritirato. Da quel 9 maggio 2011 nessun ciclista ha più indossato quel numero.
La tappa era inversa, si veniva da Parma e si scavallava tra Toscana e Liguria per arrivare in volata a Rapallo. Proprio su quelle strade, a venti chilometri dall’arrivo, il belga della Leopard Trek, il 26enne Wouter Weylandt, faccione tipicamente belga dal mento importante, ciuffo ingellato come si usava allora, fisico imponente e muscoloso, specializzato nelle volate, presumibilmente si volta in discesa per cercare qualche compagno che lo aiutasse nel tirare il gruppo mentre sfreccia a 70, 80 chilometri all’ora. Una disattenzione che gli risulterà fatale. Weylandt perde il controllo della bicicletta, cade sbattendo la testa prima su un muretto rettangolare tipico di quei tornanti che delimitano le curve per poi sbatterla di nuovo e cadere rovinosamente sull’asfalto, rimbalzando vicino allo scolo dell’acqua della discesa. I soccorritori racconteranno che la situazione era apparsa fin da subito disperata, che usarono subito, secondo il protocollo, il rianimatore, che si accorsero subito che il ragazzo era morto sul colpo.
Quando inizia il Processo alla tappa, la giornalista conduttrice dell’epoca, Alessandra De Stefano, temporeggia nel rilasciare notizie sulle condizioni del ciclista: fino a quando non c’è l’ok della squadra, i giornalisti di tutte le redazioni aspettano a fare cronaca. La moglie di Weylandt, Anne-Sophie, è incinta al quinto mese del loro primo figlio, viene avvisata prima la famiglia che cerca il momento per dirle della scomparsa di Wouter. Anne-Sophie arriverà il giorno dopo a Malpensa, accompagnata dal padre, per raggiungere l’obitorio di Lavagna per il riconoscimento del marito.
Negli anni successivi tantissimi ciclisti avrebbero poi dedicato le loro vittorie a Weylandt: Mark Cavendish esibì il numero 108 quando vinse una tappa al Giro 2013; Tim Merlier, maglia ciclamino fino alla vittoria di Milan, ha vinto ricordando il connazionale; nel decimo anniversario, nella tappa del 9 maggio 2021, Stupinigi – Novara, la partenza vede il numero 108 gigante davanti ai ciclisti; nella stessa tappa di oggi il ricordo di Weylandt è nelle parole e nei pensieri dei telecronisti e degli appassionati. A Isola di Borgonovo a Mezzanego, luogo dell’incidente e oggi passaggio di pellegrinaggio per i ciclisti amatoriali della zona e non solo, su quella curva maledetta spesso colorata di fiori e di candele, oggi campeggia una stele in memoria di Wouter Weylandt.
Tappa 6: Torre del Lago Puccini (Viareggio) – Rapolano Terme, giovedì 10 maggio
Toscana pura. Purissima. Cipressi, dolci colline, pini: sembrano gli scorci nelle vignette di un fumetto di Flavia Biondi. L’ascesa a Volterra è il punto più delicato e GPM della tappa e quando ci si arriva, ai meno 103 chilometri dall’arrivo su 180, la fuga non è ancora partita. Anche perché la tappa di mercoledì 9 maggio ha visto i secondi battistrada scattati (dopo i primi che ci hanno provato e prontamente ripresi) lasciati andare così ingenuamente che uno di loro poi, il francese della Cofidis Benjamin Thomas, ha vinto. È un Giro strano da questo punto di vista, tanto tattico nel non riuscire a lasciare andare i fuggitivi o forse, semplicemente, essendo ancora la prima settimana e quindi con ancora “forze”, il gruppo rimane insieme fino all’ultimo. Probabilmente, alla terza settimana vedremo più fughe e più sorprese nelle vittorie.
È la tappa dei 12 chilometri di sterrato. La Toscana, anche grazie all’Eroica (una gara di appassionati con abbigliamento e bici vintage e una serie di pause in stand adibiti lungo tutto il percorso, tra cui dame di Chianti, rende molto difficile arrivare sobri al traguardo) che poi, nella sua versione ufficiale è diventata Le Strade Bianche con lo spettacolare arrivo in Piazza del Campo, rispetto ai ciottolati del nord della Francia e del Belgio fiammingo, è riuscita a conservare, non con poca difficoltà, questi vecchi sentieri sdrucciolevoli che servivano come collegamento tra un campo all’altro.
Ed è al tappa della polvere: nuvole di polvere bianca alzate dalle biciclette, dalle auto e dalle moto, la tappa nella quale a un certo punto il gruppo lascia andare tre fuggitivi, tra i quali Julian Alaphilippe che finalmente dà parvenza di uno smalto perso nell’ultimo anno.
Arriverà secondo dietro allo spagnolo della Movistar, Pelayo Sanchez Mayo, in una volata con gambe pesantissime dalla tappa impegnativa.
Tuttavia, in una delle ultime salite per appena 200 metri prende il comando del gruppo, il francese della DSM – Firmenich PostNL, Romain Bardet. Bardet ha una lunga carriera, ha avuto molti alti e bassi e, in rete, si può trovare una foto di lui da piccolo, in compagnia di suo padre sul bordo di un campo di grano, con indosso la maglietta a pois del Tour de France guardando i ciclisti in salita: decenni dopo, nel 2019, da ciclista professionista la vincerà davvero quella maglia a pois. Ha gli occhi dolci, Bardet, lo chiamano “Il Romantico” in Francia, perché ha quel che di romantico come ce lo aveva Thibaut Pinot, che si è ritirato nel 2023 e che con Bardet ha fatto le giovanili. Diversissimi come carattere, meno come caratteristiche tecniche, Bardet è uno scalatore, è spesso stato uno dei nomi che gli esperti davano per vittorioso, come in questo Giro, o almeno un nome che avrebbe potuto insidiare in classifica Tadej Pogacar e Mister G, Geraint Thomas. Ha vinto meno di quello che forse avrebbe meritato, dice “schiacciato” dal passaggio dal ciclismo “romantico” a quello di questi fenomeni computerizzati, a questo ciclismo moderno che, dice, fatica a ritrovarcisi. E Bardet è stato il primo soccorritore di Julian Alaphilippe quando il francese cadde nella scarpata alla Liegi del 2022 rinunciando alla gara. Al contrario, il primo giorno Bardet ha avuto problemi di stomaco, il secondo si è ripreso pur affrontando una tappa difficile fino a quell’accelerazione che ha fatto pensare che forse i problemi per la DSM (si ipotizzava un virus nella squadra considerata la condizione di Bardet, di altri ciclisti tra cui Jasper Philipsen e del ritiro di Bram Welten alla seconda tappa) fossero risolti o quantomeno stessero iniziando a risolversi.
Quell’iniziativa fa ben sperare che Romain Bardet magari non vincerà la maglia azzurra degli scalatori, magari non vincerà nessuna tappa, ma concorrerà nella top ten del Giro.
Tappa 7: Foligno – Perugia, venerdì 10 maggio
La cronometro di 40 chilometri che ha delle pendenze decisamente importanti, soprattutto dopo i primi 34 chilometri di piano, vede una salita nella quale anche Filippo “Top Ganna” Ganna, campione italiano nella crono, campione dell’ora, campione in generale, arriva faticosamente nonostante la raffinatezza di postura. È solo quando si toglie casco e occhiali e si slaccia parte della tutina che boccheggia, ma a quel punto il primo in classifica, prima della partenza dei migliori, è lui.
C’è stato un momento nel quale, orfani di Vincenzo Nibali che aveva lasciato mesi prima, gli esperti e/o la narrazione giornalistica doveva e/o voleva trovare forzatamente un successore degno del campione siciliano. C’è stato questo momento di abbandono e di sconforto osservando ciò che il ciclismo italiano stava proponendo, eppure di ciclisti in prospettiva ce n’erano. La verità è che Vincenzo Nibali è di quella generazione di ciclisti completi, unici, che sapevano fare bene le corse a tappe, le corse di un giorno, le crono, mentre nel ciclismo moderno i ciclisti italiani, quantomeno, sono più specialistici e meno competitivi se non nella loro specialità. Per arrivare ai livelli di Nibali, bisogna guardare a Wout Van Aert, a Tadej Pogacar, nemmeno Jonas Vingegaard è “completo” (lui le classiche di un giorno non le fa, per dire), nemmeno Mathieu Van der Poel che è inopinabile sia un campione eppure nelle corse a tappe non è proprio nel suo. Per cui quando Filippo Ganna si è affacciato al ciclismo su strada, lui che ama la pista così come Van Aert e Van der Poel amano il ciclocross, venendo quindi da altre specialità e vedendo le prime vittorie del piemontese di Verbania, gli esperti hanno proclamato Ganna il the new best thing della qualunque sperando in una sostituzione, di cuore e presumibilmente di titoli di giornale, immediata e quasi indolore di Nibali.
Ma alla prima occasione Ganna ha sottolineato subito che lui alla Ineos Grenadiers sta bene, lui che difficilmente è capitano nelle corse a tappe, lui che ha nelle crono e in alcune tappe di libertà le possibili vittorie e a lui, questo stile di corsa, va benissimo. Perché quando insistentemente si fantasticava la prospettiva, immotivata, che Ganna potesse diventare il nuovo Nibali (ossia il nuovo Ciclista Italiano per eccellenza), non solo lui non ci ha mai pensato, ma si è speso anche per far capire che non è mai stato un suo obiettivo, esserlo.
Presa coscienza di questo aspetto, gli esperti si sono “accontentati” dei successi con il contagocce del piemontese, forse arrivando a capire che il ciclismo di oggi ha i suoi campioni, ma non è più quello di Merckx, non è più nemmeno quello di Pantani, non è più nemmeno quello di Nibali che ha smesso nel 2022, tant’è che in questa crono “la notizia” è il cambio con il wireless della Ineos mantenendo una corona che non ha bisogno dello scalo di catena. “La tecnologia…” si è sentito dire sottovoce, eppure proprio la cronometro ha visto i maggiori cambiamenti dovuti all’evoluzione tecnica, di materiali, di biciclette, di allenamento (la stragrande maggioranza fa le prove nella Galleria del Vento di Maranello) nell’implementazione della specialità.
Nel giorno dopo dell’ennesimo incidente stradale che sacrifica la vita di un ciclista, di un ragazzo che sognava di diventarlo, un ciclista professionista forse, il quasi 17enne Matteo Lorenzi viene travolto da un furgone che non rispetta lo stop. In un’Italia che non ha mai fatto i conti col fascismo, non ha nemmeno mai fatto i conti con una cultura che vede la strada, organizza il sistema urbanistico, solo per le automobili, non pensando mai che va ripensata la viabilità anche sulle esigenze del pedone e del ciclista.
Nel giorno della tappa di 100 anni fa, una tappa di 300 chilometri che vedevano la prima e unica donna partecipare al Giro d’Italia, Alfonsina Strada, percorrere quasi lo stesso itinerario, arrivando con un ritardo clamoroso ma inevitabilmente diventando l’eroina di quell’edizione fino a essere sempre scortata fino alla fine dell’evento, la figurina della prima delle due cronometro del Giro 2024, è Filippo Ganna. Che non vince la crono perché c’è quel fenomeno di Pogacar che riesce a fare quell’inferno di percorso in 17 secondi di meno, demolendo qualunque possibile avversario, Geraint Thomas su tutti.
Tappa 8: Spoleto – Prati di Tivoli, sabato 11 maggio
Tappa di salite e di fatica, pendenze importanti e arrivo di quelli da cartolina.
Tra i fuggitivi che riescono piano piano a dare oltre 2 minuti al gruppo, ci sono Julian Alaphilippe che riprova a sgasare, Romain Bardet, Alessandro De Marchi e una vecchia conoscenza del Giro, il colombiano Nairo Quintana che con Vincenzo Nibali ha regalato Giri davvero emozionanti, come quell’anno che a furia di studiarsi, tappa dopo tappa, tattica su tattica, si creò la situazione classica del “tra i due litiganti, il terzo gode” e quell’anno infatti vinse l’ecuadoriano Richard Caparaz.
È la tappa che attraversa l’Umbria per arrivare in Abruzzo, a Prati di Tivo appunto, una di quelle tappe che a guardarla dalle panoramiche fa solo venire voglia di andarci, in Umbria e in Abruzzo, perché i luoghi, le montagne, le colline inquadrate sono incantevoli, come la Val Nerina, un vero spettacolo.
La fuga è davvero bella, per qualche momento personalmente spero che scatti qualcuno in quelle ascese che fanno innamorare del ciclismo, invece è tutto studiato e il gruppo non lascia mai andare veramente i fuggitivi. Riassorbiti, l’ultima, decisiva salita vede il francese della Decathlon – AG2R Paret-Peintre che ci prova, ma è solo un attimo di respiro perché il gruppo vede Rafal Majka che “tira” Pogacar e ormai sanno tutti che, se si sposta Majka, scatta lo sloveno per andare a vincere. Nel gruppo dei migliori ci sono tutti, Martinez, Thomas, Fortunato, che poi si stacca, gli uomini di classifica, mentre Antonio Tiberi, il pistolero, che nella crono del giorno precedente ha ricucito lo scarto rientrando nella top ten, parte un paio di volte.
La sensazione è che Pogacar voglia asfaltare questo Giro e non solo dimostrare che è il più forte ma che, semplicemente, non ce n’è per nessuno.
Uno dei primi che va ad abbracciare Pogacar è Rafal Majka, che nel primo allungo trova la forza di rientrare e aprire allo sloveno per l’ultimo scatto.
Gli esperti lo notano, lo sanno, eppure questi gregari (Majka ha avuto una bella carriera, ha vinto le sue corse e oggi ha questo ruolo comunque decisivo) vengono troppo spesso tralasciati nella cronaca della giornata. Figurina della tappa 8, il polacco della UAE Emirates Rafal Majka.
Tappa 9: Avezzano – Napoli, domenica 12 maggio
E poi capita la domenica che è impossibile collegarsi, se non solo quando siamo sul pullman che da Roma (Museo Storico della Liberazione di Via Tasso e, successivamente, la visita alle Fosse Ardeatine negli 80 anni del tragico anniversario dell’eccidio perpetrato dai nazisti con l’aiuto decisivo dei fascisti che procurarono 50 nomi che lì, alle Fosse, hanno avuto degna sepoltura) ci porta a casa nelle Marche.
L’umore ovviamente non è proprio quello che serve per godersi la festa del Giro d’Italia per cui quando mi collego con l’app dell’iphone c’è Julian Alaphilippe che sembra essere scattato in una fuga e sta per essere ripreso dal gruppo. E quando accade, in una tappa nella quale Jonathan Milan deve mettere più punti in saccoccia per la maglia ciclamino possibilmente vincendo la tappa, una tappa disegnata per i velocisti, pur dovendo partire prima nella volata perché Narvaez allunga a tal punto quasi da fregare tutti, vince però l’olandese della Visma Leake a bike, Olav Kooij.
Saprò solo dalla sintesi che la fuga viene condotta da due ciclisti della Polti Kometa, Mirco Maestri e Andrea Pietrobon, saprò solo dopo di una banale caduta di Geraint Thomas a una rotonda – Thomas che a fine tappa dirà in un’intervista, tra le altri frasi: “C’erano anche grosse buche dappertutto sulla strada, […] fortunato ad essere ancora vivo.” -, saprò solo dopo che Julian Alaphilippe scatta ai meno 27 dal traguardo raggiungendo i due della Polti Kometa e formando un gruppetto di cinque dal quale il francese scatta ancora, lasciandoli uno a uno tutti indietro.
Avrebbe meritato la figurina anche ieri, oggi è tutta sua, che ci ha provato e riprovato: Julian Alaphilippe.
Pausa, lunedì 13 maggio.
Tappa 10: Pompei – Cusano Mutri (Bocca della Selva), martedì 14 maggio.
Si vocifera di un virus, presumibilmente intestinale. Non partono tre corridori, tra cui il vincitore della tappa di domenica Olav Kooij, febbricitante. La qual cosa mi fa venire in mente che, nella prossima sessione di figurine dedicata a una gara di più tappe, potrei disegnare chi è costretto a lasciare la gara, considerato che ci sono anche nomi importanti. Come anche, nei giorni precedenti, il francese Campione Europeo della Visma Lease a bike Christophe Laporte, per altro già sostituto del belga Wout Van Aert, infortunato.
La narrazione giornalistica vuole che la ripartenza dopo il giorno di riposo sia per molti corridori nocivo, per altri meno, ma per i più difficilissimo.
Alessandra De Stefano è una giornalista sportiva che ha nel ciclismo il suo sport per eccellenza: è bravissima e ha condotto il Processo alla tappa per diversi anni. Era lei che dovette annunciare la morte di Wouter Weylandt al Giro 2011 e lo fece con un’eleganza, una dignità per la famiglia, una raffinatezza che la si ricorda ancora oggi, un decennio buono dopo. Poi è diventata anche direttrice di Rai Sport e ha svolto un lavoro più d’ufficio che non “televisivo”. Per cui da qualche anno il Processo è condotto da un altro giornalista, Alessandro Fabretti, che dopo i primi momenti di ambientamento, dal 2023 è diventato di quei conduttori che cercano sempre la polemica. Nella tappa di oggi, per esempio, si ostinava a sottolineare come i ciclisti avrebbero dovuto attaccare Pogacar, ancora in maglia rosa da quando l’ha conquistata alla seconda tappa, per testarlo e magari approfittare per rubargli qualche secondo o persino minuto. La stragrande maggioranza degli ospiti, ex ciclisti oggi commentatori, con cognizione di causa gli spiegavano che sprecare energie per una tattica di cui l’esito non era certo, avrebbe complicato invece di semplificare la situazione e, soprattutto, avrebbe ridotto energie preziose per la terza settimana dove tantissime volte si sono visti letteralmente crollare maglie rosa che sembravano definitive. Niente, Fabretti come un asfaltatore della Cat non s’è risolto a cambiare idea.
Da spettatrice quindi, non sempre ho voglia di seguire il Processo per ascoltare uno che quasi ci prova gusto a inseguire polemica.
La tappa, interamente in Campania, la attraversa, fermandosi al confine con il Molise.
I giornalisti la chiamano “tappa Paret-Peintre” perché nel Giro 2023, nella stessa zona, vinse Aurélienne Paret-Peintre più grande di qualche anno del 21enne Valentin che scatta e, rimanendo da solo, va a vincere la tappa 10.
Sul profilo di X del Giro c’è un video dell’arrivo del giovane Valentin – un ragazzo esilissimo, dagli occhi molto dolci e con questo pizzetto che non sta quasi mai bene a nessuno, purtroppo nemmeno a lui -, che esulta nella sua prima vittoria in carriera da pro ben 7 volte, tra mani in aria, pugno chiuso, urla varie e mani sul caschetto incredulo della sua accelerazione, resistenza e vittoria finale.
Quasi in lacrime su quel traguardo, con quegli occhi così puri e ingenui che non credono a ciò che hanno appena fatto e vissuto.
Ça va sans dire: la prima pagina de “L’Equipe” di mercoledì 15 maggio è un tutta pagina con Valentin che esulta. Immagino io, di quelle che si chiamano i genitori per dire loro di prenderne una copia da poter incorniciare per i ricordi di carriera.
Tappa 11: Foiano di Val Fortore – Francavilla al Mare, mercoledì 15 maggio.
Confermato il virus anche alla luce dell’ennesimo ritiro, per altro prestigioso, quello della maglia bianca Cian Uijtdebroeks che permette quindi al pistolero Antonio Tiberi di indossarla a fine tappa, la bellezza del Molise e dell’Abruzzo probabilmente la sanno solo chi lì continua, e vuole, abitarci.
Termoli, Vasto, Punta Aderci, un filotto dietro l’altro di panorami incantevoli.
Altra tappa con il finale per i velocisti, vince Jonathan Milan, figurina della tappa 11, ancora lanciato perfettamente da Consonni e con alle ruote il belga della Soudal Quick Step, Tim Merlier, che già era stato qualche giorno in maglia ciclamino, che però rimane sulle grosse spalle di Jonathan rinforzandone la classifica a punti.
Al Processo alla tappa intanto Fabretti, non avendo nulla su cui polemizzare a livello di corsa, si scatena mostrando la prima pagina de “L’Equipe” con Valentin Paret-Peintre che esulta e fa un paragone piuttosto desolante con i tre principali quotidiani sportivi in Italia, un’atavica polemica che va avanti da prima che Fabretti se ne accorgesse. Va ricordato che mercoledì sera c’era la finale di Coppa Italia, vinta clamorosamente dalla Juventus sull’Atalanta, per cui sperare che “TuttoSport” o “il Corriere dello Sport”, juventinofili, avessero un trafiletto sulla vittoria di Milan fa sorridere per l’ingenuità. “La Gazzetta” quantomeno in prima pagina il trafiletto, piccolo piccolo vicino a una pubblicità, lo mette, ma la Rosa si chiama anche così perché storicamente è nato come giornale di ciclismo. Giornale di ciclismo che ormai ha perso completamente quella capacità narrativa. È di qualche anno fa un commento di un redattore della Rosa che all’ennesima polemica come questa e che riguardava qualunque impresa sportiva che non fosse il calcio, a un utente rispose così, previamente cancellando il tweet: se in prima pagina non mettiamo Juve, Inter o Milan, il giornale non lo compra nessuno.
Rimini 1975, disegnatrice di fumetti, fumettara, illustratrice. Pubblica dal 1999. Qualche titolo: la fanzine “Hai mai notato la forma delle mele?”, le graphic novel Io e te su Naboo e Cinquecento milioni di stelle, il fumetto sociale Dalla parte giusta della storia, il reportage a fumetti scritto dalla giornalista Elena Basso Cile. Da Allende alla nuova Costituzione: quanto costa fare una rivoluzione?.