Troppo Frank Zappa per essere Bob Dylan, troppo Bob Dylan per essere Frank Zappa
Come tentare di parlare al pubblico italiano per spiegare chi era questo tizio che rispondeva al nome di Richard Samet Friedman, meglio noto come Kinky Friedman? Difficile, perché la pluridecennale carne al fuoco è davvero molta, troppa. Dei suoi oltre trenta libri, da noi, ne hanno tradotti giusto un paio. I suoi dischi, sette in studio (e ce n’è un ottavo postumo in arrivo, inciso qualche mese fa) più qualche live, in vendite non hanno esattamente rivaleggiato con i Pink Floyd.
Il suo più grande fan? Bob Dylan:
«Non capisco la musica, non la so leggere – capisco Lightnin’ Hopkins. Capisco Leadbelly, John Lee Hooker, Woody Guthrie, Kinky Friedman».
I suoi amici, negli anni? John Belushi e Tom Waits, Levon Helm e Warren Zevon («Siamo nati nello stesso ospedale – però, lui tre anni dopo di me»), Iggy Pop e Willie Nelson, Jerry Jeff Walker e Rickie Lee Jones, Billy Bob Thornton e Jimmy Buffett. Sapevate che il suo primo album, Sold American (1973), è l’unico disco che ascoltava in galera Nelson Mandela? E che ben due presidenti yankee, Bubba Clinton e Dubya Bush Jr, lo hanno a più riprese indicato fra i loro scrittori favoriti, con tanto di inviti alla Casa Bianca – lo sapevate? Sapevate anche che un paio di volte si candidò a governatore del Texas – raccattando pure un glorioso 12%?
Kinky – l’eccentrico, il pervertito. Un genio. Un genio per pochi – ma un genio.
Partiamo dal suo ultimo album, Resurrection (2019). Kinky Friedman, ebreo ateissimo che parla di “resurrezione” – è proprio un mondo sottosopra! Poi, però, ti guardi intorno, leggi qui e leggi lì, e capisci che in Resurrection trovi il solito Kinky: genio incontrastato della canzone, maestro impagabile che sa trattare la tragedia come commedia – e la commedia come tragedia. In sostanza, le soddisfazioni sono molte sotto il cielo negli altopiani zona Austin/San Antonio, dove viveva l’ebreo texano nato e cresciuto a Chicago. Ripetiamo: ebreo-texano-di-Chicago, paradosso + ilarità kinkyana. Fra l’altro, lui gli anni 60, dopo il college, non li passò mica a far l’hippie vagabondo-contestatore – ma nel peace corps USA di stanza in Malesia e in Borneo, durante la Guerra in Vietnam. Di qui una delle sue canzoni più belle, Wild Man From Borneo – peraltro, ispirata anche al famoso Freak Show circense di P. T. Barnum, quello, appunto, del Circo Barnum.
La resurrezione secondo Kinky Friedman è molto semplice da intendere, se siete dei “kinkster” come chi scrive (da non confondersi coi sorcini, please): prima di darsi alla letteratura mantenendo la musica essenzialmente come impegno live, l’ultimo album di studio prima del come back fu Under The Double Ego (1983) – da allora passano diversi decenni prima che Egli torni in studio (salvo lo straordinario auto-tributo Pearls In The Snow/The Songs Of Kinky Friedman del 1999 – Lyle Lovett, Willie Nelson, Tom Waits, Dwight Yoakam, Chuck E. Weiss, Marty Stuart, Asleep At The Wheel, Tompall Glaser e altri tutti in fila a rendere omaggio al Genio). Dicevamo: The Loneliest Man I Ever Met (2015) è stato il venerdì della passione/crocifissione (e con molte cover di vecchi conoscenti, da Dylan a Zevon); il favoloso Circus Of Life (2018) è stato il sabato del silenzio; e Resurrection è evidentemente la Pasqua – la resurrezione. Tutto magnificamente esoterico, per veri iniziati alla “Kinky-hysteria”. Restiamo in attesa dell’Ascensione – che dicono generalmente avvenga 40 dì dopo la rinascita del Redentore. Fiduciosi siamo.
L’album vede ricongiungersi Kinky a Larry Campbell, qui produttore e poli-strumentista, che già fece parte dei Texas Jewboys, il classico gruppo del nostro adottivo texano, prima di lavorare per tanti anni con Bob Dylan e poi con Levon Helm. Ed è, ovviamente, il cerchio che si chiude. Se Circus Of Life era “accorato”, dove il tono mordace di Kinky giocava fellinianamente tra l’opaco e il seppia, qui la carta giocata è più scanzonata e, diciamo così, straight country – e country va detto pensando che quando uscì alla ribalta, nei primi 70, Friedman lo chiamavano il “Frank Zappa del country”. Che poi Kinky, in verità, è più un folker dylaniano-Cosmic American Music. I grandi pezzi, naturalmente, non mancano – fin dall’iniziale Mandela’s Blues, tiro che sembra roba dei migliori Jimmy Buffett/Steve Goodman anni 70 con, però, un tocco di Paul Simon epoca Graceland (1987) e, soprattutto, un antefatto non di poco conto. Nei propri lunghi anni di prigionia Nelson Mandela divenne un appassionato fan di Kinky grazie alla politica/attivista sudafricana Helen Suzman, l’unica persona che per 15 anni fu ammessa a visitare il leader anti-apartheid in quel di Robben Island. Bene – costei, riuscì a passargli una cassetta del già citato Sold American (1973), che divenne un must degli ascolti notturni di Mandela il quale, fra l’altro, una volta libero dichiarò Ride ‘Em Jewboy essere una delle sue canzoni preferite (gran gusti, eh?). Adesso Friedman chiude la partita – con lui emozionato nel raccontare il “suo” Mandela:
«Scuoto ancora la testa in segno di stupore al pensiero di Mandela in gattabuia che ascolta i mei dischi»,
ci fa sapere… e noi altrettanto commossi ad ascoltarlo. Siamo già stesi – probabilmente lessi o fritti nel nome del Kinky!
Pezzo numero 2 – e si continua a volare alti, molto in alto. L’ultima volta che vedemmo Friedman dal vivo (Zurigo, 2016), lui stesso ci confidò chiacchierando prima del concerto che aveva in mente una canzone che sarebbe stata perfetta se l’avesse cantata Willie Nelson. Eccola. È naturalmente Resurrection, che i due fanno in duetto sulle ali di una robusta ballata up tempo e che parla di vita che scorre e della seconda chance che dev’essere concessa a tutti. I “brother”, detto in breve, che se la spassano sapendo di essere semplicemente “superiori”. Dicevamo di straight country: godetevi Greater Cincinnati, che non è un peccato pensare in un ipotetico, e ora impossibile, disco insieme di George Jones con gli Asleep At The Wheel; Me & Billy Swan, dedicata al grande outlaw countryman che scrisse il classico I Can Help nonché vecchio pard di Kris Kristofferson; Ai! Mariachi!, tocco mexican che avrebbe fatto felice il regista Sam Peckinpah; A Dog In The Sky, languida ballata con la steel guitar a dettare legge; Spirit Dad, robusto quanto spiritato country ’n’roll; e Carrying The Torch, valzerone perfetto per chi volesse cimentarsi con una figure dance in un honky tonk bar texano.
Resurrection ha però anche un’altra faccia, quella del poeta cosmico, degno si stare accanto a suoi amici già pluri-evocati – Dylan, Waits e Kristofferson. Già, perché quando sfodera ballate-a-dondolo, carme alla vita on the road, quella che tizi come lui hanno vissuto davvero – Kinky Friedman non è secondo a nessuno. E in tal senso la tripletta I Love You When It Rains (che godimento piano e organo opera del Little Feat Bill Payne), The Bridge That Wouldn’t Burn e, soprattutto, l’autoritratto folk-blues Blind Kinky Friedman (altro standout dell’intero lavoro), è opera di un uomo-di-canzone il quale non ha perso quel particolare tocco che differenzia pur bravi artigiani e geni tout court: prodigio che lascia davvero impressionati per come sa sfiorare i luoghi più remoti del cuore e dell’anima con il suo magico potere di songwriter-songperformer, sempre in assoluta grazia divina. Parola di umili messaggeri di vero “kinkysterismo”!
Se di un qualunque album del Kinkster si potrebbe andar innanzi a parlarne per ore, figuriamoci dei libri – che sono quelli di un novello Mark Twain on dope. E che si possono dividere in un due grandi filoni: il mystery Kinky e il Kinky umorista. Non potendo far un excursus sull’intera produzione, chi scrive prende ‘Scuse Me While I Whip This Out/Reflections On Country Singers, Presidents And Other Troublemakers (2004) quale esempio lampante del suo genio.
Poco più di 200 pagine dove sono sfidati con assoluta, affilata ironia ogni sorta di ego. Potremmo chiamare il tutto tipo una “raccolta di interpretazioni distorte della vita”, nella quale Kinky ci offre uno sguardo divertente, irriverente e penetrante su personalità “fuori misura”, dalle persone che ha conosciuto davvero – gli ex presidenti Bill Clinton e George W. Bush, Willie Nelson e Bob Dylan, per non parlare di Mister Comma 22 Joseph Heller e del famoso disc jockey Don Imus; e per le personalità che perlomeno ha scorto nello spirito attraverso la storia – Mosè, Gesù, Hank Williams, Jack Ruby (l’assassino di Lee Harvey Oswald, a sua volta assassino di JFK). Con le sue meditazioni su argomenti che vanno dal dormire alla Casa Bianca al matrimonio, ai suoi animali domestici, alla pesca nel Borneo, alla musica country, ai sigari e alle sofferenze di possedere smisurato talento, Kinky non ci nega
«lampi di brillantezza e risate-osservazioni ad alta voce»
presenti anche, in verità, in tutti gli altri suoi lavori. Esilarante, sfacciato e appassionatamente distorto, ‘Scuse Me While I Whip This Out si legge come se fosse stato scritto da un Twain moderno leggermente malmesso.
«Non ho rimpianti. Come ho sempre detto, vi è una linea sottile tra narrativa e saggistica – e credo che io e Jimmy Buffett la sniffammo nel 1976».
Kinky è morto – viva il Kinkster!