Quando il 25 aprile 2020 è uscito il primo articolo di (Quasi), mica lo sapevo che, di lì a poco, la gestione di questa rivista sarebbe diventata un impegno quotidiano.
Fare una rivista – anche quando esiste principalmente in rete e non la legge nessunə – è esaltante. È come se guardassi costantemente dalla finestra e, dedicandoti allo scorcio di mondo che riesci a vedere da lì, riuscissi a capire la realtà concentrandoti sulle variazioni minuscole. Lo hai mai visto Smoke? È un film del 1995 diretto da Wayne Wang e scritto da Paul Auster. È la storia di Paul Benjamin (uno degli innumerevoli alter ego di Auster) che, dopo la morte della moglie, vive in una condizione di stallo devastante. Ed è anche una storia di riconquista della scrittura e della narrazione. C’è un punto nodale in quella vicenda. È una sequenza emblematica che mi sembra meravigliosa.
Paul (interpretp da William Hurt) è a casa di Auggie (Harvey Keitel). Mangiano con le bacchette del cibo cinese take away. Paul ha appena scoperto che è il tabaccaio di quartiere in un paese che ha trasformato il fumo in un vizio esecrabile e letale, è un fotografo.
Sul tavolo, davanti ai due, ci sono 14 album; sulla costa di ognuno un’etichetta con sopra scritto un anno: dal 1977 al 1990. Paul prende uno degli album e lo apre. Sulla doppia pagina ci sono 6 fotografie identiche: è l’incrocio visibile dalla porta della tabaccheria di Auggie alle otto del mattino. Accanto a ciascuna fotografia c’è la data.
Auggie, nascondendo a stento il proprio orgoglio, spiega il suo progetto: fotografare lo stesso punto del mondo tutte le mattine. Paul cerca di essere educato, dice che l’idea è straordinaria e inizia a sfogliare rapidamente le pagine.
«Non capirai mai se non rallenti, mio caro.»
«Che vuoi dire?»
«Che vai troppo in fretta. Quasi non le guardi, le fotografie.»
«Ma se sono tutte uguali?»
«Sono tutte uguali, ma ognuna è diversa da tutte le altre. Ci sono le mattine luminose e quelle buie. C’è la luce dell’estate e quella dell’autunno. Ci sono i lunedì e le domeniche. Ci sono persone in cappotto e stivali e persone in maglietta e pantaloncini. Qualche volta le stesse persone e altre volte persone diverse. E qualche volta le persone diverse diventano le stesse persone e le stesse persone scompaiono. La terra ruota attorno al sole e, tutti i giorni, la luce del sole colpisce la terra da angoli diversi.»
Paul rallenta. Respira. Inizia a sfogliare lentamente l’album. Si concentra su ciascuna foto. Sui particolari e sui volti. Passa un tempo lunghissimo.
«Gesù, guarda, è Ellen!»
Primissimo piano del volto di Paul che scopre in una foto la moglie morta.
«Sì, è lei. Compare in parecchie foto di quell’anno. Credo che stesse andando al lavoro.»
Paul, quasi in lacrime: «È Ellen, guardala, guarda il mio dolce amore.»
Dissolvenza.
Mi sembra che quella sequenza dica tantissimo del senso delle storie e del rapporto, di noi lettrici e lettori, con loro. Particolari, a volte sottili e quasi inafferrabili, colti dal narratore, non sempre consapevolmente, che entrano in risonanza con quello che abbiamo e con quello che siamo.
Pensaci. Funziona così anche quando quella storia non voleva parlare con noi, anche quando non siamo in alcun modo il “lettore ideale”. Quella narrazione – indipendentemente dalle sue qualità – entra in risonanza con i nostri saperi e le nostre idee, con l’accumulo di esperienze e consapevolezze che chiamiamo “io”.
Fare una rivista è come fotografare il proprio angolo di mondo dalla porta del negozio. Significa disporre quotidianamente tasselli con innumerevoli, minuscole, varianti che permettono di guardare il mondo, mentre cambiano la luce, la temperatura, la popolazione che ci si muove sopra. In questo modo ci si può illudere di capirlo un po’ meglio quel mondo. E di cambiare anche un po’, ogni giorno.
Fare una rivista è anche fottutamente faticoso.
Siccome la fatica non ci piace, di tanto in tanto ci fermiamo e smettiamo questo impegno che, da diletto d’ogni giorno, rischia di trasfigurarsi in lavoro. E iniziano le vacanze.
Sulla saracinesca di (Quasi), a quel punto, trovi il cartello rosso con sopra scritto «Chiuso per ferie», con accanto due date, una della fine di luglio e una dell’inizio di settembre.
Ho visto il cartello. Significa che il negozio è incustodito. Ho le chiavi. Mi sa che, per tutto il mese, commetto un abuso. Mi ci infilo e appiccico post-it.
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).