L’occupazione invisibile

Paolo Interdonato | post-it |

Va bene, lo ammetto. Non so niente di occupazioni. Ne ho un’idea estremamente naïve: ci si impossessa abusivamente di uno spazio pubblico non usato o usato male e lo si mette a disposizione di una comunità per farlo rifiorire.
Ipotizzare un uso migliore di uno spazio ha una precondizione: un quadro di riferimento del pensiero che sia principalmente etico e sociale e, quindi, di fatto politico.
L’esproprio di una risorsa per una causa giusta. Anzi, proprio di giustizia.

Così è tutto molto bello, ma presuppone di aderire a una forma di pensiero capace di accogliere te e altre persone che senti vicine, simili. Personalmente non riesco ad aderire a nulla per più di quindici minuti. Ho delle difficoltà a usare anche la tessera fedeltà di un supermercato.

Cerco allora una forma diversa di occupazione e ne trovo una meravigliosa in Ferro 3, film sublime di Kim ki-duk.
Riassumo le vicende raccontate da quella storia. Faccio un sacco di spoiler e tutte quelle cose lì, quindi, se non lo hai visto e la cosa ti può infastidire, ci sentiamo domani (o dopo che avrai visto il film).

C’è un ragazzo senza nome che vive al di fuori della società: non studia, non lavora, non guarda la TV… Non ha nemmeno una casa sua, abita quelle degli altri. Quando qualcuno parte per un viaggio, si impossessa dello spazio abitativo appena abbandonato. Apre la porta senza rompere nulla e inizia ad vivere quella casa. Mangia ciò che c’è in frigo o nella dispensa, si lava i denti usando il dentifricio e uno spazzolino già presenti, dorme in un letto. Poi, da residente responsabile, fa il bucato (anche quello che giace sul fondo del vano della biancheria sporca da tempo immemore), rammenda i calzini, ripara gli elettrodomestici, lava i piatti, stira le camicie impilate nell’armadio, annaffia le piante, fa quelle riparazioni grandi e piccole che sono state rimandate per troppo tempo. Poi, al rientro dei legittimi padroni di casa, se ne va. E nessuno si accorge del suo passaggio.  Passa da un’abitazione all’altra, fino a quando, in una casa da ricco, viene sorpreso da una ragazza (anche lei senza nome) che vive nascosta, vittima della violenza del marito. I due fanno amicizia. Al ritorno del marito, il ragazzo scompare come di consueto. L’uomo mostra la consueta violenza nei confronti della moglie; il ragazzo ritorna per difenderla e corca di mazzate il violentissimo stronzo (lo bersaglia di palline da golf scagliate con forza e precisione usando il “ferro 3” che dà il titolo al film).
I due scappano insieme e iniziano a vivere, nascosti nelle case degli altri, fino a quando non vengono sorpresi e arrestati. La ragazza viene ricondotta a casa e il ragazzo, accusato di rapimento, viene imprigionato. In carcere subisce tutta la violenza e le vessazioni che puoi immaginare, anche perché il marito violento corrompe funzionari e ufficiali perché gli sia garantita vendetta e per poter agire personalmente.
A questo punto il film cambia genere: diventa una pellicola di arti marziali, apprendimento e rivalsa. In una cella di isolamento, il ragazzo inizia un allenamento irrefrenabile e conquista l’invisibilità. Approfittando dei punti ciechi del campo visivo, riesce a sparire.
Quando viene scarcerato, ritorna nella ricca abitazione dell’uomo violento e inizia a vivere una storia d’amore con la ragazza: i due amanti sono invisibile agli occhi di chiunque.
Nell’inquadratura finale, i piedi dei due amanti abbracciati sono appoggiati sulla bilancia che non segna peso.

Quell’inquadratura finale mi ha ingannato fino a oggi. Ho pensato che il grande messaggio di Ferro 3 fosse: «L’invisibilità è rivoluzionaria, rende liberi».

Mentre sono chiuso nella redazione di (Quasi), passo un sacco di tempo a muovermi su questo sito. Rileggo gli articoli, guardo le figure, controllo gli indici, identifico delle traiettorie di lettura che non avevo visto mentre ero preso dal lavoro quotidiano.
Aggiusto le cose rotte. Allineo le immagini. Correggo i refusi che ci sono sfuggiti.
A settembre torneranno tutte e tutti. Uscirò dalla finestra senza farmi vedere. Spero che nessuno si accorga del mio passaggio. E sicuramente non perché voglio essere invisibile.
Lo spazio che ho occupato non è inutilizzato. Sicuramente non è usato male. Non ha bisogno di rifiorire.
Mi preme che non langua mentre chi lo abita di solito è altrove. Mi preme che chi lo abita di solito, al rientro, lo trovi come lo aveva lasciato. Anzi, un po’ più accogliente.

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