Innocuo fumetto

Paolo Interdonato | post-it |

Ecco dove era finita la scatola di CD scomparsa. Sotto la scrivania di Boris. Ci appoggiava i piedi, lo stronzo. E sai qual è la cosa peggiore? Che quando glielo farò notare, piccato, mi risponderà: «Ok, boomer! Ancora ascolti i CD? Guardi anche i DVD? Forse quelli li stiamo usando come sottobicchieri al bar di sotto.»

Ha ragione lui. Dovrei buttarli tutti, ma hanno un valore affettivo. Li prendo in mano e me li ricordo. Mica solo i suoni, ché quelli li ho sentiti anche senza avere gli oggetti fisici e materici, usando app e formati diversi. Mi ricordo i booklet, i digipack, le deluxe edition, le ghost track…

Poi mi capita tra le mani Suonarne 1 per educarne 100 di Daniele Sepe e ci sono un po’ di sorprese.

Inizio ad ascoltare questo disco del 2006 – che è proprio bello – e riscopro che è un concept disc che racconta la storia di un tipo finito in coma nel 1977 che si risveglia trent’anni dopo. Una sorta di Capitan America che – dopo l’ibernazione – mica si integra al volo e diventa il capo degli Avengers: deve proprio capire cosa è successo.
Oh… Va bene la distrazione, ma due anni dopo, Caparezza ha pubblicato Le dimensioni del mio caos, il fonoromanzo che racconta la storia di una ragazza che viene catapultata dal 1968 al 2008.
Intendiamoci: nessun plagio. Ci sono un sacco di differenze tra i due lavori, ma quello di Sepe mi diverte più di quello di Caparezza.

In secondo luogo, a un certo punto, mentre ascolto il disco di Sepe, che è fitto di citazioni, inciampo in una canzone in cui viene scandito uno slogan del ’77 che mi ero completamente dimenticato. Ed è bellissimo.

«Gastronomia operaia
Cannibalizzazione
Forchetta Coltello
Mangiamoci il padrone»

Un’ultima cosa è che, nel booklet di quel disco uscito nel 2006 e dedicato al ’77, c’era questo mio pezzo.

Innocuo fumetto

«Io non sono più dei vostri. Ho l’aspetto dei mutanti. Biologicamente me la cavo con l’idea che mi sono fatto della biologia: piscio, eiaculo, piango.»

Queste sono le parole del grande Leo Ferrè nel recitativo La solitudine. Prima o poi qualcuno dovrebbe tentare una storia delle narrazioni a fumetti che parta da qui e passi attraverso le secrezioni, gli scarti e gli umori del corpo.

Come quando, negli anni Sessante, un manipolo di brillanti eversori principalmente statunitensi, stufi di essere ingabbiati in grammatiche e sintassi della narrazione sempre più disumanizzanti, prese a rivoltare parole e disegni e diede luogo al fumetto underground. E lì, animali antropomorfi e motociclisti spinellati o imbottiti di acidi sudavano, pisciavano, eiaculavano, cagavano e si spremevano i brufoli.

Di lacrime però se ne vedevano poche, ché a sovvertire l’ordine con le storielle dovevi essere cinico, sardonico, cattivo, brutale e talvolta anche stupido.

Negli anni Settanta la lezione del fumetto underground era pronta per essere metabolizzata dal fumetto rispettabile. Robert Crumb, Gilbert Shelton, Rick Griffin, Vaughn Bode, e gli altri avevano ormai sparso i propri liquami corporali su tonnellate di pagine fumettate.

C’era in Italia chi comprava “Alterlinus”, la costola di “Linus” dedicata al fumetto avventuroso. E fu un trauma quando, in una fredda mattina di febbraio 1975, lo sprovveduto lettore si trovò tra le mani la pagina che mi sento di poter descrivere così:

Il suono della sveglia ti strappa al sonno. Non sei mattiniero come un’allodola. Punti regolarmente la sveglia alle 9.00 perché col mestiere schifo che fai ti capita spessissimo di tirar tardi. Per ieri notte puoi maledire solo Raymond Chandler e il suo lungo sonno. L’hai chiuso solo dopo averlo finito e il portacenere trabocca delle cicche di tutte le sigarette che ti hanno accompagnato durante le tue scorribande cartacee per le vie di Los Angeles. A proposito, sfili una Camel dal pacchetto e l’accendi. Ti infili le ciabatte, scostando col piede il quotidiano di ieri e una vecchia copia del “Times”. Entri in bagno, ti affacci allo specchio e perlustri gli insulti che tempo e cazzotti depositano quotidianamente sul tuo volto. Poi, pisci. Sei Alack Sinner, investigatore privato.

Ecco. Così inizia il caso Filmore, seconda indagine dell’Alack Sinner degli argentini Carlos Sampayo e José Muñoz. Per mesi, la posta si infittì di missive provenienti da lettori scandalizzati per l’indecorosa pisciata di Alack. Di lì a poco Sinner iniziò a soffrire veramente, a piangere e sanguinare, e non per i cazzotti provenienti da malviventi e poliziotti ma per le assai più brusche percosse ricevute dalla vita reale (la cui presenza progressivamente divenne – tra frammenti di discorsi, titoli di quotidiani intravisti, scritte sui muri, telegiornali intercettati mentre si entra in una casa, … – la vera  colonna sonora delle vicende narrate da Muñoz e Sampayo). Pochi sono gli episodi in cui non si vede Alack intento a espletare le più elementari funzioni fisiologiche: seduto sulla tazza mentre legge un quotidiano o intento a pisciare sulla ruota del tir di un rissoso camionista meneghino accompagnato dalla madre.

Piscio, sperma e lacrime rappresentano l’umanità che entra di forza nel fumetto degli anni Settanta. Altro che l’autoindulgenza del troppo sangue e della troppa merda spalmati sul postmodernismo d’accatto delle pulp narrazioni degli anni Novanta (che di pulp, sostantivo che dovrebbe indicare la povertà della carta e della stampa, hanno pochissimo).

Le lacrime possono scorrere e rigare le guance di Mario, il figlio del commissario Spada (di Gonano e De Luca, sul cattolicissimo “Giornalino”) o di Patty O’Shane, ragazzina innamorata di Ken Parker (western postsessantottino di Berardi e Milazzo). Il sangue può intridere la camicia di Unknow, lo sconosciuto di Magnus, la cui breve avventura si interrompe bruscamente quando un sicario gli esplode due colpi in pancia. Lo sperma può colare dai pennelli di Filippo Scòzzari lungo le cosce di Primo Carnera, il cui narcisismo alimenta una potentissima automobile a energia busonica.

Il lettore è diventato adulto. L’onda del miracolo si infrange e l’Italia si trasforma, secondo la felice definizione di Guido Crainz, nel paese mancato. Gli anni Sessanta si sono chiusi, non solo simbolicamente, il 12 dicembre 1969. In piazza si sanguina e piange, A casa non ci si può più rifugiare tra le pagine di un innocuo fumetto.

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