#A24TheParty24 – Andare alla guerra: Civil War come road movie

Boris Battaglia | Affatto |

Con questo articolo (Quasi) aderisce a #A24TheParty24.
Di seguito la presentazione dell’iniziativa.


Dopo #Kirby4thWorldParty20#SatoshiKonParty21 e #starwarstheparty22 arriva un nuovo “Party” ideato da @leosverse, sostenuto da @f.r.a.m.e.d._magazine@gliaudaci@quasirivista@birdmen.magazine@longtakeit in collaborazione con @noamfestival.

A24 The Party 24, nato da un’idea di Leonardo D’Angeli, non è solo un omaggio alla casa di produzione e distribuzione cinematografica che prende il nome dall’autostrada A24 Roma-Teramo (l’idea è nata proprio mentre i creatori stavano percorrendo quella strada) ma vuole essere anche un ponte tra cinema e illustrazione presentando artisti unici e diversi tra loro.


Seguendo l’hashtag #A24TheParty24 su Instagram, scoprirete 190 illustrazioni dedicate ai film, corti, documentari e alle serie tv prodotti e distribuiti da A24.

(Quasi) partecipa anche con un articolo di Boris Battaglia sul film “Civil War” di Alex Garland.


Uno dei motivi per cui le giovani generazioni fruiscono le storie attraverso le serie televisive, il cinema, la musica e in misura minore il fumetto (ma quello che niente ha a che vedere con le graphic novel) e trascurano assolutamente una forma in via di estinzione come il romanzo, è il fatto che quei quattro sistemi narrativi non possono nascondere l’evidenza di essere opere collettive e non autoriali. E quando si dice collettive si intende includere tutto il lavoro di chi le storie le fruisce.

Il nostro bisogno quotidiano di narrazione si soddisfa nella costruzione collettiva delle storie, e gli unici che ancora non se ne sono resi conto sono quelli che si ostinano a scrivere romanzi e vecchi professori e professoresse che obbligano i loro studenti a leggerli.

La politica degli autori, per quanto ideologicamente necessaria quando i ragazzi della Nouvelle Vague la misero in campo, è un concetto completamente sbagliato. Un film è sempre un’opera collettiva, non il prodotto di una sola individualità. Le immagini di un film che vengono elaborate dal nostro sguardo, che nel momento che le decifriamo siamo autori al pari di tutti quelli che compaiono nei titoli di testa e di coda, non sono il prodotto di una singola individualità, ma appunto, di tutti quelli che compaiono nei titoli, e di testa e di coda.

Una delle individualità maggiori che compare nei titoli di testa di solito, per quanto riguarda film e serie tv, è quella della casa produttrice. Se negli anni d’oro degli Studios il produttore era, quasi a tutti gli effetti, l’autore del film, in questo nuovo secolo le cose sono più confuse, ma il ruolo della produzione è fondamentalmente autoriale.

Questo 20 agosto compie 12 anni una casa di produzione che ha il nome di un’autostrada. A24, l’autostrada che da Roma va verso Teramo. Ora, questa cosa in sé è bellissima. Noi di (Quasi) siamo sostanzialmente convinti che ogni film (a parte i musical e alcune commedie borghesi, quindi tutti i film che ci piacciono) sia in realtà un road movie. Anche se non riusciamo a capire che cazzo ci andava a fare a Teramo (probabilmente verso le spiagge d’Abruzzo) uno come Daniel Katz, che all’epoca lavorando per la Guggenheim Partners poteva permettersi le meglio spiagge d’America, siamo assolutamente contenti che con David Fenkel, presidente e cofondatore della Oscilloscope Laboratories, e John Hodges della Big Beach, abbia deciso di mollare tutto per dare vita a una nuova, strana avventura che aveva l’obiettivo di farsi una posizione in ambito distributivo.

Questa cosa, che chiamarono forse per scherzo, proprio A24, è diventata, nel giro di un decennio, una delle più interessanti case di produzione cinematografiche americane. Roba che va da Diamanti grezzi a The Whale, passando per il Macbeth di Joel Choen.

Se come siamo convinti l’autorialità è un concetto collettivo, è grazie all’incontro tra A24 e Alex Garland ciò cui dobbiamo uno dei film che più ci è piaciuto in questo loro dodicesimo anniversario.


ANDARE ALLA GUERRA
Civil War come road movie

Interpretazioni di interpretazioni

Ci sono scatti fotografici che abitano in modo indelebile il nostro immaginario. La lista è lunga e va dalla foto della morte del miliziano di Robert Capa a quella della miliziana addormentata di Gerda Taro, entrambe del 1936; da quella del 1972 della bimba vietnamita che scappa dal bombardamento al napalm, scattata da Nick Ut, all’uomo che si getta dalle torri gemelle, scattata da Richard Drew l’11 settembre del 2001. Fotografie che, oltre a raccontare e descrivere (in modo soprattutto simbolico) un particolare momento storico o un’intera epoca, pongono all’osservatore un ineludibile quesito etico sul proprio sguardo.

Dato ormai per assodato che non esiste oggettività nell’immagine fotografica, e che essendo la foto un manufatto -quindi il prodotto prima di chi scattava, sviluppava e stampava, oggi di chi scatta, elabora con Photoshop e pubblica-, il pezzo di mondo compreso nell’inquadratura che ci viene sottoposta è la soggettiva interpretazione (etica ed estetica) del reale di chi quell’inquadratura la ha organizzata.

E non è finita qui. Se la fotografia è un’interpretazione del mondo legata alla soggettività di chi scatta, quello che l’osservatore coglie di quell’interpretazione è a sua volta un’interpretazione. Il mio sguardo legge attraverso la mia soggettività (etica ed estetica) il risultato dello sguardo della fotografa o del fotografo. E a questo punto, come osservatore, non posso non chiedermi: dato che quanto mi viene raccontato, dipende dalla mia necessità estetica (e forse biologica) di vedere quanto accade nel mondo, fino a che punto il mio sguardo è responsabile di ciò che accade? Quanto accade è o non è una conseguenza diretta del mio volerlo vedere? In parole povere quando guardo scene di una guerra vera, non sono (almeno in parte) responsabile di quella guerra?

Pagine di diario

Il 6 gennaio 2021 i sostenitori di Donald Trump, presidente uscente e sconfitto da Joe Biden alle presidenziali del novembre 2020, attaccano Capitol Hill, la sede del Congresso del Stati Uniti d’America. Finirà tutto come è iniziato: una burletta parodica costata 5 morti, 13 feriti, 52 arresti, ma comunque una burletta. Ci sono due foto che descrivono benissimo la natura di quanto successo: quella che ritrae un membro dell’organizzazione di estrema destra Qanon, un certo Richard Barnett con i piedi sulla scrivania della speaker della Camera, e quella che ritrae Jack Angeli, membro della stessa organizzazione, vestito da sciamano con bandiera e megafono nel mezzo della devastazione dei locali del Congresso.

Ogni movimento politico ha i suoi testi ideologici fondativi. Il testo sacro in cui gli aderenti a un movimento il cui posizionamento estetico nei confronti del mondo si esaurisce nell’immagine di un culturista tatuato e vestito da vichingo, trovano collante ideologico e indicazioni operative, non può che essere un prodotto letterario dozzinale. È il caso di The Turner Diaries, testo scritto in forma diaristica e pubblicato a puntate, tra il 1975 e il 1978 sulla rivista ultranazionalista “Attack!”, dal neonazista William Luther Pierce con lo pseudonimo di Andrew McDonald.

Nel caso ti interessasse l’uso della letteratura di genere come veicolo della propaganda suprematista americana, ti consiglio la lettura di White Power, studio articolato sull’argomento scritto da Stefano Tevini per i tipi di Red Press. Quello che qui è importante sottolineare velocemente è quello che il romanzo di Pierce racconta.

Scritto, come già detto nella seconda metà degli anni Settanta, e ambientato all’inizio dei Novanta, il romanzo racconta, attraverso le pagine del diario del “patriota” Earl Turner, una guerra terroristica portata avanti dai suprematisti contro le minoranze etniche, i liberal, gli omosessuali e gli ebrei, per destabilizzare il sistema. Le intenzioni dei suprematisti bianchi verranno coronate dallo scoppio di una guerra civile che, dopo un disastro atomico, si concluderà con la vittoria della razza bianca, la cancellazione di tutte le altre etnie, e la nascita di una colonia ariana in California da cui i sopravvissuti partiranno per ripopolare il mondo.

Nel 2015 la casa editrice Bietti tradusse il libro (prontamente ristampato dopo i fatti del 2021) con il titolo di La seconda guerra civile americana. Il riferimento, molto furbo, era ovviamente al film di Joe Dante.

La seconda guerra civile americana è possibile

Dopo l’incredibile successo di Gremlins (1984), Joe Dante infila una serie continua di flop (da Explorers a Gremlins 2) che mettono in serio rischio la sua carriera. A dargli un barlume di speranza, prima che gli Studios gli chiudano definitivamente in faccia le porte dopo i fallimenti commerciali di Small Soldiers e di Looney Tunes: back in action), è il successo ottenuto nel 1997 con il film per la TV La seconda guerra civile americana.

Quasi 25 anni prima dei fatti di Capitol Hill (e 20 dopo l’uscita del romanzo di Pierce) Joe Dante e Martyn Burke (sua la sceneggiatura) ci mostrano in una commedia nera, cinica e grottesca, come la possibilità che l’America sia sconvolta da una nuova guerra civile non sia poi un’ipotesi così distopica.

In un futuro non meglio precisato, gli USA sono una realtà totalmente multietnica, ma questo non ha alleggerito le tensioni tra le varie etnie e non ha risolto i problemi legati all’immigrazione. Quando la guerra scoppia però la causa scatenante non sono, per quanto gravi, le questioni politiche, ma il comportamento quanto meno spregiudicato di una troupe della rete televisiva NN (manco a dirlo: parodia della CNN), che modifica la realtà perché gli eventi precipitino.

Raccontare la guerra, d’altra parte è la ragione ontologica di una troupe mandata sui luoghi del conflitto, ed è esattamente quello che il pubblico si aspetta di vedere.

La responsabilità dello sguardo dello spettatore è comunque una questione che Dante affronta solo in modo tangente: quello che gli preme (forse più allo sceneggiatore che a lui) è mettere in connessione una serie di fatti plausibili perché la guerra scoppi. Un intento sicuramente politico.

L’implicazione morale di chi guarda la guerra è una questione che verrà affrontata con un deciso (e a mio avviso coraggioso) taglio teorico da Alex Garland che per il suo quarto film mette da parte la numerazione ordinale dei conflitti e lo intitola semplicemente Civil War.

Se non ci vai, non lo vedi

Scritto e diretto da Alex Garland, romanziere (leggiti assolutamente L’ultima spiaggia e Black Dog – il cui titolo originale è un molto più evocativo Tesseract – pubblicati da Bompiani rispettivamente nel 1997 e nel 1999) e regista di indiscutibile talento (vediti qualunque dei suoi film), e prodotto da A24, giovane casa di produzione americana che ha programmaticamente il nome di un’autostrada, Civil War non è, nonostante le polemiche suscitate addirittura prima della sua uscita, un film politico in senso stretto e soprattutto non è un film di guerra. È un intenso road movie e, in seconda istanza – ma neanche tanto -, un film squisitamente teorico.

Se dovessi dare una definizione di road movie direi che è un film in cui un gruppo di personaggi con un obiettivo finale (non necessariamente lo stesso per ognuno) si mette in viaggio con l’intenzione di realizzarlo. Il viaggio è lungo, pieno di incontri, di prove e di difficoltà, che coinvolgono i protagonisti provocandone un cambiamento interiore.

In Civil War c’è una guerra, certo, ed è civile, ma è solo lo sfondo su cui di sviluppa il viaggio. Le cause della guerra non vengono mai indagate, soprattutto non sono le tensioni etniche che, come hai visto, caratterizzavano gli altri racconti su questo argomento; non sappiamo se una delle due parti abbia più ragioni dell’altra, ed entrambi gli schieramenti sono, passami il termine, multietnici: cosa che complica la faccenda perché nei momenti di pericolo è quasi impossibile distinguere lo schieramento di appartenenza cui ci si trova davanti.

Un esempio su tutti: la sequenza in cui, dopo un sapiente gioco di tensione condotto da Garland con precisione chirurgica – quello dell’inseguimento tra la jeep dei protagonisti e l’auto che si rivelerà essere guidata da loro colleghi reporter – veniamo scaraventati in una sequenza di pura angoscia, fermati da miliziani intenti a far sparire le tracce di un massacro ma dei quali non riconosciamo l’appartenenza. Angoscia magistralmente risolta con la rivelazione di un aspetto della personalità di Sammy che contraddice l’idea iniziale che ci eravamo fatti di lui e che lo porta addirittura a sacrificarsi per salvare il gruppo.

C’è solo una cosa che sappiamo per certa: gli insorti stanno vincendo e la caduta di Washington è solo questione di giorni. Insomma. La guerra civile americana è uno scenario. Talmente possibile all’attuale stato delle cose, da non necessitare di alcuna spiegazione né ideologica, né economica, né politica.

Il cronista d’assalto Joel, l’opinionista cinico e utilitarista Sammy e la fotoreporter Lee Smith (interpretata da una grandissima Kristen Dunst) decidono di partire da New York in direzione della capitale per intervistare il Presidente prima della caduta del governo federale. A loro si aggiunge (contro la volontà di Lee) Jessie Cullen giovane aspirante fotografa dall’età indefinita (perfetta la scelta di Cailee Spaney per rendere questa indefinitezza anagrafica), desiderosa di diventare brava e famosa quanto Lee.

Il viaggio li cambierà tutti. Il cinico Sammy si sacrificherà per salvare il gruppo e l’agguerrito Joel, davanti alla vile nullità del Presidente, rinuncerà a essere testimone di qualche roboante testimonianza pur che il conflitto abbia termine. I cambiamenti più importanti sono però quelli dei caratteri di Smith e Cullen e quello della natura del loro rapporto. È qui che il nodo teorico del film ha il suo scioglimento.

Facci caso. Lee è una fotografa (praticamente la Gerda Taro di questa guerra), ma le uniche inquadrature in sua soggettiva sono quelle della sequenza iniziale nella quale, durante gli scontri di New York, salva la vita a Jessie. Questo però è prima che inizi il viaggio. Nel momento che il gruppo comincia a macinare strada lo sguardo di Lee entra in crisi, le foto che scatta (con le sue macchine digitali) non ci vengono mostrate o sono prive di sostanziale differenza con il reale, cioè con le inquadrature della cinepresa. Ribadisco: non per una inesistente oggettività dello sguardo, ma per sua progressiva paralisi.

Quello che tormenta Lee è un dubbio etico nato dal suo rapporto/conflitto con quella che, in qualche modo, considera come sua discepola. Il dubbio di Lee è una cosa che toglie il sonno (importantissima in questo senso la sequenza in cui Joel affronta con Jessie il problema dell’addormentarsi facendo il loro mestiere): quello che accade, accade perché io lo sto raccontando/testimoniando?

Questo rovello viene esplicitato con chiarezza in un dialogo tra Lee e Cullen. Ma prima di parlartene, devo analizzare proprio la figura di Cullen.

Cullen ha un’età indefinita e questa indefinitezza è necessaria all’ambiguità del suo statuto ontologico: protagonista e contemporaneamente spettatrice. Spettatrice inesperta, viene salvata da Lee: fuor di metafora è Lee a insegnarle a guardare, cioè a stare nel mondo. Contemporaneamente è protagonista fattiva della storia: utilizza strumenti analogici (reflex meccanica, pellicola e sviluppatore) che rendono esplicito il suo intervento sulle immagini. Nel corso del viaggio, mentre lo statuto di Lee si neutralizza fino alla cancellazione, quello di Cullen perde indefinitezza diventando, in una specie di crescendo, responsabile di quello che vede e che vediamo noi. In qualche modo il casino in cui finiscono e che costerà la vita a Sammy è responsabilità sua.

Detto questo veniamo al dialogo di cui ti parlavo. Siamo a circa due terzi del film, poco prima dell’attacco finale alla Casa Bianca, nel campo di Charlotteville.

Lee chiede a Jessie se è veramente pronta, se nel caso lei venisse uccisa, scatterebbe la foto del momento della sua morte.

Jessie risponde con una domanda: “Tu lo faresti?”

Lee annuisce.

E siamo arrivati alla fine. L’assalto alla Casa Bianca.

Ribaltato l’assunto iniziale, le soggettive sono solo quelle di Jessie. Lee paralizzata, non scatta una foto. Ogni avanzamento del nostro sguardo è frutto dell’azione di Jessie. Il rovello etico di Lee, per quanto giusto, non permette l’avanzamento della narrazione. A questo punto sappiamo che forse alla fine del loro breve dialogo, Lee non aveva annuito, ma respinto la domanda ammiccando. Fotografare la morte della ragazzina sarebbe stato come ucciderla, perché significava evitare di tentare di salvarla per restare a guardare. Quello che fa ogni fotografo. Quello che fa ogni spettatore: quanto accade, accade perché abbiamo voluto andare a vederlo. Per questo si getta davanti a lei quando il federale le spara, salvandole la vita invece di immortalarne la fine.

Cosa che Jessie fa invece senza pensarci: mentre Lee muore, scatta e l’inquadratura che vediamo non lascia dubbi: nel momento in cui scatta Jessie uccide Lee. Immortalandone la morte la uccide.

Non è un caso che scatto e sparo in inglese si dicano con la stessa parola.

Il film si chiude con una foto di Jessie che ritrae i soldati sorridenti e in posa sul cadavere del Presidente. La foto è stata scattata da Jessie. Non è un’istantanea, è stata costruita. Con ogni evidenza un manufatto.

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(Quasi)