Se ieri eri a Parigi, era un buon giorno per vedere “BD à tous les étages” al Centre Pompidou.
Al quinto piano, all’interno dell’esposizione di arte contemporanea, è stata allestita la mostra “La bande dessinée au Musée”. Passeggi nelle sale in cui sono normalmente esposte opere belle e importanti prodotte dalle arti maggiori e le trovi accostate a disegni o pagine di fumettisti e fumettiste.
Magari una volta chiacchieriamo del senso dell’esposizione di una tavola originale, un manufatto che, per il fumetto, è sempre un semilavorato, un prodotto intermedio del processo di realizzazione. Adesso goditi quelle pagine più che puoi e cerca le sorprese.
Nei corridoi tra una sala e l’altra sono state allestite, disponendo le cornici sulle due pareti una di fronte all’altra, delle piccole mostre personali di alcuni autori fondamentali per la storia del fumetto.
Sospetto che – anche senza prestare troppa attenzione al vincolo appiccicato nel titolo, “Bande dessinée 1964–2024” – fosse davvero molto difficile inserirle nel discorso della mostra principale (quella al sesto piano). Pare proprio che la gran parte degli originali esposti appartengano al Fondo Hélène et Edouard Leclerc e a me viene il sospetto che in quel fondo ci fossero questi pezzi meravigliosi che, se i curatori si fosse limitati ad aderire al vincolo imposto dagli estremi temporali dettati dal disegno teorico della mostra principale, sarebbero rimasti nella loro pratica cella a temperatura e umidità costante, mai guardati da occhio umano.
Un’altra volta, se hai voglia, ti dico cosa penso di quel vincolo temporale e del senso del progetto della mostra. Ora voglio suggerirti di passare del tempo – tutto quello che puoi, che vuoi e che ti serve – nei corridoi in cui sono state allestite queste piccole mostre.
Sono sei, ognuno dedicato a un autore: Geo McManus, Winsor McCay (con pagine di Nemo e Rarebit Fiend e straordinarie illustrazioni editoriali), Edmond-François Calvo (esclusivamente da La bête est morte!), Will Eisner (solo Spirit, sequenza di storie e illustrazioni, “graphic novel” e visioni newyorchesi al piano di sopra), Hergé (pagine in varie fasi di lavorazione dagli schizzi, alle matite, alle tavole inchiostrate alle indicazioni di colorazione) e, infine, George Herriman.
Perché – in barba a qualsiasi ordinamento alfabetico o cronologico – ho tenuto George Herriman per ultimo? Per due ottime ragioni. Innanzi tutto, perché le pagine di Krazy Kat presente sono meravigliose e sono state disegnate con carte e inchiostri che non hanno risentito delle ingiurie del tempo (altrove, al Pompadour, trovi delle splash page di Hellboy i cui neri virano così tanto al rosso che pare che Mike Mignola abbia usato i pennarelli Carioca).
In secondo luogo perché ieri era il 22 agosto. Esattamente 144 anni fa nasceva Krazy Herriman e ti sei dimenticato di fargli gli auguri.
Dovremmo opporci alla banalità di chi festeggia i centenari delle nascite e godere della bellezza straniante di questo evento.
144 è 12×12, dodici al quadrato. Krazy Kat sarebbe stata molto felice della ricorrenza.
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).