Sì, davvero Moana!

Boris Battaglia | Pantomime del Calisota |

Fare una rivista con Paolo è una faticaccia.

Intendiamoci, fare una rivista è abbastanza semplice. Basta che la gestione degli imprevisti, le incomprensioni, le discussioni le lasci tutte a lui, le questioni amministrative e burocratiche le lasci all’editore, e durante le cene di redazione usi l’accortezza di sbronzarti così hai la scusa il giorno dopo per non mettere in pratica quello che si è deciso: tanto non ti ricordi niente!

Eh, lo so, ti starai chiedendo: ma allora, se Paolo fa tutto lui (e qualcosa anche Claudio) fare una rivista con lui dovrebbe essere una passeggiata. Perché dici che è una faticaccia? Perché dietro quella scorzaccia da autorevole critico decisionista sicuro di sé, mio fratello Paolo ha un cuoricino da socialdemocratico e gli piace la partecipazione democratica. Così, davanti alla mia insensibilità alla vita redazionale, va in crisi: non è giusto, faccio tutto io, i temi li decido io, con le redattrici e i redattori ci discuto io, gli editoriali li scrivo io, il podcast lo registro io,  la newsletter la scrivo io, la verità è che a te di fare (Quasi) non importa più nulla. Allora devo rassicurarlo. No, guarda, a me fare questa rivista piace tantissimo, e voglio continuare a farla così, come l’abbiamo fatta fino ad adesso, mantenendo i ruoli come ce li siamo divisi dall’inizio.

Non fare il furbo! – mi rintuzza -Se è vero che vuoi continuare a farla, allora il prossimo tema lo scegli tu. E ci scrivi pure l’editoriale. Va bene, penso, una volta all’anno posso anche farlo. Scelgo il tema, scrivo l’editoriale, lo pubblico. Una settimana dopo lui mi fa: ma davvero Moana? A me di Moana Pozzi non frega nulla, i film porno sono tutti porcate reazionarie e preferisco i film di Kung Fu.

Capisci adesso perché fare una rivista con lui è una cosa difficile? Prima mi obbliga, con il ricatto moral-democratico, a fare la fatica della scelta del tema e a giustificarla nell’editoriale, poi mi dice che era meglio se non lo facevo, che potevamo dedicare il numero di settembre a Bruce Lee.

Non devo incazzarmi? Se facevamo Bruce Lee, mi risparmiavo la fatica ed eravamo tutti più contenti. Invece adesso la fatica mi tocca doppia, infatti devo rispondere al suo controeditoriale, visto che, per colpa sua, questa di Moana è diventata una di quelle questioni ideali per cui mi piace litigarmi. Anche perché, se su una cosa non capisco cosa intende, sull’altra ha dannatamente torto.

Cominciamo da quella che non ho capito. Quando definisce il cinema porno una «porcata reazionaria», non mi è chiaro se ne sta dando un giudizio estetico o uno etico-ideologico (nessuno attacchi la solfa del bello uguale buono perché mi incazzo davvero!).

Fosse un giudizio estetico, beh, la legge di Theodore Sturgeon la cita sempre lui e se il 90 % di tutto è merda, non vedo perché il cinema porno dovrebbe esserne esente. Direi anzi, che avendo come soggetto principale le deiezioni umane di ogni tipo, la percentuale di film porno di merda sarà anche più alta rispetto al totale. Ma almeno un 3 – 4 % della produzione pornocinematografica, da Gerard Damiano a Erika Lust, passando per Michael Ninn, è – dal punto di vista estetico – potabile. Personalmente poi, non considero la bruttezza dei film (porno o meno che siano) una discriminante per non guardarli. Non considero la bruttezza una discriminante per nulla di quello che faccio, leggo persino dei fumetti Bonelli o un “Alan Ford” alle volte (lo so che (Quasi) ti parla solo del bello, ma per farlo – e infatti ti parliamo di Moana, non dei film che ha “interpretato” – ci è necessario conoscere il brutto: Moana era bellezza, ma il brutto – i film di Schicchi – faceva parte della sua vita).

A meno che, invece, sia un giudizio etico-ideologico e quel «porcata reazionaria» sia riferito a quanto, non solo i film, ma tutta la pornografia veicola: la normalizzazione del sesso nel discorso di un dominio conservatore e patriarcale. La pornografia come sovrastruttura (fenomeno espressivo/culturale che da forma al nostro immaginario) che normalizza il sesso attraverso la segmentazione delle perversioni mi sembra una lettura poco convincente.  Per due motivi: il primo è che ogni sovrastruttura nel nostro sistema sociale capitalistico è, in senso normalizzante, reazionaria, persino i discorsi rivoluzionari; l’altro è che la segmentazione in parole chiave è tipica dei siti internet, non specifica della pornografia. Internet è reazionaria? Non lo so. Francesco Filippi, nel suo Cinquecento anni di rabbia ci spiega che la sua evoluzione non è ancora stabilita, che non è ancora arrivata alla terza tappa della storia di ogni strumento tecnologico, quella in cui chi domina il discorso pubblico ottiene il controllo completo su quello strumento per legittimare il proprio potere. Non credo quindi che l’attuale distribuzione su internet della pornografia (su come internet stia cambiando lo statuto della pornografia è illuminante il saggio di Amia Srinivasan, Parlare di pornografia ai miei studenti, raccolto nel suo Il diritto al sesso) sia sostanzialmente reazionaria. Non ancora, almeno.

Se invece Paolo pensava al momento produttivo dei film pornografici, allora sono assolutamente d’accordo. L’industria pornocinematografica è una struttura capitalistica, nella quale come per ogni altra industria la forza lavoro è vincolata e sottoposta ai mezzi di produzione e al profitto.

In Italia di Andrea Dworkin non è stato tradotto praticamente nulla (solo un saggio sulle donne di destra pubblicato da Vanda Edizioni un anno fa). Non credo sia un complotto per non farti leggere questa fondamentale teorica femminista (poco amata anche da molte femministe), però è una cosa che da agio a cialtroni accademici come Pietro Adamo di liquidare, nel suo noiosissimo e non a caso pubblicato da Mimesis con un titolo involontariamente ridicolo, Hard Core: istruzioni per l’uso. Sessuopolitica e porno di massa, la sua riflessione come mera accusa alla pornografia di essere causa efficiente dello stupro. Ora, se fai lo sforzo di leggerti il suo Pornography. Men possesing women, pubblicato nel 1981, oltre a goderti una prosa violenta e provocatoria, scoprirai che Dworkin dice una cosa leggermente diversa: partendo da un’analisi storica dell’industria pornocinematografica, ne dimostra la specificità di industria capitalistica e schiavista, concludendo che la pornografia cinematografica è uno stupro anche se c’è il consenso. Su quale sia il peso psichico ricattatorio che la nostra società fa ricadere sul sesso, al punto di doverlo legare a un concetto così labile come quello del consenso, non devo certo aggiungere niente io alle parole di Simone de Beauvoir che avrai sicuramente letto nel Secondo sesso. Nel 1986 Linda Susan Boreman, meglio conosciuta come Linda Lovelace, darà ragione a Dworkin, dichiarando a proposito di Gola profonda davanti all’Attorney General’s Commission on Pornography: «Ogni volta che qualcuno guarda questo film, è come se assistesse al mio stupro».

L’industria pornografica, come tutte le industrie, è reazionaria e degradante, con la specificità di essere volta alla costruzione di un immaginario sessuale subordinante il genere femminile. Di questo non possiamo avere dubbi. Ma un’industria reazionaria costruisce esclusivamente prodotti reazionari? Nadine Strossen sostiene che non si può dare un giudizio chiaro e univoco su questo, perché non possiamo dimenticarci che ogni prodotto visivo non può prescindere dallo sguardo di chi lo guarda e dalla sua interpretazione. Altrimenti non si spiegherebbe perché i più reazionari tra i reazionari, cioè i moralisti, non disarmano mai la loro battaglia per proibirla. Ai loro occhi la pornografia è, se non rivoluzionaria almeno destabilizzante.

E siamo arrivati al punto in cui Paolo ha dannatamente torto. Io non ho mai detto che Moana ci ha fatto credere di avere influito sul nostro immaginario in una misura non corrispondente alla realtà. Ho detto che chi controlla il discorso pubblico, quegli stessi che recentemente hanno fatto di un produttore senza scrupoli come Rocco Siffredi il commovente eroe di una serie tv, hanno usato la sua immagine di donna bella e intelligente che avrebbe scelto la carriera pornografica in piena consensualità per imbellettare la peggior (sul piano etico ed estetico – che però restano separati) produzione pornografica, quindi la quintessenza dello sfruttamento capitalista.

Moana questa cosa, da brava imprenditrice di se stessa, l’ha usata a proprio vantaggio. Ma la verità traspare ogni volta dietro quel suo sguardo e quel suo sorriso enigmatico. Lo associavo alla figura di Medusa riletta da Elène Cixoux, perché ogni volta che da spettatore lo incroci ci vedi brillare (almeno a me strossenianamente accade) la ridicolizzazione per la retorica fallocentrica dei film che le sono stati costruiti attorno. È uno sguardo che non pietrifica, ma disvela la profonda bruttezza di una società, la nostra, che è la realtà di cui l’industria pornografica è specchio. Solo in alcune inquadrature del viso di Stoya l’ho ritrovato. Più sprezzante, meno irridente.

Per questo di Moana mi interessano quello sguardo e quel sorriso, dove è sempre evidente quanto, con profonda ironia, facesse per finta.

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(Quasi)