Fare una rivista con Boris è un inferno! Odia il lavoro. Quando c’è da decidere, da programmare e da fare, lui è al bar a teorizzare. Probabilmente legge un sacco in quel bar, tra un taralluccio e un bicchiere di vino (ma lui, lo snob, lo chiama “calice”), perché poi torna e ti sommerge di saperi e sapori, di citazioni ed eccitazioni, di istinti distanti e di istanti distinti. Un vortice enciclopedico, sempre un po’ aggressivo, che ti scatena sensi di colpa.
Mentre sto uscendo dalla stanza alla ricerca di un confessionale dove trovare qualcuno che mi dia un colpo di spugna all’anima, mi rendo conto che in realtà mi è saltato addosso per dirmi che ho detto un mucchio di cretinate, ma alla fine sono sostanzialmente d’accordo su quasi tutto quello che dice. Però, vuole la rissa, lui.
Dopo il mio articolo di un paio di settimane fa, quello per cui Boris mi ha risposto coprendomi di volgari insulti, ho parlato con alcune lettrici di (Quasi). Benché gentili, hanno tutte rimarcato il mio perbenismo peloso. Mi hanno sostanzialmente detto che esiste un porno che non è schifosamente reazionario e che il pornofemminismo è una realtà. Siccome quando non capisco faccio domande, ho ottenuto risposte che – semplifico un po’ – mi sembrano afferire a due diverse sfere del discorso. La prima si disinteressa della produzione e si concentra sulla fruizione e dice: ogni persona deve essere libera di guardare, leggere o ascoltare quello che vuole, allo scopo che preferisce, senza che tu possa permetterti di essere giudicante. La seconda attiene al mondo della produzione e afferma: condannare l’industria della pornografia è battersi contro la legalizzazione e il riconoscimento di chi lavora con il sesso; dobbiamo invece lottare perché i sex worker possano emergere e vivere senza essere investiti da accuse, condanne e riprovazione.
Tutto giusto. Il capitalismo fa schifo, ma è tanto comodo e accogliente. La depenalizzazione e l’inserimento in strutture produttive riconosciute permetterebbe di far emergere un sacco di lavoratori (riducendo anche l’oscena incidenza percentuale della disoccupazione nel paese).
Provo a rispondere come farebbero Rosso Foxe (secondo me, riuscendoci abbastanza bene, ma – nel caso – mi correggeranno).
Tutto questo discorso, che si immerge come un cristo nel Giordano nei modelli economici e, soprattutto, nel sistema dei bisogni, sembra voler ignorare la contrapposizione fortissima e violenta tra doveri e desideri.
Il lavoro è il nucleo pesante del dovere. Il sesso quello bruciante del piacere. Il lavoro è commercio del proprio tempo (e del proprio corpo), con regole contrattuali che tutelano – più o meno – le parti. Il sesso è liberazione del proprio tempo e del proprio corpo per cercare piacere.
Personalmente, reputo il lavoro un’aberrazione necessaria, che aliena tutti i miei spazi vitali, ma mi serve per vivere con leggerezza tutti gli spazi che non sono lavoro o suoi derivati. Il sesso, invece, è il dominio della gioia condivisa nelle forme e nei modi resi leciti dalla fiducia e dal desiderio consensuale di chiunque partecipi alla sua pratica (in gruppi da una a sei persone – oltre, per coordinarsi, c’è bisogno di una forma di governo).
C’è una frase che trovo oscena: «Fa’ un lavoro che ami e non lavorerai mai un giorno in vita tua». Che cazzata! Fa’ un lavoro che ami e imparerai a odiare pure quello.
Credo che il sesso sia la cosa più bella del mondo, quella che ricerco con più slancio e influenza moltissime delle scelte della mia vita. Il lavoro è un obbligo e mi è insopportabile il dover vendere il mio corpo per pagare scarpe, formaggio, vizi, assegni di mantenimento e le storie in cui vivo. A meno che tu non sia dedito alla ricerca pura, come artista o scienziato, il lavoro è sempre organizzazione e l’organizzazione prevede la specifica di responsabilità e deleghe. Quella roba serve a comporre i modelli del potere. E chi ha il potere lo esercita a scapito di altre persone che ne hanno meno.
Sento chiaro il grido: «sex work is work». Ecco: il problema è proprio questo.
Allora, Boris, se vuoi giochiamo su distinzioni sottili e ci mettiamo a pettinare criceti ontologici e tacchini induttivisti, ma mi pare che su questo abbiamo posizioni che possono dialogare.
Poi, a me il porno fa schifo e altre robe reazionarie (come i fumetti dei supereroi e i film di botte) piacciono un bel po’: contraddizioni in seno all’Interdonato.
Arriviamo però al tema vero, senza cincischiare e senza girarci intorno. Dici che «chi controlla il discorso pubblico» ci ha fatto credere che Moana abbia avuto una grandissima influenza sul nostro immaginario e che lei in quella leggenda – con quel suo sguardo da Medusa – ci ha sguazzato.
Sciagurato! Mettendo Moana sulla copertina di (Quasi), hai deciso di assecondare quel controllo. Anche noi, come quelli che trasformano Rocco Siffredi in un eroe, annessi al gruppo di chi, nel panottico, sorveglia e punisce.
Se siamo diventati un’emanazione di ciò che difende e diffonde quello che non è né bello né utile, che senso ha continuare a fare (Quasi)?
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).