Capitolo primo – Via da Ostiglia
Capitolo primo di dodici. Dove, prefissandomi di pubblicare un capitolo di questo saggio ogni ultima domenica del mese, per i prossimi dodici mesi (fino ad agosto 2025: in quel mese, cinquant’anni prima, Amici Miei uscì nelle sale) comincio a raccontarti, prendendola molto alla lunga, la storia di come quel film è diventato un cult e del perché ci è impossibile non rivederlo almeno una volta all’anno.
Alta, bassa, di mezzo, la Pianura Padana è solo un vuoto tra le montagne e il mare. Una terra desolata. Ma intendiamoci: non certo in senso eliottiano. La Padania non è un luogo dello spirito, è una terra sostanzialmente inospitale, nella quale chi ci vive lo fa solo perché ci è nato e non ha mai avuto l’occasione di andarsene. Un posto che non scegli, un posto che ti capita. Se proprio volessimo trasformarla in metafora, la Padania è un ipsografico, compreso tra il 45° grado nord di latitudine e il 10° grado est di longitudine, che rappresenta la curva della rassegnazione.
Certo, ha avuto i suoi cantori entusiasti ed eccezionali: Gianni Brera con quella prosa da liceale erudito, tutta volta a stupirti con parole desuete e neologismi, ma che in fondo non ti racconta nulla; e Giovanni Guareschi con quella prosa da quinta elementare, tutta volta a creare miti dove c’erano solo patologie.
(Aspetta. Adesso non t’incazzare e non accusarmi subito di lesa maestà perché ho criticato due giganti della scrittura. Lo so da me quanto Brera e Guareschi erano bravi. Guareschi lo rispetto come narratore di razza; mentre, per tante cose: dalla fiaschetta di brandy nella tasca interna della giacca a una teorica passione per Lilli Carati quando ha interpretato Il corpo della ragassa, con Brera, addirittura, mi identifico.
Concedimi quindi quel pizzico di provocazione retorica necessaria a un incipit che ti faccia venire la voglia di andare avanti a leggere per capire dove voglio andare a parare. A quel punto, se ancora penserai che sia uno stronzo, beh, non potrò fare nulla per farti cambiare idea, ma fino ad allora, concedimi il beneficio del dubbio.)
Povera inutile pianura, ha dovuto anche sopportare chi l’ha spacciata, con l’intento di predatori arrivismi politici, per una realtà geopolitica aspirante a una non meglio definita indipendenza da non si sa cosa. Come può ciò che non esiste aspirare a qualcosa? La Padania è solo una grande distesa di nulla.
Sul finire del diciannovesimo secolo e almeno ancora per tutta la prima metà del ventesimo, l’osteria non era, come la conosciamo oggi, il costoso – e spesso velleitario – laboratorio di un’inventata tradizione culinaria. I frequentatori delle osterie padane non erano, come oggi, giovanә designer o espertә di comunicazione o rampantә sociologә, impegnatә in proficue cene di lavoro, ma braccianti che ci si installavano con tutta la famiglia per consumare il misero pranzo che portavano con sé e per comprare il vino, alimento che oggi le dietologhe quando non te lo vietano te lo moderano a dosi ridicole, ma che allora era indispensabile, data la povertà calorica della loro dieta, per recuperare l’energia necessaria ai massacranti lavori nei campi.
Il compito dell’oste era solo questo: fornire il vino ai suoi avventori.
Quando, nel 1897, Domenico Secondo Mondadori (di professione ciabattino ambulante) e sua moglie Ermenegilda Cugola con i loro sei figli arrivano a Ostiglia, colgono al volo l’occasione di fermarcisi rilevando l’osteria del paese. L’oste è morto o se ne è andato, vai a saperlo, e nessuno – a ragione – vuole prendere il suo posto.
Ostiglia è un borgo da niente, in provincia di Mantova, perso tra quelle che allora erano solo malsane paludi e che Tomaso Monicelli (un personaggio che incontreremo tra poco), purtroppo (è lui a dirlo a più riprese) nato lì, definì come «grigio borgo della Padania.»
Comunque: gestire l’osteria stabilizza la famiglia Mondadori, permettendo ai figli di frequentarne la scuola elementare. Se la vita nomade è finita, i miseri guadagni della vendita del vino non permettono alla famiglia di Domenico ed Ermenegilda di uscire da quella povertà da cui speravano invece di emanciparsi. L’unico dei sei figli che riesce a prendere la licenza di quinta elementare è il terzogenito, Arnoldo, il più testardo. Gli altri si fermeranno alla terza.
Con la sua bella licenza elementare, Arnoldo Mondadori comincia a darsi da fare, proprio perché le entrate dell’osteria non bastano a mantenere una famiglia così numerosa. Dopo vari lavori (da ambulante – girava con carretto e asino per i mercati della bassa – a garzone di drogheria) nel 1907, quando ha 17 anni, trova impiego presso la tipografia del paese, l’officina tipografica dei fratelli Manzoli.
Ci mette pochissimo, Arnoldo, a capire che quello è proprio il suo lavoro. Il 1907 è anche l’anno in cui si avvicina alle idee socialiste. Forte delle sue competenze tipografiche e di qualche idea sociale un po’ raffazzonata, sul finire dell’anno riunisce una piccola redazione per pubblicare un giornale di propaganda dal titolo “Luce”. Nulla di rilevante dal punto di vista della storia delle idee, ma rilevantissimo invece per la crescita di Arnoldo: è in questo momento, organizzando questa redazione provinciale, che fa il passo che lo porterà a diventare, da tipografo, editore.
La sua passione per il lavoro di stampatore è tale che, quando si presenta l’occasione, nel 1908, riesce a trovare i fondi per rilevare la tipografia. Racconterà sempre che a finanziarlo fu un anonimo benefattore; in realtà, sappiamo che a prestargli i soldi fu il lungimirante direttore della locale Cassa Rurale Artigiana, Francesco Pasini che credette – a ragione – nel suo progetto imprenditoriale.
In onore alle sue idee socialiste (certo, poi diventerà l’editore di riferimento del regime fascista, ma è una parte della sua biografia che qui non toccherò, se non di striscio, quando nel prossimo capitolo ti racconterò di “Topolino” e di Cesare Civita) chiamerà la tipografia “La Sociale” e le affiancherà una cartolibreria gestita dalla sorella Dina. Nel giro di quattro anni quella cartolibreria diventerà una vera impresa editoriale.
Non sappiamo quando nacque l’amicizia tra Arnoldo Mondadori e Tomaso Monicelli. Di certo quando “La Sociale” diventa, nel 1912, una vera casa editrice con il nome “La Scolastica”, sono già buoni amici e Tomaso dirige con Arnoldo “La lampada. Nuovissima collana di libri per bambini dei migliori autori italiani”, il cui primo volume, una raccolta di novelle popolari intitolato Aia Madama, era stato scritto proprio da lui. Probabilmente, anche se Monicelli viveva a Milano almeno dal 1904 – anno in cui arrivò nel capoluogo lombardo per dirigere “Gioventù socialista” – si conoscevano (almeno superficialmente) già dai tempi del periodico “Luce”, sulle cui colonne, tra le altre, compare anche ripetutamente la sua firma.
Nato a Ostiglia nel 1883, in una famiglia di commercianti, Tomaso Monicelli visse una parabola comune a svariati aspiranti intellettuali di quel periodo: abbandono degli studi, adesione al socialismo rivoluzionario, poi interventista (si arruolò volontario e combatté sul Carso), di conseguenza nazionalista e poi fascista, se non addirittura sansepolcrista, di certo della prima ora. Sembra tra l’altro, avesse un buon rapporto con Giuseppe Bottai (che almeno una volta gli parerà il culo, trovandogli lavoro editoriale, quando nei primi anni Quaranta come giornalista cadrà in disgrazia presso il regime per averne criticato la deriva razzista). Appassionato di cinema, nel 1917 fondò una raffinata rivista di critica dalla vita effimera (durò solo due anni) ma dal titolo bellissimo: “Penombra” (la frase su Ostiglia che ho citato prima apre il suo editoriale sul primo numero).
Con ogni probabilità il vero rapporto di amicizia con Mondadori nasce tra il 1910, anno in cui sappiamo per certo che Arnoldo conosce quella che diventerà sua moglie, Andreina Monicelli (sorella minore di Tomaso), e il 1911 anno in cui comincia a collaborare spalla a spalla con il giovane editore. Il legame affettivo diventerà così stretto che, dopo il matrimonio con Andreina, celebrato nel 1913, Arnoldo prenderà in casa sua Giorgio, il figlio naturale di Tomaso nato nel 1910 da una sua relazione con la diva del muto Elisa Severi, allevandolo come figlio proprio.
Giorgio Monicelli avrà una vita di quelle che a me affascinano tantissimo (tra l’altro una cosa che mi inchioda è che morirà, ucciso dall’alcolismo, lo stesso anno in cui in questa inutile plaga di desolato dolore, nella quale ci scanniamo, sostanzialmente senza senso, per restare vivi, contro la mia volontà, arrivo io) e che mi fanno venire la voglia di raccontarle (tra le altre cose sarà, per darti un’idea, l’ideatore del termine fantascienza con cui tradusse, per la collana “Urania”, l’espressione inglese science fiction), ma è un personaggio che nel percorso di questo saggio non ha un ruolo – ce ne saranno altri, incredibili allo stesso modo -, quindi te ne dirò un’altra volta.
Torniamo a suo padre Tomaso. Avere figli da ogni relazione è un vizio che non perde (d’altra parte in quegli anni per potersi infilare, in Italia, un profilattico dovevi conoscere qualcuno che te lo portasse da Londra); con la ostigliese Maria Carreri, nel 1912 mette al mondo Franco. Nel 1915 i due si sposeranno prima che nasca Mario, il loro secondo genito. A Mario seguiranno altri tre figli, Massimo, Furio e Giovanna.
Dicono, sia la sua compagna Chiara Rapacci sia la sua grandissima amica Suso Cecchi d’Amico, che Mario Monicelli fosse un gran bugiardo. Di certo si divertiva a confondere le acque sulla propria biografia, mettendo in giro voci false. Dichiarava di essere nato a Viareggio, ma poi, confessava che in realtà era nato a Roma. Anche sulla data confondeva le idee: alle volte diceva di essere nato il 16 maggio 1916, altre volte di essere nato il 15 maggio 1915. Nel 2021 lo storico Franco Chiavegatti, dopo una lunga ricerca negli archivi dell’anagrafe ostigliese, ha chiarito l’enigma e nel suo fondamentale I Monicelli pubblicato da Sometti ci dice quale è la sua vera data di nascita e quale il luogo. Mario Monicelli nacque il 16 maggio 1915 a Ostiglia nella casa della nonna materna.
Tutto si tiene. Se il padre, in età adulta, aveva lasciato la grigia provincia della bassa padana per vivere a Milano e poi Roma, se lo zio Arnoldo appena gli fu possibile spostò la sua casa editrice a Milano (nel 1919), Mario – che nella sua lunga vita ci dimostrerà di sapere meglio del padre e dello zio come funzionano le storie – se ne era scappato via, retrospettivamente e quindi con un atto di volontà di forza assoluta, ancor prima di nascere.
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.