Cent’anni fa nasceva Harvey Kurtzman. Penso sia il più importante e seminale autore di fumetti di tutti i tempi. Ripropongo un profilo che ho scritto per la rivista “Black” nel 2007
Il corpo esile raccolto su una sedia; i piedi nudi; un abito di lino bianco; il sorriso allegro ma malato che gli apre il viso dai lineamenti taglienti; il cranio completamente calvo. Credo sia uno tra i più grandi autori di storie per immagini di tutti i tempi, eppure quando penso a lui non mi viene in mente una vignetta di “Hey look!”, “Mad” o “Little Annie Fanny”: mi si stampa davanti agli occhi questa fotografia in un nitido bianco e nero che ne racconta benissimo volontà e motivazioni. Guardalo! Si capisce che è un guerriero del racconto. Non ha niente a che vedere con la caricatura d’essere umano che Al Feldstein proporrà più volte in intervista: «Aveva le guance scavate, era quasi calvo e sembrava un coniglio».
È spesso straordinario per noi italiani scoprire che gli esperti di fumetto statunitense, quando enumerano gli autori più importanti, influenti e seminali della storia del comic book, menzionano accanto ai nomi di Jack Kirby, Carl Barks e Will Eisner, autori assai longevi e produttivi, quello di Harvey Kurtzman, i cui lavori (non tantissimi, per amor del vero) si trovano negli USA solo in rare e costose edizioni e in Italia in sporadiche occasioni.
Alla sua morte, uno specialista di coccodrilli del “New York Times” riuscì a costruire un titolo che definire eufemistico è riduttivo: “il fumettista che aiutò la partenza di «Mad»”. La risposta non si fece attendere e pochi giorni dopo, sul “New Yorker” c’era una risposta caustica a quella sonora idiozia:
« È un po’ come dire che Michelangelo ha aiutato a dipingere la Cappella Sistina perché la volta apparteneva al papa!»
La firma in calce al commento era quella di Art Spiegelman, l’autore di Maus.
Kurtzman nasce il 3 ottobre 1924, esattamente cento anni fa, ed esordisce, diciottenne e appena diplomato, lavorando nello studio newyorchese di Louis Ferstadt. Il formato comic book, albo a fumetti di carta povera spillate, era nato da poco; per soddisfare le esigenze di un’industria che stava crescendo molto in fretta, c’era bisogno di energie fresche e a basso costo. Lo studio era una di quei laboratori artigianali in cui i giovani fumettisti imparavano il mestiere guadagnando il minimo indispensabile a soddisfare un sistema dei bisogni estremamente controllato. La realizzazione dei fumetti era assegnata a un gruppo di giovani disegnatori dalle mansioni completamente intercambiabili. Inizialmente Kurtzman si occupa delle campiture a inchiostro per una riduzione a fumetti di Moby Dick. A questo lavoro seguono pagine e copertine sparse per Magno and Davey.
Il servizio militare lo allontana dallo studio per un paio di anni. E sono gli anni sbagliati: c’è una guerra mondiale in corso. Alla fine del conflitto, il giovane Kurtzman è assunto in Timely Comics, una casa editrice che oggi si chiama Marvel comics. Quando negli anni Sessanta del Ventesimo secolo, Marvel lancerà gli eroi che le daranno gloria e ricchezza, una delle caratteristiche delle pagine di apertura degli albi sarà la presentazione enfatica degli autori. Di lì a poco, potremo leggere strilli tesi a indicarci che le pagine colorate che ci frusciano davanti al viso sono state scritte dal sorridente Stan “The Man” Lee e disegnate dall’energico Jack “The King” Kirby. Negli anni in cui Kurtzman approda a quegli uffici, la riconoscibilità degli autori è una conquista lontana. Anche in Timely, la maggior parte degli albi viene prodotta da una squadra di anonimi disegnatori chiusi in una stanza e coordinati con piglio autoritario dal giovane Stan Lee, che sarebbe passato alla storia una quindicina di anni dopo per l’invenzione dei supereroi con superproblemi. Adele Hasan, segretaria di Lee, ricorda il periodo dicendo: «Alle 9:00 Stan soffiava nel fischietto e tutti iniziavano a disegnare».
In questo ambiente poco aperto all’individualità degli autori, Kurtzman riesce a scavarsi una nicchia personalissima. Si dedica a una serie di pagine autoconclusive che possono essere sparpagliate su tutti i comic book Timely. E ognuna di quelle pagine grida…
Hey, guarda!
Hey look! è il primo prodotto completamente personale del nostro. Si tratta di una serie di circa 150 pagine autoconclusive, pubblicate – da giugno 1946 a maggio 1949 – su un centinaio di albi appartenenti ad almeno 25 diverse testate (ma fortunatamente raccolte in volume nel 1992 da Kitchen Sink Press e reperibili su vari blog in rete).
Sono storie pervase da una vena nonsense in cui due ometti che rappresentano i prototipi di tutti i personaggi kurtzmaniani, uno spilungone e un bassetto, espressi con un segno estremamente sintetico, si trovano a confrontarsi con i problemi della quotidianità, dal radersi al bollire un uovo, dal prendere l’ascensore al sintonizzare una radio.
L’assenza di qualsiasi ingerenza da parte di Stan Lee lascia a Kurtzman una libertà insperata che porta a un crescendo di sperimentazioni: i due ometti sfondano la gabbia; mescolano i quadretti della pagina; si accorgono di mostrare ancora segni di grafite e si sgommano fino a cancellarsi completamente; giocano con la prospettiva; girano le vignette per nascondersi dietro.
Sono tre anni straordinari, in cui Kurtzman impara a usare il linguaggio, imposta le basi della propria scansione dei tempi del racconto e definisce un modo personale di raccontare. Ma tutto ciò non può durare in eterno. Kurtzman ha probabilmente violato troppe convenzioni narrative e viene richiamato all’ordine (lo denuncia l’ultima manciata di pagine del ciclo, in cui la narrazione riacquista una struttura quasi ordinaria).
Interrotta la produzione di Hey look!, Stan Lee cerca di coinvolgere Kurtzman nella progettazione di un clone della striscia umoristica Blondie. Il naso del sorridente Lee fa capolino sulla spalla curva del nostro, incitandolo a ricalcare lo stile di Chic Young, il disegnatore da depredare. Kurtzman si fa prendere dallo sconforto, ha un fresco matrimonio alle spalle (con Adele, la segretaria di Lee che ci ha raccontato i misteri della gestione della factory) e vede le proprie speranze di reddito divenire sempre più esili.
Inizia a girovagare per gli uffici di tutti gli editori di comic book a New York e riesce a piazzare una manciata di storie alla Tobey Press. Tra queste c’è il breve e memorabile ciclo di Pot-Shot Pete, lo sceriffo di Yucca-pucca Gulch.
Tra gli editori cui Harvey Kurtzman fa visita in questo periodo c’è anche Bill Gaines, insegnante di chimica mancato che ha da poco ereditato la casa editrice Educational Comics – EC Comics, specializzata in fumetto religioso e storico – dal padre Max Gaines. Il neoeditore ha un fiuto straordinario per il fumetto e si sta apprestando al lancio delle nuove linee di comic book, note con il nome “EC new trend” e incentrate sul crimine e sull’orrore, che condurranno al nuovo marchio Entertainment Comics, che garantirà la possibilità di non modificare sigla e logo.
Gaines e Feldstein, il fumettista cui l’editore sta dando maggior spazio, incontrano il giovane Kurtzman e iniziano a sfogliare le pagine di Hey look! che l’autore ha portato con sé. La lettura all’inizio si limita a essere divertente, poi, man mano che le pagine sfilano davanti allo sguardo dei due, le risate diventano sempre più convulse e irrefrenabili. Non c’è spazio immediato per Kurtzman, ma l’autore è troppo dotato perché ce lo si lasci sfuggire così. Il giovane fumettista esce dall’ufficio dell’editore della EC con un primo incarico. Per metterlo alla prova, Gaines e Feldstein gli assegnano un fumetto educativo sulle malattie veneree. Verificata l’affidabilità del giovane genio, quasi tutti gli albi della EC datati maggio e giugno 1950, contengono fumetti scritti e disegnati da Harvey Kurtzman. Sono i primi numeri del rinnovamento della EC comics, quello noto come…
La nuova direzione
EC ha un processo di produzione del fumetto che costringe gli sceneggiatori a impostare graficamente le pagine. Le tavole bianche vengono inviate a un servizio editoriale che traccia i balloon e disegna il lettering col normografo. Poiché le pagine arrivano sul tavolo del disegnatore già corredate di tutti gli elementi verbali, lo sceneggiatore deve essere in grado di suddividere la pagina in quadretti e definire gli ingombri e la posizione di nuvolette e didascalie.
A Harvey il vincolo calza a pennello. Lo traduce nel proprio marchio di fabbrica: fino alla morte, sceneggerà con la matita sul foglio da disegno, costringendo i disegnatori alla massima fedeltà.
Kurtzman è convinto che il segreto delle sue storie stia nell’equilibrio perfetto tra parole e immagini. Dichiara:
«Fare fumetti richiede l’uso di due elementi, la grafica e i testi. Ovviamente, il prodotto nel suo insieme trae vantaggio dall’avere buoni testi e buoni disegni. Più i testi e i disegni si integrano, maggiore è la possibilità di creare Arte con la A maiuscola.»
Per assecondare la sua volontà di trovare il punto di equilibrio tra disegni e parole, Harvey acquisisce il controllo completo sulla narrazione, perdendo in produttività. Mentre il principale (e più prolifico) sceneggiatore della EC, Al Feldstein, riesce a scrivere le quattro storie pubblicate in un albo in una sola settimana, dalle mani di Kurtzman esce al massimo un comic-book al mese.
Kurtzman si trova a disagio con i fumetti dell’orrore, che sono uno dei marchi di innovazione di EC comics, e vuole trovare un territorio narrativo che gli sia più congeniale: ci riesce con il fumetto di guerra. Nell’autunno del 1950, infatti, disegna la copertina del primo numero di “Two Fisted Tales”, di genere avventuroso. Alla terza uscita Kurtzman diviene curatore della testata e autore dei testi di tutti i fumetti, che abbandonano i temi avventurosi per raccontare esclusivamente storie di guerra. Nell’estate del 1950 è scoppiata la guerra in Corea e i lettori americani si interessano alle storie belliche. L’anno successivo è la volta del primo numero di “Frontline Combat”, il nuovo comic book EC, che ancora una volta pubblica esclusivamente storie di guerra scritte (e qualche volta disegnate) da Kurtzman.
“Two Fisted Tales” e “Frontline Combat” sono le prime testate sottoposte al trattamento Kurtzman. Da questo momento, per circa quindici anni, il nostro collaborerà quasi esclusivamente con albi e riviste su cui abbia un controllo totale: pubblicazioni da lui create, editate, sceneggiate fino al lay-out e talvolta anche disegnate. Questo trattamento, forse un po’ svilente per i disegnatori, garantirà a tutti i suoi prodotti una grande coerenza stilistica e una totale riconoscibilità testuale e narrativa.
Adele Kurtzman racconta di come Harvey potesse perdere giorni alla ricerca di amici e conoscenti che fossero stati a Iwo Jima per andare a intervistarli, perché reputava che tutte le sue storie dovessero essere supportate da ricerca accurata. Alle proteste della moglie che faceva osservare che sarebbe stato sufficiente leggere un paio di giornali, Kurtzman rispondeva con un perentorio: «No. Devo parlare con la gente».
I fumetti di guerra di Kurtzman, mai militaristi, sono accuratissimi per quanto riguarda fonti e documentazione. Ma non si tratta di fumetto squisitamente storico: la sua attenzione è sempre fortemente indirizzata alle persone coinvolte dalla tragedia bellica e le vittime di una battaglia non sono mai un numero: hanno tutti nomi, volti e un vissuto ricco e difficile. Ha ragione lo scrittore newyorchese Pete Hammil che afferma:
«Kurtzman è stato il primo a dire in un fumetto di guerra come stavano le cose.»
Fino a quel momento, in realtà, Kurtzman si era sempre un po’ vergognato di fare fumetti («La gente mi chiede perché faccio fumetti. La mia risposta è sempre la stessa. Dopo un po’ inizio ad aver fame e in qualche modo si deve pur vivere»); con le storie di guerra, è finalmente fiero dei propri lavori.
Purtroppo raramente le soddisfazioni personali sopperiscono alle esigenze alimentari. Bill Gaines, sebbene estremamente paterno con i propri autori (tanto da garantire loro un’assicurazione sanitaria, una vera eccezione e non solo per i tempi), paga poco. Circa la metà delle concorrenti Timely/Marvel e National/DC, per esempio.
Per risanare il suo reddito precario, Gaines propone al lentissimo Kurtzman di curare una nuova testata oltre ai due bimestrali di guerra. Deve trattarsi di un lavoro che non richieda le interminabili ricerche cui il nostro è costretto dal proprio perfezionismo. Memori di Hey look!, Gaines e Kurtzman si accordano per un comic book umoristico che si dovrebbe chiamare “Mad mag” ma il futuro curatore della testata decide di accorciarne il titolo. Alla fine dell’estate del 1952 esce “Mad”, una testata che promette al lettore…
Storie che ti faranno diventare pazzo
La copertina, disegnata da Harvey, è straordinaria. È una sola immagine, ma racconta una storia complessa. Una famigliola, composta dai due genitori e dall’unico figlio, si aggira per un castello buio, fatiscente ed evidentemente infestato. La porta si spalanca all’improvviso e un’ombra bitorzoluta si allunga verso i visitatori. I genitori si schiacciano contro il muro nascosti dietro il figlio. Il padre grida: «Quella cosa! Quell’ammasso informe che striscia verso di noi!» La madre aggiunge «Cos’è!?» Il bambino, impassibile e senza estrarre l’indice dall’ospitale narice, dà l’unica risposta possibile: «È Melvin».
Dopo la copertina appare la prima pagina a fumetti del lungo corso di “Mad”. Il titolo, HOOHAH!, fa intendere chiaramente che è giunto il momento di qualcosa di completamente diverso.
Kurtzman flette i muscoli e si allena per tre numeri. Dopo una serie di parodie dei generi tipici frequentati in EC (l’orrore, il fantastico, l’avventuroso, il western), l’obiettivo si allarga catturando nella sua interezza l’immaginario statunitense: la satira di “Mad” colpisce il fumetto, il cinema, la radio, la televisione e la pubblicità. Dal quarto numero “Mad” va già benissimo, tanto che Al Feldstein, il braccio destro di Gaines, durante un party avvicina Kurtzman e lo ringrazia per aver salvato l’azienda.
La testata, inizialmente bimestrale, conquista periodicità mensile e si assesta su una tiratura di 750.000 copie, con un venduto medio dell’86%. In breve tempo, nei chioschi che vendono comic book fanno capolino, accanto a “Mad”, undici diverse imitazioni (una delle quali, “Panic”, è prodotta dalla stessa EC). Nel frattempo però la cura estrema riservata a “Mad” rallenta Kurtzman nella produzione dei fumetti di guerra. Quando nel luglio del 1953 il conflitto coreano raggiunge definitivamente una situazione di stallo, i lettori si disaffezionano ai comic book bellici, causandone la chiusura e riportando, ancora una volta, il nostro in una situazione di precarietà economica.
Kurtzman è doppiamente insoddisfatto. Da una parte vuole che la propria creatura gli garantisca un reddito maggiore; dall’altra il comic book gli va stretto e vorrebbe trasformare “Mad” in una rivista, vorrebbe aumentare la gamma dei propri strumenti per meglio parodiare linguaggi, generi e personaggi. Gaines non glielo permette. Nella primavera del 1954, una crociata antifumetto ispirata dallo psicologo Wertham e guidata dal senatore Kefauver, induce il sottocomitato senatoriale per la delinquenza giovanile a un’indagine sull’industria del fumetto che si conclude con il vivo consiglio all’industria di dotarsi di un sistema di regole. Entro la fine dell’anno nasce il Comics Code, codice autocensorio con cui il fumetto statunitense, per evitare oscenità, si preclude la possibilità di qualsiasi tema adulto.
È un codice che mira a rimuovere sesso e violenza dai fumetti. E per farlo, aggiorna, con fare un po’ pedissequo, le regole che il cinema si era dato una ventina di anni prima con il codice Hays. In estrema sintesi, il codice proibisce la rappresentazione di sesso e violenza, prevede che il bene vinca sempre e che le autorità non siano mai messe in discussione, vieta esplicitamente la rappresentazione di mostri, droghe e alcol. In questo modo colpisce direttamente tutti gli elementi vitali che rendono interessanti le pubblicazioni EC comics.
L’effetto più immediato del neonato Code è la chiusura di quasi tutte le testate EC, che – in un modo o nell’altro – ne violano i divieti. Bill Gaines vorrebbe ritirarsi e Harvey Kurtzman ha già in tasca un ottimo contratto con la rivista “Pegeant”. I due trovano un accordo per tenere in vita solo “Mad”: Gaines si indebita con la madre, Kurtzman si riduce la paga, “Mad” subisce una rivoluzione nel formato per aggirare il Code e soddisfare maggiormente Kurtzman.
Nella primavera del 1955, la rivista “Mad”, completamente in bianco e nero e di formato più grande, compare nei chioschi e Kurtzman è libero di parodiare articoli, reportage e pubblicità delle grandi riviste statunitensi. Questa modifica salva la casa editrice ma non riesce a risolvere i problemi economici di Harvey. Quattro mesi dopo Kurtzman è di nuovo nell’ufficio di Gaines. Hugh Hefner, l’editore di “Playboy”, lo ha contattato per proporgli di fare la versione lussuosa, patinata e tutta a colori di “Mad”. Con le spalle coperte da questa opportunità, Harvey Kurtzman pone un aut aut a Bill Gaines: vuole il 51 % di “Mad”, il controllo completo della rivista e la possibilità di aumentare la propria retribuzione e quella dei suoi collaboratori.
L’editore si sente ferito. Tra i due c’è una rottura così secca da far sì che Gaines giochi anche dei brutti tiri all’inventore di “Mad”, facendone eliminare il nome dalle ristampe delle selezioni di fumetti della rivista edite da Ballatine Books. Dopo sette anni di assidua collaborazione, Kurtzman esce per l’ultima volta dagli uffici della EC Comics, sbattendo la porta. Lo attendono…
Nuove sfide
Nel gennaio 1957, sotto l’egida di Hefner, esce il primo numero di “Trump”, una rivista patinata e preziosa che costa 50 centesimi, esattamente il doppio di “Mad”. Il primo numero è meraviglioso. Ci sono i tre maggiori interpreti dei testi di Kurtzman per “Mad”: Will Elder, il disegnatore che rimarrà in totale sintonia con Kurtzman fino alla morte; Jack Davis, che liberatosi dalla nefasta necessità di disegnare horror costruirà anatomie tanto esageratamente spasmodiche quanto credibili; Wally Wood, l’unico disegnatore capace di assorbire nel proprio segno le influenze di tutti gli autori che lo hanno preceduto e di tutti quelli che lo seguiranno. Ci sono nomi già grandi e altri che lo diventeranno di lì a poco: Al Jaffee, Russ Heath, Bob Bleachman. C’è anche Arnold Roth, cartoonist proveniente dalle pagine di “Playboy” che, una volta entrato in contatto con Kurtzman, gli resterà fedele a lungo. E c’è infine, in copertina, un piccolo araldo, vestito come un asso di picche fuggito da Alice nel paese delle meraviglie. Questa figurina, che traccia una linea verso il lavoro di Lewis Carroll e John Tenniel, promette di essere per la neonata rivista quello che il coniglietto è per “Playboy”. A dispetto delle premesse il paggetto non riuscirà a ritagliarsi uno spazio nell’immaginario collettivo: “Trump” chiude col numero 2.
Kurtzman era sicuro che, a partire dal quinto o sesto numero, il progetto avrebbe fatto breccia nel cuore del pubblico americano: tutti avrebbero letto “Trump”. Un’ipotesi che nessuno potrà mai verificare: il trasloco degli uffici della casa editrice di Hefner, una momentanea caduta nella vendita degli spazi pubblicitari di “Playboy”, e una più generalizzata crisi del mercato delle riviste fanno sì che le banche sospendano i prestiti all’editore. Hugh Hefner corre ai ripari e chiude la neonata “Trump”. È un imprenditore sano, l’operazione di contenimento costi e di risanamento dell’azienda colpisce tutti i costi improduttivi: Hefner arriva ad autosospendersi il salario per qualche tempo.
Lo spirito di Kurtzman non si lascia domare dalla catastrofe. Chiede un paio di centinaia di dollari al suocero e, insieme a Davis, Jaffee, Elder e Roth, si dedica alla pubblicazione di una rivista autoprodotta (e notevolmente più povera per carta e stampa). Hefner mette gratuitamente a disposizione degli uffici per la redazione e “Humbug” esce nell’agosto del 1957. Sopravvive undici numeri fino all’agosto dell’anno successivo. È in assoluto il progetto più affascinante che Kurtzman abbia mai intrapreso e anche quello dai risultati più strabilianti. Oggi quegli undici fascicoli sono stati ristampati, dopo un’accurata operazione di restauro, in una pregevole edizione statunitense curata da John Benson e Gary Groth per Fantagraphics.
Per un po’ Harvey non ha una rivista da dirigere e governare per raccontare il proprio approccio al fumetto e alla parodia. Fino a quando, un giorno, il trentenne James Warren, che di lì a breve sarebbe divenuto – con “Creepy” (lo Zio Tibia italiano) e “Eerie” – il più importante editore di fumetto horror statunitense, si presenta a Kurtzman e gli propone la gestione e il totale controllo di una nuova rivista umoristica: esattamente tre anni dopo l’uscita dell’ultimo numero di “Humbug”, appare nei chioschi “Help”.
Il rapporto tra Kurtzman e Warren non è idilliaco. Adolf Eichmann, criminale nazista e banalizzatore del male, è appena stato arrestato in Argentina ed estradato per essere processato. Sulle prove di stampa di “Help” in seconda di copertina c’è una foto del gerarca cui un balloon fa affermare:
«Non vi capita mai di avere l’impressione che tutti ce l’abbiano con voi?»
Warren vorrebbe bloccarne la pubblicazione dicendo che il limite deve essere il buon gusto e scherzare su un genocidio non è mai di buon gusto. Kurtzman non accetta alcuna ingerenza:
«Se ti permetto di censurarmi oggi, ti sentirai in diritto di rifarlo domani.»
La foto di Eichmann compare sulle pagine di “Help” (così come le lettere di protesta dei lettori nei numeri successivi) e i rapporti tra il curatore della rivista e l’editore si incrinano, diventano freddi e cordiali. Viene così a mancare quella preziosa complicità editoriale che si era create con Gaines prima e Hefner dopo: “Help” sicuramente ne risente.
Per la nuova rivista, Kurtzman ha a disposizione fondi assai limitati e, per riuscire a comporre il mensile senza superarli, è costretto a pubblicare principalmente fotoromanzi (una sorte abbastanza ridanciana fa sì che gli americani li chiamino “fumetti”), accostandoli a vecchie strip, per le quali non deve pagare diritti d’autore, e opere prime di giovani autori (pagate 5 dollari a pagina). Gli esordienti che appaiono sulle pagine di “Help” sono stati influenzati direttamente dai “Mad” letti durante l’adolescenza e di lì a breve daranno vita al fumetto underground: si chiamano Robert Crumb (che in questa sede pubblicherà per la prima volta Fritz il gatto), Gilbert Shelton, Jay Linch, Skip Williamson, Denis Kitchen…
Il giovane Terry Gilliam, futuro animatore e regista, raggiunge Kurtzman a New York (fronteggiando una selva di opinioni contrarie – compresa quella dello stesso Kurtzman interpellato telefonicamente – e affrontando una sorta di pellegrinaggio) e ne diviene assistente. In redazione conosce, tra gli altri, uno degli attori dei fotoromanzi, John Cleese e tra i due si sviluppa un’affinità che costituirà uno dei nuclei fondanti dei Monty Python.
Nel 1959 Kurtzman ha pubblicato Jungle Book, un libro epocale che raccoglie quattro nuove storie scritte e disegnate appositamente per il volume. Nel secondo episodio del libro, incentrato sul periodo trascorso da Kurtzman in Timely/Marvel, appare per la prima volta Goodman Beaver, figura ingenua e priva di qualsiasi forma di malizia (direttamente ispirata al Candido di Voltaire) che passa inconsapevolmente tra barracuda arrivisti e piranha aziendalisti.
Le potenzialità del personaggio affascinano Kurtzman che, accompagnato ai disegni dal sodale Will Elder, lo recupera sulle pagine di “Help” dando vita a un ciclo di episodi breve ma straordinario.
“Help” dura cinque anni e 26 numeri. Dalla nascita di “Two fisted tales” alla chiusura di “Help” sono passati solo quindici anni, un breve lasso di tempo durante il quale Kurtzman ha sperimentato coi codici visivi sviluppando una tensione ritmica consapevole e sistematica che non ha uguali nella storia del fumetto.
Nel frattempo Hugh Hefner non si è dimenticato di lui e, da qualche tempo, i due discutono di…
Una signorina procace
Ancora prima che “Help” chiuda, Kurtzman ed Elder cercano soprattutto sicurezza economica. Nel 1962 accolgono l’invito di Hugh Hefner e sviluppano una serie a fumetti per “Playboy”: Little Annie Fanny. Annie è la versione femminile di Goodman Beaver. Innocente, candida e inconsapevole della propria opulenta bellezza, si avventura in un mondo di cattiverie, abusi e tentazioni, attraversandolo incolume.
Hefner non è un committente facile; spesso si frappone tra gli autori e l’art director dando precise indicazioni su come correggere le singole immagini, dimostrando, a detta dell’affidabilissimo Jules Feiffer, una grande capacità nell’editing del fumetto e dell’illustrazione. Arriva anche a eccessi temibili: Arnold Roth ricorda una lettera di tre pagine in cui Hugh Hefner spiegava nel dettaglio come correggere la rappresentazione caricaturale di un pene (alla missiva Roth aveva risposto telegrafico: «Mi piacerebbe, ma purtroppo io disegno così i nasi e voglio evitare che si faccia confusione…»).
Il processo di sceneggiatura grafica di Kurtzman è evoluto al punto da richiedere sette stesure, alla fine delle quali ogni pagina dello script, destinata al solo disegnatore, è dettagliatamente scritta/descritta/disegnata/colorata e meritevole di pubblicazione autonoma. Le correzioni di Hefner arrivano anche sulle pagine già colorate da Elder. In questo modo si spezzano le tensioni ritmiche all’interno delle storie, delle pagine e anche dei singoli quadretti. È insopportabile ma Hefner paga. E paga bene: quattromila dollari a pagina!
Una tariffa così fuori mercato da mandare in frantumi il fragile equilibrio tra felicità e sicurezza cercato disperatamente da Kurtzman. Il nostro si trova costretto ad accettare un lavoro frustrante e deludente.
La carriera di uno dei più grandi artisti visuali del Ventesimo secolo viene così caratterizzata da un epilogo che dura più o meno il doppio del suo apice: Little Annie Fanny chiude nel 1988 dimostrandosi la più longeva tra le creature di Kurtzman. L’intero ciclo di storie (raccolto in due volumi dalla casa editrice statunitense Dark Horse e tradotto in italiano da Magic Press) presenta una galleria, lunga trenta anni, di icone dell’immaginario popolare.
Alla morte, avvenuta per cancro il 12 febbraio 1993, Harvey Kurtzman lascia un’eredità con cui le narrazioni fatte di immagini e parole non hanno ancora finito di confrontarsi.
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).