Nel paese in cui viviamo, le narrazioni potenzialmente più dirompenti sono disinnescate e rese innocue da quella cosa mostruosa e, trattandosi dell’Italia, fascista, che è il senso comune. E per “narrazioni potenzialmente più dirompenti”, intendo i fumetti e gli albi illustrati per l’infanzia.
Da noi i fumetti sono, letteralmente, piccoli fumi, nuvole, che si disperdono nel niente. Roba per bambini. Più in basso dei fumetti – chiamati anche con sufficienza e senza l’amore che tale definizione potrebbe custodire, “giornaletti” – ci sono solo i “libri per bambini”, la letteratura per l’infanzia. Altrove, dove i fumetti sono comics (non solo per sminuirne il valore, ma perché inizialmente tutti di stampo umoristico), i libri per l’infanzia sono picture book, libri illustrati, libri dipinti: un termine che, come poi è successo ai fumetti grazie al graphic novel, consente a chi lo pronuncia, di sentirsi comunque accettato in società. Sul pezzo, intelligente.
La discriminante che accomuna fumetti e letteratura per l’infanzia, è l’essere considerati prodotti per bambini. E in quanto tali, per gli adulti hanno una funzione e un senso solo relativamente al loro essere pedagogici, educativi, coinvolti nella costruzione di individui nuovi, inseriti nella società, integrati. Solo in questo senso, per il senso comune, trovano senso.
Peccato. La notizia per tutti coloro che vedono questi libri in un’ottica meramente “funzionale”, è che essi sono l’esatto contrario. Certo, non stiamo parlando di tutta la produzione (e quindi ne escludiamo la maggior parte, ovvero quei libri che fanno della funzionalità motivo di esistenza: libri per usare il vasino e il pannolino, libri per capire le emozioni, libri per andare a dormire, per non aver paura del buio, per imparare l’inclusione, la diversità, per accettare la rabbia, la tristezza, la gioia, i lutti, le nascite, eccetera), parliamo solo di quella minima parte di letteratura per bambini che racconta la profondità del pozzo che siamo chiamati a esplorare lungo tutta la nostra esistenza. Quel buio, quello scuro, quell’acqua torbida, la viviamo tutta lì, concentrata, nei beati anni dell’infanzia. D’altronde, ce lo dice anche Maurice Sendak, il più grande di tutti gli autori “per bambini”: «L’infanzia è una faccenda molto molto complicata, che ha a che fare con il sopravvivere».
È chiaro, maestra? Ministro dell’Istruzione? Mamma e papà? Sono denti che ti mangiano, l’infanzia. E la beata supponenza che ci ha fatto allontanare – metterci al sicuro! – una volta cresciuti, da quel modo di intendere il mondo attorno, il mondo là fuori, non potrà mai salvarci davvero dal tempo nero dei giorni fanciulli.
I fumetti, così indefinibili (cosa sono? Testo coi disegni? Disegni con le parole? E soprattutto, cosa si deve guardare prima?) e i picture book, così intrinsecamente freak, sono null’altro che letteratura “piccola”. Di nuovo, roba per bambini. Ma le cose piccole sono le più pericolose. Quelle potenzialmente più dirompenti. Perché nessuno le sente, nessuno le vede. E in questo modo, silenziosamente, infestano i sogni e vivono nel cuore. Come i folletti del folklore. Gli zingari nei racconti dei bisnonni. I barboni sotto il ponte, o i mostri sotto il letto. L’invisibile che ci tormenta la coscienza.
Ecco che allora, per non confrontarsi con questo terrore atavico, per allontanarlo da noi attraverso la lente di una fantomatica “età adulta”, nel nostro paese, ben più che in altri, non si parla di queste cose per bambini. Non ci si ragiona, non ci si scrive. Salvo rare e preziose eccezioni.
Nel bellissimo saggio di Giorgia Grilli, Di cosa parlano i libri per bambini (pubblicato da Donzelli Editore nel 2021), la studiosa, parlando di Sendak, dice che a proposito del suo seminale Nel paese dei mostri selvaggi (uscito per la prima volta negli Stati Uniti per Harper & Row nel 1962), è stato scritto tantissimo. E poi elenca una lunga serie di pubblicazioni anglosassoni, ovviamente. Nemmeno una in italiano, perché non ce ne sono. D’altronde, buona parte dell’opera di Sendak è ancora inedita da noi. Persino alcune tra le sue cose più famose e importanti abbiamo potuto leggerle nelle nostra lingua solo in anni recenti.
Adelphi ha iniziato una grande opera di riscoperta di Sendak nel 2018, quando a proposto quello che, quantomeno per impatto e diffusione, è certamente il suo capolavoro: Where the wild things are, ritradotto per l’occasione da Lisa Topi. Negli anni successivi, l’editore ha In the night kitchen come La cucina della notte (il libro, del 1970, era stato pubblicato precedentemente con il titolo Luca, la luna e il latte), e ha pubblicato per la prima volta lo straordinario Nel mondo là fuori (Outside over there, 1981), insieme ad altre cose meravigliose: Gusci di noce (The nutshell library, 1962), Il segreto di Rosie (The sign on Rosie’s door, 1960) e Bombo-Lardo (Bumble-Ardy, 2021), nella traduzione di Sergio Ruzzier, che poco tempo fa ne ha parlato con Paolo e Arabella qui su (Quasi).
Where the wild things are è un titolo che già da solo dice molto. In Italia lo conosciamo appunto con l’evocativo, ma in qualche modo normalizzante, Nel paese dei mostri selvaggi, ma se azzardassimo una traduzione letterale, potrebbe diventare Dove sono le cose selvagge o, forse meglio, Dove stanno le cose selvagge.
Sappiamo dai racconti di Sendak che inizialmente le “wild things” erano “wild horses”, cavalli selvaggi, ma poi l’illuminata editor Ursula Nordstrom (la stessa che intuì e favorì anche il talento di un’altra grande autrice per l’infanzia, Margaret Wise Brown) capendo che Sendak non sarebbe riuscito a rendere efficacemente i cavalli, gli propose i mostri, le creature, le “cose”. Anche perché, questione da non sottovalutare, che purtroppo in traduzione per forza si perde, “wild things” è un’espressione che si usa anche per indicare un bambino turbolento e pestifero. Esattamente quello che è Max, il protagonista del libro.
La storia di Max è semplice e ben nota: una sera, con addosso un costume da lupo, Max ne fa di tutti i colori, finché la madre non lo sgrida e lui, selvaggio, le risponde: «E ALLORA TI MANGIO!». E viene spedito a letto senza cena. A quel punto la camera di Max si trasforma in una foresta e lui parte per un lungo viaggio, a bordo di una barca con su scritto il suo nome, approdando nel paese dei mostri selvaggi, dove stanno le cose selvagge. Divenuto il re di queste “cose” (i fantastici mostri a cui Sendak dà le fattezze dei suoi parenti) e dopo aver attaccato “la ridda selvaggia” (forse l’espressione più bella che si è persa nella nuova traduzione, che ora dice un più tranquillo: “finimondo” – in originale “wild rumpus”), Max si sente solo e, ripresa la barchetta, torna a casa. Il testo delle ultime due pagine è straordinario, e merita di essere citato per intero: «Navigò per intere settimane, per un anno e poco più, e un giorno ancora, fino a quella notte dove in camera sua trovò la cena. Ancora calda».
Non c’è che dire, è una strana storia. Un racconto che sembra non avere una morale, un significato, un senso. E in effetti non ce l’ha. O meglio, non ha un senso comune. Max fa il monello, risponde male a sua madre e poi, mandato a letto senza cena, fa un lungo viaggio e diventa il re delle cose selvagge. E quando torna, la cena è lì ad aspettarlo. Sembrerebbe quasi che la madre l’abbia perdonato in fondo. Anche se lui voleva mangiarla. E come avrebbe potuto non volerlo? Max era vestito da lupo. E stava per diventare il re delle cose selvagge.
Una cosa simile la racconta anche P. L. Travers nel primo libro di Mary Poppins. Nel capitolo intitolato Martedì disgraziato, Michael, uno dei due figli dei signori Banks a cui la magica bambinaia fa da balia, si sveglia sentendosi “cattivo” (Travers usa proprio questa parola) e per tutto il giorno ne combina di tutti i colori, fino a quando Mary Poppins, senza né sgridarlo né promettergli una punizione, gli fa capire, seria e decisa, che probabilmente quella mattina è «sceso dal letto dalla parte sbagliata». Il bimbo, spiazzato, non capisce bene il discorso, ma piano piano si quieta e la giornata “cattiva” finisce. Con la sua frase, Mary Poppins ha legittimato la condizione di Michael, senza sminuirla né attaccarla, dandole però un contesto. Come scrive Giorgia Grilli in proposito:
«I bambini hanno furie, passioni, ombre, sentimenti antisociali, che nei grandi libri per bambini non vengono liquidati come capricci, né trattati come qualcosa di cui vergognarsi o sentirsi in colpa perché il mondo è un bel posto e abbiamo tutti ciò che serve per essere felici. Come sa – ricorda – Sendak, i bambini possono essere profondamente infelici. O malinconici, languidi, e in molti altri modi differenti dall’immagine che, come società, coltiviamo di essi».
E infatti Max, in Where the wild things are, indossa un costume da lupo.
È una metafora? Possibile. Sono la sua rabbia, la sua cattiveria, il suo essere intrinsecamente antisociale? Possibile anche questo. L’importante è che Sendak non ce lo dica, ma che ce lo faccia vedere e soprattutto provare. Esattamente come quando da bambini scendevamo dal letto dalla parte sbagliata e non c’era nulla che potesse arginarci: eravamo lupi cattivi, mostri, cose selvagge.
C’è un altro libro per bambini in cui compare un costume da lupo: La maschera di Grégoire Solotareff. La storia qui, è forse ancora più enigmatica di quella di Sendak ma, a mio avviso, ugualmente potente e archetipica. Un fratello e una sorella vengono mangiati in un sol boccone da un lupo ma, gli si dimenano talmente tanto nella pancia, che il lupo muore e loro saltano fuori dalla sua bocca. Subito dopo, il bambino si fa una maschera con le orecchie del lupo mentre la bambina indossa la sua pelliccia e insieme vanno in giro per la città a terrorizzare gli abitanti. La bambina si annoia quasi subito («Mi sono stufata, ho fame! Vado a mangiare. Non lo voglio più questo mantello. E poi puzza!») e butta la pelle del lupo nella spazzatura. Il bambino invece, continua a girare per la città ululando per tutta la notte e poi all’alba torna a casa, dove lo aspetta la sorella che gli ha fatto una cioccolata calda. Quando lei gli chiede se non ha paura che la maschera da lupo lo possa far diventare cattivo, lui le risponde che, se resteranno insieme, non avrà paura. Fine.
Di nuovo, che senso ha questa storia? Non so dirlo con precisione e, anzi, mi pare ci possano essere vari significati a seconda dei punti di vista e a seconda delle varie sensibilità. Ma l’importante non è questo. L’importante, come nelle opere di Sendak, è il riverbero che questi “libri per bambini” (vale la pena precisarlo: da intendere assolutamente come un tutt’uno tra disegni e parole) scavano in noi quando ci esponiamo a essi. L’importante è il mondo occulto e oscuro dell’infanzia, dimenticato, rimosso, scansato, che queste storie illustrate vanno a recuperare in noi, squarciando la nostra percezione al di là del razionale.
Questo è il potenziale dirompente di (certi) libri per bambini e (certi) fumetti. Una voce atavica e scura, richiamata dalle immagini, che è ancora lì per parlarci e aprirci a altre concezioni della nostra essenza.
Non è un caso che alcune fra le più belle storie per ragazzi e adulti che parlano dell’infanzia, siano horror: Penso a It e a The body (Stand by me) di Stephen King e a Coraline e L’oceano in fondo al sentiero di Neil Gaiman. E proprio in esergo a quest’ultimo romanzo, Gaiman mette una citazione di Sendak: «L’infanzia è profonda e ricca. È vitale, misteriosa e intensa. Io ricordo vividamente la mia infanzia. Sapevo cose terribili. E sapevo che non potevo far sapere agli adulti che le sapevo. Li avrei spaventati a morte».
L’anno scorso, durante una lettura di “Carnevale in biblioteca”, ho letto come ultimo libro La maschera di Solotareff (mentre il primo era stato Nel paese dei mostri selvaggi). A storia finita, i bambini presenti sembravano soddisfatti. Erano rimasti completamente muti, con gli occhi a palla appiccicati alle pagine che gli ho sfogliato davanti. «Vi ha fatto paura?», ho chiesto (in fondo avevo appena raccontato loro di due bambini che uccidono un lupo percuotendolo dall’interno, poi lo scuoiano e si vestono con le sue pelli). Ma tutti hanno scosso la testa e alzato le spalle: per loro era una storia normalissima.
Invece, quando mi sono rivolto ai genitori alle loro spalle, mi sono accorto che stavano guardando con orrore il libro che tenevo fra le mani. Erano tutti «spaventati a morte». Sembrava si fossero appena imbattuti in una cosa selvaggia.
Scrive fumetti e scrive di fumetti, poi scrive anche canzoni e le canta, insieme a quelle degli altri che gli piacciono. Il suo sito è www.francescopelosi.it.