L’illuminazione di Jim Woodring

Paolo Interdonato | post-it |

Per i casi della vita mi ritrovo imprigionato in una stanza al buio per 72 ore. Devo smaltire un principio attivo fotosensibile e, se mi espongo alla luce, chissà che mi succede. Mi hanno detto di non farlo e non ho chiesto quali potessero essere gli effetti collaterali.
Obbediente, mi sono chiuso in una stanza, ho tirato le persiane e spento la luce per 72 ore. Settantadue.
Dopo aver dormito trentasei ore, ascoltato ventiquattro ore di podcast e playlist, telefonato a tutte le persone che conosco, per una decina d’ore, per farmi raccontare com’è la vita quando la si vive, ho deciso che, durante le ultime due ore di reclusione, potevo rischiare di irradiarmi con lo schermo del PC.

Ho chiesto a Claudio cosa avrei potuto vedere e lui, sapendo dell’esperienza mistica e lisergica che stavo attraversando, mi ha consegnato tra le spire di un documentario su Prime video: The Illumination of Jim Woodring di Chris Brandt.

Hai presente quei documentari superprofessionali sulla vita degli artisti cui ci hanno abituato la progressiva evoluzione tecnologica, le capacità tecniche mostruose che tutti i filmaker stanno sviluppando, il ritmo serratissimo del racconto fatto di tagli di montaggio sempre azzeccati?
Ecco: questo film non è così. Brandt non ha ancora imparato a usare la videocamera, ha delle difficoltà a mettere a fuoco, inquadra sempre un po’ di sbieco, il bianco gli spara continuamente e, diciamolo, sul montaggio ha un incredibile spazio di manovra per imparare e per crescere. Però questo documentario è lo stesso bellissimo.

Jim Woodring racconta tutta la sua vita, dall’infanzia a oggi, mostrandosi spaventato, allucinato, frustrato, a volte addirittura folle.
Un bel signore con zazzera  e pizzetto bianchi che disegna con un sacco di strumenti diversi, mostrando una lentezza e una concentrazione fuori misura.
Sembra di leggere una di quelle interviste bellissime, prive di editing e sbrodolone che, per decenni, hanno riempito dalle venti alle quaranta pagine del “Comics Journal”: tutto quello che vuoi sapere di una persona che fa fumetti, partendo dai corn flakes che preferiva da bambino, attraversando le paranoie, gli abusi, le influenze, le amicizie, le delusioni e i successi, per arrivare ai progetti futuri.

Ho guardato spesso le pagine e i disegni di Jim Woodring. Ho sempre pensato fosse un incredibile narratore, spaventoso e divertente al tempo stesso. Vedendo il documentario scopro un bambino devastato dalle allucinazioni e dalla prosopagnosia, un figlio schiacciato da una figura materna paludosa, un giovane artista illuminato dalla scoperta di Dada e Surrealismo, un cristiano terrorizzato da Cristo e affascinato da Hare Krishna e soprattutto un disegnatore incredibilmente meticoloso.
Non ci sono errori nelle pagine, nelle illustrazioni e nei dipinti di Woodring. Il risultato finale sfiora la perfezione. Eppure, il disegnatore si dice sistematicamente frustrato. Dice che avrebbe voluto essere un virtuoso, ma non lo è mai stato e ora è troppo tardi. Ogni lavoro gli richiede tantissime ore e tantissime rielaborazioni. Poi, fa un cenno alla camera e si fa seguire nelle stanze di casa, oltre lo studio. Scopriamo pigne altissime di piccoli quaderni – tutti datati sulla costa e custoditi con una cura eccezionale – in cui annota tutte le idee che gli vengono. Scaffali colmi di blocchi in cui tutto viene disegnato e ridisegnato, alla ricerca della composizione perfetta per dire l’idea – allucinata e impossibile da riassumere in un claim – che vuole mettere su carta o su tela. Faldoni colmi di pagine abbandonate, versioni precedenti finite di un’illustrazione che conosciamo. Quadri di cui si vergogna, che non mostra – se non per brevissimi istanti, facendoli volteggiare davanti alla camera – ma che non riesce a buttare.

«Ti diverti a disegnare?», gli chiede Brandt. Woodring, alza lo sguardo stupito, come se gli avesse fatto la domanda più idiota dell’universo, e dice che non si diverte affatto, che è duro lavoro, che lo deve fare. Ma, da come lo dice, da come agisce su ognuna di quelle superfici bianche, modificandole continuamente, più e più volte, fino a quando non raggiunge l’obiettivo che si è prefissato, capisci che non potrebbe non farlo.
Finisco il film e la mia reclusione al buio si conclude. A questo punto, finalmente, conquisto la luce, grazie all’illuminazione di Jim Woodring.

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