The Great When – Tra le crepe della Storia

Omar Martini | Leggere Long London |

In cui l’incauto scrivano cerca di destreggiarsi tra periodi diversi della storia britannica, che dovrebbero avere una certa importanza all’interno del romanzo.


The Music at the Beginning” / “La musica agli albori” (seconda e ultima parte)

Dopo un testo introduttivo in cui preparavo il terreno per questo discorso, la settimana scorsa ho iniziato la lettura di The Great When, il nuovo romanzo di Alan Moore e primo volume del ciclo “Long London”.
Sono riuscito ad affrontare solo la prima scena del prologo, che mi ha dato un assaggio iniziale di quello che mi avrebbe aspettato in seguito: riferimenti a eventi e personaggi che avrebbero fatto capolino tra le pagine di questo libro. Tutto è cominciato con un dialogo tra Aleister Crowley e Nancy Clara Cunard. Questa settimana continuo con le altre quattro situazioni di questa parte introduttiva.
Sebbene con qualche variazione, per non rendere l’evoluzione del testo troppo meccanica e prevedibile, la caratteristica di queste sequenze è quella di presentare un evento storico e far apparire per un istante qualche elemento di una Londra alternativa e fantastica, rendendo quindi straordinaria l’esperienza del personaggio centrale di quel momento specifico.
La prima sequenza che fa riferimento esplicito all’elemento musicale del titolo inizia con la parola “Brass” (“ottoni”) ed è ambientata durante la battaglia di Cable Street avvenuta il 4 ottobre 1936: Londra fu il teatro di una serie di scontri in diversi parti dell’East End tra la polizia, inviata a difendere una marcia di fascisti, guidati da Sir Oswald Mosley, e una manifestazione di dimostranti, composta da gruppi di sindacalisti, comunisti, anarchici, ebrei britannici e socialisti. La marcia, organizzata per il quarto anniversario della nascita del British Union of Fascists, sarebbe dovuta passare attraverso un’area della città fortemente popolata da ebrei. Per questo motivo, un’associazione ebraica aveva raccolto centomila firme per bloccarla, ma il Segretario dell’Interno dell’epoca, John Simon, si era rifiutato di fermarla.

Questo evento storico viene visto attraverso gli occhi di David Gascoyne, un poeta britannico surrealista, che all’epoca dei fatti aveva quasi vent’anni e aveva già pubblicato tre libri. Come nella scena precedente, sebbene in maniera più diretta, vengono sparsi all’interno del testo, alcuni elementi biografici passati e futuri del giovane, che osserva gli scontri che lo circondano in maniera quasi poetica e li filtra attraverso la propria sensibilità artistica. In mezzo a questo mare indistinto di persone che si assiepano, corrono, si picchiano e sanguinano, compaiono personaggi realmente esistiti, come il già citato Sir Mosley, ma anche Jack “Spotty” Comer, all’epoca un semplice picchiatore, ma che in futuro sarebbe diventato un personaggio importante del crimine organizzato ebraico. In questa visione apocalittica, quasi fosse un quadro di Hieronymus Bosch, Moore applica quello che aveva preannunciato in uno dei vari video promozionali girati in Rete: nelle crepe della Storia inserisce degli elementi fantastici, in questo caso è incarnato da una gigantessa di quasi tre metri che si muove in mezzo al caos. A parte Gascoyne, nessuno sembra notarla sebbene, in maniera forse inconsapevole, la folla si apre davanti a lei per farla passare, mentre continuano i lanci di sassi, l’esplosione di violenza e lo scorrere del sangue. Gascoyne si accascia, vomitando, per lo shock e le emozioni che sta provando e, quando rialza la testa, la donna è scomparsa.

La sequenza successiva, che comincia con la parola “Timpani” (“timpani”), riutilizza questo modello: l’evento storico realmente accaduto è una corsa ippica avvenuta al Derby di Epsom nel 1920 e vinta dal cavallo Spion Kop, montato dal fantino Frank O’Neill. La situazione viene narrata attraverso il punto di vista di Peter Carl Mackay, che si autodefiniva Principe Monolulu e affermava di essere un nobile proveniente dall’Abissinia, quando in realtà era delle Indie occidentali danesi: frequentatore degli ippodromi, vestiva sempre con variopinti abiti tradizionali africani e forniva delle soffiate sui cavalli che avrebbero vinto. Nella finzione del libro, mentre si aggira nella calca prima delle corse, rievoca mentalmente il proprio passato, tra fatti realmente accaduti, cose a cui preferisce non pensare e altri eventi ancora, la cui veridicità può essere dubbia: rapito dal proprio paese natale, è stato trasportato su una nave britannica che è naufragata in Portogallo; è stato alla corte dello zar Nicola II, poco prima che venisse ucciso durante la Rivoluzione d’Ottobre, ed è stato imprigionato nel 1914 nel campo di internamento di Ruhleben. Ed è proprio in quel luogo che la rivelazione di un compagno di prigionia lo porterà a vedere l’“altra” Londra e a incontrare qualcosa dal misterioso nome di “saraceno desunto” (“Inferred Saracen”) e una donna su un destriero che gli elargisce una profezia criptica che, inizialmente, non comprende.
Successivamente, però, visitando una stalla e ascoltando casualmente una conversazione, comprende che il messaggio che gli aveva comunicato la donna si riferiva all’esito di quella corsa a Epsom, per cui piazza una scommessa e riesce a vincere. Sebbene quella somma non durerà molto, mentre gli vengono consegnati i soldi, ripensa all’incontro con la donna e al suo cavallo dall’aspetto particolare.

La brevissima sequenza che comincia con la parola “Strings” (“archi”) è probabilmente quella parte iniziale incomprensibile a cui faceva riferimento una recensione che ho letto in rete: ammetto di provare qualche perplessità poiché non sono certo di averla capita del tutto: in un edificio a Commercial Street, in una zona di Londra che era svanita, uno strano essere (probabilmente) meccanico e con delle parti in vetro compare in una stanza. Muove e dispone le proprie parti di una «bellezza fuori luogo» sopra l’imbottitura di un materasso; quando si ferma, ritrae alcune delle sue membra e resta in piedi su due arti, come se fosse una figura vagamente umanoide (ha un disco piatto a mo’ di testa in cima al corpo), per stabilizzarsi in quella nuova configurazione. Apre una porta con il suo dito affilato e si avvia fuori sul freddo lastricato. Per la natura di questo “essere” e per un paio di vaghi accenni, immagino che ci troviamo di fronte a una situazione opposta rispetto a quelle che abbiamo viste finora: a guidare la narrazione è qualcosa proveniente dall’“altra” Londra e arrivata nella nostra realtà.

C’è un ulteriore cambio di passo anche nell’ultima sequenza che inizia con la parola “Percussion” (“percussioni”). Lo stile e la materia appaiono più semplici e ci viene presentato il protagonista del romanzo, Dennis Knuckleyard. Questo episodio avviene la notte del 29 dicembre 1940, durante uno dei bombardamenti della serie di attacchi che ha avuto luogo dal settembre 1940 al maggio 1941, in cui venne distrutta quasi completamente la zona di Cripplegate, vicino alla City. Il ragazzo, all’epoca un bambino di 9 anni, entra in una casa vuota per scassinare, senza riuscirci il contatore del gas.
Temendo che i proprietari possano ritornare dai rifugi, risale con difficoltà lo scivolo del carbone. Una volta fuori, il bombardamento inizia senza preavviso, e punteggia il testo sia dal punto di vista grafico che del ritmo: il BOOM costante e ripetuto interrompe il filo dei pensieri del bambino e si inserisce all’interno della pagina scritta come un’onomatopea, segno che lo stile narrativo fluido di Moore riesce a incorporare e a sviluppare forme diverse.
Il ragazzo, illeso, si trova di fronte alla zona di Cripplegate quasi completamente rasa al suolo, e si avvia verso casa. Vede che solo pochi edifici sono rimasti in piedi e poi nota un portone in lontananza. Davanti, c’è un uomo calvo con un lungo mantello, che sembra disperato per la scena a cui sta assistendo. Qualcosa non lo convince in quella visione, si guarda attorno e quando rivolge di nuovo lo sguardo al portone, si accorge che è scomparso assieme all’uomo.
In seguito, racconterà questo episodio ai suoi amici infinite volte, finché a un certo punto se ne dimenticherà… finché non gli ritornerà in mente nove anni dopo, nel 1949.

Queste prime diciotto pagine si sono rivelate impegnative, soprattutto per una persona come me che non è madrelingua inglese e che non ha una conoscenza approfondita della storia recente di quel paese e della città di Londra. Ho affrontato questo testo armato di dizionario (il registro alto utilizzato da Moore ha bisogno di un supporto per comprendere bene certi passaggi) e Wikipedia (fondamentale per trovare alcuni dettagli e ottenere una visione d’insieme più completa), a cui ho aggiunto delle ulteriori ricerche in rete. Non è certo il modo usuale per leggere un romanzo e in certi momenti forse ha tolto un po’ di piacere ma, di contro, mi ha aiutato a capire meglio certi passaggi e a cogliere dei sottili riferimenti. È quello che lo stesso Moore indicava in alcune affermazioni prima dell’uscita di The Great When: voleva che i lettori si impegnassero perché il risultato finale sarebbe stato gratificante. Sono stato quindi soddisfatto da questo inizio? In un certo senso sì. Mi ha fatto piacere ricostruire e capire lo sguardo d’insieme che l’autore ha ricreato, come se stessi risolvendo un puzzle o una serie di indovinelli collegati. Ne troverò gratificazione? Per questo probabilmente devo aspettare ancora un po’. Al momento, Moore soddisfa il mio lato più teorico, per la forma e le tecniche che usa, variandole e facendole sembrare cose diverse, quando invece si tratta di variazioni sul tema (è forse quella la ragione del riferimento musicale? Non ho le conoscenze adeguate, ma non mi stupirebbe se il titolo si riferisse a un aspetto strutturale). Il mio lato più emotivo, invece, finora è stato appena riscaldato solo dall’ultima situazione, in cui la lettura è stata più fluida. Sarà così per le restanti 300 pagine? Non lo so e sono curioso di scoprirlo. So anche che questi discorsi e i futuri articoli apriranno lunghissime discussioni con il direttore Paolo Interdonato, già iniziate, a dire il vero, via chat, per capire se ha senso oppure no realizzare un’opera in cui hai bisogno di mezzi esterni per comprenderla. Citando opinioni illuminate, affermava che questo rappresenta la morte dell’autore (o dell’opera stessa, potrei aggiungere), ma ho un’opinione diversa. Sono cosciente che sia una questione soggettiva, ma credo che bisogna considerare anche il livello di citazione che ti permette di godere oppure no del testo che stai leggendo (le prime due sequenze probabilmente hanno bisogno di qualche conoscenza in più per apprezzarla, sebbene la prima volta che ho letto il dialogo tra Crowley e Cunard mi ero immaginato che dicessero cose molto più esoteriche di quello che in realtà fanno, mentre nella battaglia di Cable Street uno capisce la situazione che sta avvenendo, ma qualche nozione in più fa apprezzare maggiormente sia la figura del “narratore” che il valore politico degli avvenimenti), ma credo che sia altrettanto importante la materia che l’autore sta trasmettendo. Personalmente, un conto è la coscienza del quadro storico del 1936, con le infiltrazioni nazi-fasciste che stavano avvenendo nel mondo politico e non, un conto invece, per prendere come esempio un altro sceneggiatore britannico di una certa levatura, è un Grant Morrison che per creare le proprie architetture in “All-Star Superman” o nelle due stagioni di “Green Lantern” fa riferimenti a episodi del fumetto supereroistico statunitense lontani e probabilmente poco conosciuti. Ma, di nuovo, anche questa è un’affermazione soggettiva: al momento, trovo maggiore soddisfazione in queste materie orchestrate da Moore mentre sento una certa indifferenza e a volte un po’ di noia nei confronti dello sceneggiatore di Glasgow… mentre per altre persone avviene esattamente l’opposto.
In ogni caso, lo scrittore inglese ha iniziato a posizionare le sue pedine, ha impostato lo scenario in cui avverranno gli avvenimenti futuri, per cui non mi resta che iniziare il primo capitolo… ma per questo dovrete aspettare ancora una settimana.

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