The Great When – Londra, 1949

Omar Martini | Leggere Long London |

In cui l’incauto scrivano si illude che, superato lo scoglio del prologo, il resto del libro forse non sarà così complicato come temeva.


The Best Way to Start a Book” / “Il modo migliore per iniziare un libro” (prima parte)

La settimana scorsa ho concluso la lettura del prologo di The Great When, il nuovo romanzo di Alan Moore (i due pezzi li trovi qui e qui), in cui la Londra che conosciamo entra in contatto in modo sporadico con gli elementi di un’altra realtà. Al momento non è chiaro se quelle situazioni avranno un seguito all’interno di questo romanzo (o dei successivi), a parte l’ultima sezione che introduce il protagonista, all’epoca un bambino di nove anni che cerca di sopravvivere durante i bombardamenti tedeschi che flagellarono la capitale inglese dal settembre del 1940 al maggio del 1941. Una cosa che ho notato, dopo aver scritto l’articolo della settimana scorsa, è il fatto che quella parte del romanzo ha, in maniera bizzarra, un collegamento con la serie televisiva Peaky Blinders. Infatti, la conclusione della seconda stagione della serie della BBC è ambientata nello stesso ippodromo dove il principe Monolulu piazza una scommessa vincente. Però, nella finzione televisiva, quegli eventi accadono due anni dopo a quelli descritti dallo scrittore; in più, il personaggio del politico fascista introdotto nella quinta stagione e che acquista maggiore rilevanza in quella successiva è quel Sir Oswald Mosley che avrebbe organizzato la marcia nel 1936, causando la battaglia di Cable Street, descritta sempre nel prologo del romanzo. Coincidenze decisamente bizzarre, che probabilmente Dave Sim avrebbe attribuito alla metafisica del fumetto (sebbene in questo caso non stiamo strettamente parlando di fumetti), come ha spiegato in modo piuttosto esteso nel suo ultimo libro La strana morte di Alex Raymond.

Il protagonista Dennis Knuckleyard è presente dalla prima riga del capitolo, poiché la frase con cui viene spiegato quale potrebbe essere il modo migliore per cominciare un libro è pensata proprio da lui, in una divertita premessa programmatica e metanarrativa. Il ragazzo viene descritto fin da subito con un tono che passa dall’ironico (come prima operazione del mattino, cerca di masturbarsi guardando le foto da una rivista cinematografica britannica di vent’anni prima, e il fallimento di quell’atto viene reso con un tono decisamente sopra le righe e quasi epico) all’affettuoso, dove viene ripercorsa, in una forma probabilmente simile ai romanzi di Charles Dickens, il suo passato (ha iniziato a fare delle commissioni per la libreria dove attualmente vive, Lowell’s Books & Magazines, da quando aveva 12 anni; poi, quando è rimasto orfano a 14 anni, Ada Benson, la ruvida proprietaria del negozio, lo ha preso con sé). Viene immediatamente messa in chiaro la sua passione per la lettura e i libri (il primo autore citato è George Orwell, di cui sta leggendo 1984, appena uscito) e i paletti che la sua matrigna acquisita ha posto (può leggere tutto quello che vuole, ma senza portarlo fuori dalla libreria). Il rapporto tra i due viene rappresentato in tono volutamente grottesco, con la donna che tiranneggia sia il giovane che la propria clientela, non facendoli entrare se arrivano poco prima dell’orario di apertura e rifiutandosi di trattare sui prezzi dei libri che lei ha già stabilito, come si osserva in maniera efficace quando Dennis sta per uscire dal negozio per il compito che la donna gli ha affidato: recarsi presso la libreria Harrison’s Books e acquistare dei volumi di Arthur Machen, una delle fonti di ispirazione di H.P. Lovecraft, su cui la donna esprime il proprio parere (autore interessante, ma che verso la fine della carriera era diventato un po’ fascista).

L’intimidito ragazzo si muove tra le strade che mostrano ancora i segni della guerra ma che, in contrasto, sono piene di energia e di persone che si muovono senza sosta e lavorano, rendendo i quartieri estremamente vivaci. È un percorso, quello che fa Dennis, che non solo ci conduce attraverso le vie della capitale, ma tocca alcuni dei luoghi indicati nella mappa, di cui inizialmente avevo intuito l’importanza, come la piazza Red Lion, l’ubicazione della casa di Machen, il quartiere di Soho e un paio di librerie (quella di Ada e quella verso cui si sta dirigendo il ragazzo). Dennis arriva a destinazione, nonostante non abbia l’indirizzo ma solo il nome del negozio, e lo trova chiuso. Poiché non vuole confessare alla sua padrona di non aver cercato di risolvere la situazione, si reca nel negozio accanto, che vende testi religiosi, e una donna lo informa che il proprietario non viene da un paio di giorni, ma è in grado di fornirgli l’indirizzo di dove abita. In questo nuovo giro, attraversa il quartiere di Soho, nota immediatamente la differenza rispetto alle altre zone delle città: mentre altrove le aree urbane sembrano fondersi l’una nell’altra, senza che vengano messe in evidenza le differenze, con Soho la situazione è diversa. Sei sempre cosciente quando sei dentro quel quartiere e quando ne sei uscito, magari involontariamente. L’atmosfera è diversa, è più perversa e decadente, è piena di abitazioni, di porte che costellano quella zona, come un formicaio percorso in maniera febbrile dagli insetti che lo abitano. Arrivato a Berwick Street, riesce a trovare òa èerspna ched sta cercando, Flabby Harrison, il proprietario della libreria. Inizialmente, aveva cercato di depistarlo, parlando in falsetto e fingendosi una donna perché sembrava temere qualcosa… ma di quello che i due si dicono e di quello che accade in seguito ne parleremo la prossima settimana.

Si possono già fare alcune considerazioni su queste prime pagine. Per rendere l’atmosfera e il periodo, Moore usa due tecniche: quella più “semplice” e su cui ha fondato le basi di un’opera colossale come La lega degli straordinari gentlemen è quella di disseminare le pagine e le diverse situazioni di citazioni apparentemente casuali, soprattutto per quello che riguarda l’aspetto culturale. Da qui, la presenza della rivista cinematografica britannica “Picture Show” e quella di fumetti “Comic Cuts”, il paio di riferimenti al film Il terzo uomo (Dennis fischietta il tema della pellicola di Carol Reed e pensa alla morte del protagonista nelle fogne di Vienna), la disquisizione su Arthur Machen di Ada Benson, che sintetizza in maniera esemplare la parabola artistica dell’autore gallese, la descrizione della copertina della prima edizione di 1984, il riferimento allo pseudonimo usato da una serie di autori britannici per scrivere dei thriller popolari di grande diffusione negli anni Quaranta e Cinquanta (una sorta di versione anglosassone di Mickey Spillane, che però usa un artificio che gli permette di essere al contempo autore dei romanzi e protagonista degli stessi, come Ellery Queen), i titoli di canzoni e di libri dei generi più vari (un romanzo, scritto dall’inventore della serie di libri di Fu Manchu, ispirato alla vita di un’attrice morta di overdose; la famosa opera in versi di Alexander Pope; il primo libro britannico con tematiche apertamente lesbiche; un romanzo vittoriano sull’educazione sentimentale del protagonista maschile) sparpagliati di qua e di là, il riferimento a una catena di librerie britannica, Foyles, aperta all’inizio del Novecento e che è entrata nel Guinness dei Primati per essere stata la più grande libreria al mondo, per lunghezza degli scaffali disponibili. Tutto questo costruisce e contestualizza l’ambiente in cui il protagonista vive.

Oltre a questo, però ci sono anche i piccoli dettagli, gli oggetti legati a quell’epoca che probabilmente sono sconosciuti a molti dei lettori contemporanei, come il Reckitt’s Blue, usato nella prime righe per dare l’idea del colore del cielo, e che era un prodotto racchiuso in un sacchettino per dare una tonalità di azzurro durante il lavaggio dei vestiti, oppure marche di sigarette come Park Drive Plain oppure Woodbine. È l’attenzione a questi elementi, come avveniva anche nel precedente romanzo Jerusalem, che rendono intrinsecamente British quest’opera e aggiungono un livello di difficoltà per qualunque persona non britannica che non riesce a cogliere fino in fondo queste sfumature che, nello spazio di qualche parola o di un nome, trasmettono un concetto, un elemento sociale o una definizione culturale. È qualcosa che va oltre qualunque conoscenza acquisita da parte delle persone che non vivono (o non hanno vissuto) in quell’ambiente e che sono parte inscindibile dell’opera e del contesto da cui nasce.

L’altra tecnica che usa Moore è quella di descrivere, in modo estremamente visivo, con un linguaggio ricco e carico di metafore, lo stato della città di Londra, l’altro protagonista del libro. È una città che si sta rialzando, dopo i bombardamenti e le ferite provocate dalla Seconda Guerra Mondiale, ma che mostra ancora le cicatrici di quel recente passato. Iniziano a vedersi i cambiamenti, ma i segni sono ancora lì. C’è un certo realismo, nella descrizione della camminata effettuata del ragazzo, che non sprofonda nel pessimismo, ma che, in mezzo a quello squallore, riesce a proiettare l’idea della volontà e dell’energia delle persone che vogliono rialzarsi e rifarsi una vita. Ricorda un po’ le atmosfere delle pellicole prodotte nel dopoguerra dagli Ealing Studios o quelle del film Un racconto di Canterbury di Michael Powell ed Emeric Pressburger, in cui al tono leggero da commedia si mescola la dura realtà della società dell’epoca. Non è il tono fiabesco del Cesare Zavattini di Miracolo a Milano, ma è qualcosa che opera in territori affini.

Si nota anche un taglio diverso rispetto al capitolo che precede questa parte. Mentre nelle pagine precedenti i dettagli storici sono incastonati in modo indissolubile nelle descrizioni degli eventi, rischiando di rendere quasi illeggibili certi passaggi se non si ha una conoscenza di quello di cui si sta parlando, quando inizia il vero racconto, c’è un cambio di passo, come se l’autore, in maniera analoga a quanto avvenuto nel libro La voce del fuoco, voglia mettere alla prova la volontà dei propri lettori con un inizio ostico, per poi proseguire in maniera più fluida e scorrevole. È vero, come ho appena sottolineato, che anche qui ci sono riferimenti continui, ma nella maggior parte dei casi servono per dare colore e trasmettere l’atmosfera del periodo: se il lettore non li coglie, nella maggior parte dei casi non vanno a scapito della comprensione o del piacere della lettura. È proprio come leggere un libro scritto negli anni Quaranta, in cui inevitabilmente molti riferimenti vanno persi per noi, fruitori contemporanei. Ma non è nemmeno tanto diverso dalle operazioni compiute da quegli scrittori che mescolano personaggi di finzione con quelli realmente esistiti. Personalmente, considerata la mia passione per la narrativa gialla, lo scrittore che mi viene immediatamente in mente che porta avanti operazioni del genere, è James Ellroy, che punteggia la vita dei suoi personaggi di carta con gli eventi e le citazioni di attori, cantanti e, soprattutto, criminali degli anni Quaranta e Cinquanta.

Ma per ritornare, in modo circolare, al riferimento iniziale della metafisica del fumetto di Dave Sim, è avvenuta una coincidenza bizzarra mentre affrontavo queste pagine: ho riletto, casualmente, Appuntamento a Sevenoaks di Floc’h e François Rivière, un fumetto che non prendevo in mano da più di trent’anni. Anche quel volume, uscito nel 1977, come le altre storie di questi due autori che compongono “La trilogia inglese” (che in realtà consta di quattro libri, più l’ulteriore trittico del “Blitz”), è una storia che si nutre di libri, scrittori, citazioni, riferimenti visivi, per cui ha molto in comune con The Great When, pur esplorando territori diversi (il fumetto va verso un recupero e una rielaborazione post-moderna del giallo classico britannico, con venature di narrativa weird, mentre il romanzo di Moore dovrebbe affrontare i territori del fantastico). Quello che però mi ha colpito è che, nella didascalia della prima vignetta, in cui viene chiaramente stabilito luogo e periodo in cui è ambientata la storia, si indichi esplicitamente che siamo nel 1949 a Londra. Due opere, a distanza di quasi cinquant’anni l’una dall’altra, occupano lo stesso “spazio fisico temporale”, parlano di ambienti completamente diversi ma riescono a entrare in contatto l’una con l’altra grazie a questo tema che si autoalimenta dei libri che parlano di altri libri. Era destino che lo ritrovassi proprio in questo momento.

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