L’archeologia del mostruoso

Emiliano Barletta | La cassetta degli attrezzi |

Tutto comincia con una storia. Un mito. Un “C’era una volta…”. Frasi semplici, ma cariche di secoli di credenze, dove il confine tra il reale e l’immaginario si dissolve, lasciando spazio solo a narrazioni collettive.

L’archeologia, una scienza dedicata allo studio dei reperti materiali, non può sfuggire al fascino del mito. Anche davanti ai resti di una cultura materiale, gli archeologi si trovano spesso a decifrare un sottotesto di superstizioni e credenze antiche, ma anche moderne.

Nel 1845, Austen Henry Layard, pronto a scavare Nimrud nel nord dell’Iraq, notò il timore che i locali nutrivano per le antiche statue dei Lamassu che emergevano dal terreno. Queste creature con teste umane e corpi animali, originariamente simboli di protezione, erano viste come “demoni” o “jinn” pietrificati. Alcuni evitavano addirittura di avvicinarsi agli scavi, temendo di risvegliare antichi spiriti.

Il confine tra realtà e mito si può ovviamente estendere anche alla paleontologia: il ritrovamento di ossa sconosciute nell’antica Grecia era spesso interpretato come prova dell’esistenza di divinità, eroi o esseri leggendari. Un esempio emblematico è il vaso corinzio con Ercole che salva Esione da un mostro marino. La testa bianca riprodotta nel vaso potrebbe essere stata ispirata dal fossile di un Samotherium , un mammifero estinto e molto simile a una giraffa.  E come ignorare i crani di mastodonte, la cui cavità nasale, un tempo sede della proboscide, era scambiata per l’occhio unico dei ciclopi?

Ma le leggende non appartengono solo al passato. La scoperta dei resti dell’Homo floresiensis, un ominide che abitò l’isola di Flores in Indonesia tra 190.000 e 54.000 anni fa, ha riacceso l’interesse sulle storie locali del “piccolo popolo” nascosto nelle foreste. Considerata la contemporaneità con l’Homo sapiens, questi racconti, una volta giudicati fantasiosi, oggi appaiono meno distanti dalla realtà. Come fossili che racchiudono l’eco di un ricordo ancestrale.

Raccontare l’archeologia, quindi, significa camminare su una linea sottile tra realtà e mito.
Prendiamo, ad esempio, le rappresentazioni di mostri: non sono solo l’espressione delle paure collettive, ma incarnano forze oscure e incomprensibili che dominavano l’immaginario del mondo antico. Questi simboli, pur con tratti comuni, si trasformano nel loro significato attraversando diverse civiltà, adattandosi ai contesti culturali specifici. Così, un mostro che in una cultura può rappresentare il male assoluto, in un’altra può essere un guardiano o una forza protettiva, mutando la propria funzione senza perdere il suo potere evocativo.

In questo ambito, tra le figure più affascinanti vi sono i “mostri con la lingua sporgente”. Questo dettaglio, apparentemente bizzarro, ha un significato simbolico profondo: mostrare la lingua è un gesto di sfida, ma anche un atto protettivo. In India, la dea Kali è venerata per la sua lingua lunga e rossa, simbolo di distruzione e protezione. Similmente, figure come Kirtimukha e Kala presidiano templi in Asia, respingendo il male con la loro presenza minacciosa. Anche in Cina e Giappone, i leoni guardiani mostrano la lingua per proteggere i luoghi sacri dagli spiriti maligni, un gesto che riecheggia nelle figure polinesiane dei Tiki. Non è un caso che i guerrieri Maori, durante le danze haka, mostrano la lingua in segno di sfida, una manifestazione di coraggio e potere.
Altrove, la dea azteca Tlaltecuhtli, con la sua lingua insaziabile, rappresenta la terra che si consuma e si rigenera, mentre le Gorgoni, come Medusa, usavano la lingua sporgente per accrescere il loro potere apotropaico. Persino i gargoyle delle cattedrali europee, con le loro espressioni grottesche e lingue protruse, fungevano da guardiani contro gli spiriti maligni, proteggendo con la loro inquietante presenza i luoghi sacri.

Le raffigurazioni di questi “mostri con la lingua sporgente” affondano le radici nel nostro passato più remoto, un tratto condiviso anche da alcuni dei nostri parenti evolutivi, come scimpanzé e bonobo. Tuttavia, è curioso come tale simbolo non trovi posto nella cosiddetta mitologia degli “antichi astronauti”, una teoria priva di basi scientifiche che afferma la visita di civiltà extraterrestri sulla Terra, che hanno lasciato tracce monumentali come le piramidi di Giza o le linee di Nazca.
Nonostante la mancanza di prove, i miti legati alla fantarcheologia mantengono un fascino irresistibile. Storie come quella dei giganti, presenti in culture diverse dall’antico Egitto alla Bibbia, o la celebre maledizione dei faraoni, emersa dopo la scoperta della tomba di Tutankhamon, continuano a catturare l’immaginazione. E non si può tralasciare il mito di Atlantide, descritto da Platone, che resta uno dei racconti più diffusi e discussi nella cultura popolare. Questi racconti, ricchi di mistero, alimentano l’idea che il nostro passato nasconda ancora segreti da scoprire (e in parte è vero).

Creature mostruose, civiltà scomparse, antiche maledizioni e teorie fantasiose continuano ad affascinare il pubblico, a volte distorcendo la percezione dei fatti. Questi racconti spesso sfidano il principio del Rasoio di Occam, che suggerisce che la soluzione più semplice è quella che la probabilità di essere la più vera, anche per i per problemi più complessi. E così, mentre la scienza cerca di offrire una visione chiara del passato, il fascino di queste storie, con il loro alone di mistero, mantiene un potere irresistibile che continua a intrecciare mito e realtà.

Tuttavia, è proprio questo incontro tra verità e leggenda a rendere l’archeologia così irresistibile. Perché scavare tra le rovine del passato non significa solo ricostruire eventi storici, ma anche esplorare le credenze, le paure e i sogni che hanno plasmato l’immaginario di intere civiltà.

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