Mostri? E “mostri” sia!

Francesco Barilli | Il tradrittore |

«La nostra vita cosciente
La nostra fede nel giusto e nel bello
È un equilibrio apparente che è minacciato
Dai mostri che abbiamo nel nostro cervello»

I versi di Giorgio Gaber ti dicono che Paolo, nel suo editoriale, aveva ragione. Sì, i mostri siamo noi (o sono dentro di noi, cambia poco). E, sì, questa verità, anche se dovresti saperla da un po’, ti colpisce ogni volta come una rivelazione scioccante.
Fin qui sono 250 battute, esclusa la citazione. Decisamente poche per un articolo. Del resto, cosa aggiungere? Mica è il caso di portare una prova empirica per un assunto che, dicevo, è già suffragato a sufficienza. Sai la noia? Peraltro, sono una delle poche persone che, nella redazione di (Quasi), NON avevano capito il tema del mese. Tanto che mi stavo sbattendo alla ricerca di scuse per bigiare: «Cazzarola, spiace, c’ho yoga. Il gatto ammalato. Urano in Gemelli. Un convegno di lavoro. Proprio niente tempo per scrivere, scusate, passo.»
Poi finisce che leggo quell’editoriale e capisco che, anche solo negli ultimi giorni, di mostri ne ho incontrati un bel po’, diversi fra loro e assai particolari. È così che ho accolto la sfida, e ora eccomi a chiedere la tua compagnia in un viaggio dove di quell’affermazione («I mostri siamo noi/sono dentro di noi») dirò non tanto la verità, quanto la concretezza. O meglio: quanto la si possa toccare con mano quotidianamente, persino senza accorgersene.

La cattura del primo mostro

Ogni tanto faccio cose romantiche. Mia moglie direbbe “raramente”, ma passiamo oltre. Ogni tanto, dicevo. E magari mi riescono.
Per dire, a settembre, per una ricorrenza a noi cara, porto Maria qui.

È una delle isole sul lago d’Iseo. Minuscola e di proprietà privata, viene usata saltuariamente per piccoli concerti.
Ci vado con Maria per uno di questi: l’esibizione di un quintetto di fiati che interpreta musiche di Ennio Morricone e altri. Tutti brani da colonne sonore di film famosi.
Ok, mica devi farmi i complimenti per aver imbroccato la scelta per una ricorrenza sentimentale. Il punto non è quello. Arrivo al punto, uno dei brani interpretati è tratto da questo…

La storia della madeleine di Proust è talmente trita che il dolcetto sarebbe stantio. Te la risparmio. Però il pezzo da La Califfa mi dà esattamente quell’effetto.

Tornato a casa, recupero il film per le mille vie dello streaming. È la storia d’amore fra Irene (giovane operaia ribelle, interpretata da Romy Schneider) e l’industriale Annibale Doberdò (Ugo Tognazzi). Uomo cinico e pratico, Doberdò sta vivendo un momento di insofferenza verso il mondo capitalista e le sue regole. Ma solo l’amore per la bella “Califfa” lo porta a modificare la sua visione del mondo… e alla morte.
Il film è invecchiato maluccio e io peggio di lui. La retorica del capitalista indebolito dall’amore per la bellissima operaia, certe scene appesantite da troppo simbolismo, la scarsa credibilità complessiva… La “sfida morale” con lo sfortunato collega Massimo Serato, immobile sotto la pioggia mentre Doberdò lo osserva dalla finestra, all’epoca mi sembrò commovente, oggi eccessiva. Tognazzi però sembra scaldarsi lungo il film. All’inizio un po’ rigido (ma pur sempre Tognazzi! Se lo conosci poco, rimedia e recupera) si scioglie via via e l’interpretazione si fa intensa. Alcune scene restano molto belle. La visita di Doberdò al feretro di Serato, il suo ritorno alla casa del vecchio padre contadino, la nostalgia per quella macchia di umidità rimasta uguale nel tempo…
Rivedo quel film e mi tornano in mente sensazioni provate la prima volta guardando la TV. Dovevo avere quattordici anni, suppongo in seconda serata. All’epoca non colgo che Romy Schneider alla catena di montaggio sia poco credibile. A dirla tutta, m’interessa niente…

… e il suo nudo, confesso, credo m’abbia dato i primi brividi del vero desiderio erotico.

Ma è la frase che Irene/Romy HA DETTO all’anziano padre del proprio amante a colpirmi ancora:

«Se oggi ho voluto bene a tuo figlio è anche per te.»

Retorica? Va bene, ma a me sembra sempre bellissima. C’è niente da tradurre/tradire/raddrizzare. Il mostro n. 1, Nostalgia, è catturato. Però questo, l’ammetto, mi è spesso accanto.

La cattura del secondo mostro

La Califfa, con tutti i suoi limiti, è pur sempre una bella storia di lotta di classe. All’epoca volle dire molto per me, a livello di formazione ideale. Oggi mi conduce al secondo aneddoto che voglio raccontarti. Perché, pochi giorni dopo il concerto al lago, incontro lui.

Chiarisco. Non è che, sull’onda della nostalgia, rivedo anche Alberto Sordi in Il prof. dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue, sequel de Il medico della mutua. Va bene tutto, ma se mi faccio prendere dalla mania “cinema anni Settanta” sono finito. E soprattutto, spoiler alert, il secondo mostro NON è ancora Nostalgia, ed è anche meno simpatico. Dunque, stavolta il film lo riassumo velocemente e a memoria.
Nel film, Sordi è il primario di una clinica, molto affezionato al denaro. Tanto da riservare le proprie attenzioni (e le terapie migliori e più costose…) ai pazienti ricchi. Gli altri, si accontentino della mutua, con tempi e cure assai scadenti. La pellicola è del 1969. Se pensi al nostro sistema sanitario, è comunque piuttosto attuale. Se non ci pensi, lo farai alla prima Tac che dovrai prenotare.

Entro nello studio del medico. Il mio odio di classe è già al livello “anarco insurrezionalista”.
Lui inserisce il cd dell’ecografia nel lettore. Passano dieci minuti (di orologio, non è un modo di dire «passa un po’ di tempo») perché il computer non riesce a leggerlo. Passati i dieci minuti (sono al livello “Gaetano Bresci”) NON mi visita. Manco da lontano. Mi dice solo «Lei ha un calcolo. Va tolto». Eh vabbè, lo so che c’ho un calcolo. Pure che va tolto.
«Posso offrirle un intervento all’interno del sistema sanitario nazionale. Tempo di attesa dai nove mesi a un anno. Oppure, un intervento nel reparto solventi. Potremmo programmare il ricovero fra un paio di settimane. Le manderò un preventivo. Si aggira sui dieci-dodici mila euro.»
Vabbè, aspetterò il servizio sanitario nazionale. Livello: “Ravachol”.

«La visita la paga in contanti o col bancomat?»
«Bancomat»
Estrae un POS da non so dove. «Non c’è campo, accidenti, che disdetta!»
Col cellulare fa il numero dell’assistenza. Sento la vocina fuori campo dire «Digiti uno per problemi con la linea; due per problemi con un pagamento; tre per…»
«OK, PAGO IN CONTANTI!»
«Beh, posso farle uno sconto, allora.»
Ecco il mostro n. 2. Frustrazione. Dentro ci sono un po’ di Odio, Rabbia, Stanchezza. Ho imprigionato pure lui. Esco dallo studio al livello “Dimenticò pietà, scordò la sua bontà, la bomba sua la macchina a vapore”. E via così fino a “Trionfi la giustizia proletaria!”. E, poi, dannazione, “La macchina deviata lungo una linea morta” e “Lo raccolsero che ancora respirava”.

Questo uomo o questo mostro?

Passano altri giorni dalla visita ed ecco la mail che indica il tema del mese. Sveglio come una rapa, all’inizio non lo afferro. Resto immobile, guardo la mail, sembro Marina Abramović in the artist is present. Dopo pazienti spiegazioni («Baro, di api fiori cavoli e cicogne ti abbiamo già detto. Ora seguici con pazienza e ti diciamo cosa intendiamo con “Mostri”») mi si accende la lampadina e arriva tutta la tirata che hai letto fin qui, dalla Califfa in poi. Però poi mi dico: su (Quasi) si parla di fumetti. Tu già sai che io sono un appassionato Marvel da quando l’erba era più verde «e si potevano mangiare anche le fragole» (cit.). Insomma, se mi parli di mostri e fumetti mi verrà sempre in mente una storia in particolare. “Fantastic Four” n. 51, in Italia “I Fantastici Quattro” Editoriale Corno n. 47. Siamo dalle parti della prima saga di Galactus e Silver Surfer, terminata nel numero precedente. Insomma, piena epoca d’oro di Lee-Kirby-Sinnott.

Ben Grimm fin dall’inizio della serie è il personaggio più tormentato del gruppo. Quel dannato viaggio spaziale in “Fantastic Four” n. 1 ha regalato ai suoi tre amici poteri eccezionali, ma lasciandoli con sembianze umane. Lui, invece, è imprigionato in un corpo mostruoso. Reed Richards ha cercato più volte di invertire la trasformazione, ma con risultati al massimo temporanei. In “Fantastic Four” 51 Ben viene davvero privato dei suoi poteri e torna umano grazie a un benefattore… che tale non è! Si tratta del solito scienziato pazzo (all’epoca spostavi una foglia e ne trovavi una manciata, come i chiodini) che… Guarda, il suo piano e la sua rancorosa invidia verso Richards te la spiega lui. 

Facciamola breve. L’impostore, nei panni del membro forzuto del quartetto, ha l’occasione per liberarsi dell’odiato Richards, ma un rigurgito di coscienza lo porta a sacrificarsi per salvare la vita proprio a Reed. L’episodio si conclude con il riscatto, ma pure con la morte, del cattivo di turno, mentre Ben torna al solito aspetto roccioso e si riunisce al gruppo.
Bene. Tutta la tirata qua sopra era doverosa per esigenze filologiche. Tu fermati alla prima tavola.
La Cosa è immobile. Jack Kirby è un maestro dell’azione, ma qui ti mostra il protagonista impotente e indifferente sotto la pioggia.
Evidentemente, ha ben altri pensieri. La tavola non ti dice «Beh, c’ha la pelle di roccia, cosa vuoi che gli freghi della pioggia!». No, ti dice il dolore del personaggio. La Cosa è uno degli esseri più forti del pianeta, ma è infelice. Si sente un mostro, teme di perdere l’amore di Alicia, negli ultimi numeri affascinata (platonicamente, ma la gelosia è una brutta bestia anche per un mostro arancione) da Silver Surfer. Si troverà a camminare da solo sotto la pioggia, e la persona che lo accoglierà per offrirgli un caffè (drogato) non è un’anima buona che vuole concedere riparo, ma solo un uomo rancoroso che vuole mettere in atto un piano di vendetta.
Tu però fermati a quella prima tavola. Trasmette tristezza e impotenza.

Insomma, ecco catturato il terzo mostro. Questo non c’è nemmeno bisogno di definirlo, lo vedi e dici «Oddio, che orrenda Cosa arancione!». Solo che, a ben vedere, non è un mostro, lo sembra solo. E pure “il cattivo”, dicevo prima, proprio dopo aver assunto lo stesso aspetto raccapricciante troverà in sé una spinta generosa, altruista fino all’estremo sacrificio. Insomma, forse ogni uomo ha dentro un mostro. E viceversa.
Però, al di là della chiusa malinconica, questo capitolo ha un’altra conseguenza, specie se il tema di (Quasi) è “Mostri”. Perché, se leggi roba Marvel da un po’ e parli dell’alter ego di Ben Grimm, prima o poi ti trovi ad affrontare la domanda…

Ma è più forte Hulk o la Cosa?

Caso vuole che io stia rileggendo il lungo (e bellissimo) ciclo di Peter David su Hulk. Lasciamo dunque l’epoca d’oro di Lee e Kirby e spostiamoci nel 1988. “Hulk” n. 344, prima edizione italiana “I Fantastici Quattro” Star Comics n. 65. Disegni di Todd McFarlane.

Anche qui sarebbe utile un sunto della storia, il suo contesto. Spiegarti l’Hulk grigio, in questa fase intelligente, cinico e sarcastico, Il Capo che ha rubato le bombe gamma ecc. Credimi, lascia stare, tutto ridondante. La sola cosa utile: Bruce Banner ha da poco ritrovato l’amata Betty Ross e i due passano la giornata assieme. La sorpresa arriva quando la donna dice a Bruce di voler aspettare con lui che si faccia sera (in questo momento della serie Banner si trasforma in Hulk dopo il tramonto). Il pensiero della donna è lineare, coerente, coraggioso. È stata accanto a Bruce per anni. Lo ha amato, sposato, lasciato, riavvicinato. Accanto all’uomo, ma detestando il mostro in lui. Ora ha capito: se vuole davvero costruire un futuro assieme a Bruce deve arrivare a un patto con Hulk.
La trasformazione avviene, ma il golia verde è sprezzante. Rifiuta l’idea che Banner sia una parte di lui, figurati se concede vicinanza alla compagna di Bruce!

Betty si trova sull’orlo della sconfitta. Decide allora di giocare la sua ultima carta. Confidare al mostro di essere incinta. Di Bruce e, quindi, di lui.
Qui avviene il vero colpo di scena. Pure stavolta si tratta di un momento di umanità e non di azione.
Non è tanto l’abbraccio a sorprendere, quanto ciò che Hulk fa vedere. Forse per la prima volta, sicuramente per la prima volta alla donna che il suo alter ego ama. Debolezza, fragilità, voglia di accudire la donna amata. Una forza diversa dal solito. Non più «Hulk spacca!», ma bensì «Hulk protegge!».

Proprio come Ben Grimm, anche Hulk ti porta alla stessa conclusione. Forse, grazie a Peter David, ti arriva in modo più sottile (stavolta hai visto un uomo che ha dentro un mostro che ha dentro un uomo) ma è sempre lì a dirti che, spesso se non sempre, il mostro è dentro di noi. E magari non è neanche un mostro, solo un’altra maschera da indossare…
I mostri che abbiamo dentro sono altra cosa e spesso preferiscono lavorare nell’ombra, senza emergere. Te lo spiega bene ancora Gaber…

«I mostri che abbiamo dentro
Che vagano in ogni mente
Sono i nostri oscuri istinti
E inevitabilmente
Dobbiamo farci i conti»

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(Quasi)