[Arabella è libertà assoluta e indifferenza alla dittatura del calendario. Perché dobbiamo assoggettarci ai dettami di una luna che scandisce le mensilità? In fondo un mese e solo una raccolta convenzionale di giorni. Ci serve a poco. E allora, anche a novembre, per Arabella continua ottobre. E ci parla di “Mostri”. ndr]
«La vera domanda è: posso amare l’arte ma odiare l’artista? Tu ci riesci? Quando dico noi, intendo io. Intendo tu.»
Ci sono libri che, quando li finisco, voglio raccontarli a tutti. Non smetterei mai di parlarne. Poi ci sono libri che mi piacciono così tanto che faccio fatica a parlarne in modo coerente. Perché posso dire sommariamente di che parlano, ma mi sembra sempre di lasciare fuori troppe cose. Mostri di Claire Dederer fa parte del secondo gruppo. Iperborea l’ha pubblicato in aprile, io l’ho letto appena uscito e da allora non ho smesso di raccomandarlo a tutti, sono travolta dall’entusiasmo e fatico davvero a mettere a fuoco quali siano le cose da dire per rendergli giustizia. Quindi perché sto scrivendone qui? Perché me l’ha chiesto un mio amico, che nutre una fiducia assolutamente immotivata nei miei confronti, e perché arriva [è appena passato, dannazione! ndr] Halloween, e i mostri premono ai margini del nostro campo visivo: provo a raccontarvi in che modo questo libro mi ha aiutato a capire cosa fare del mio tormento e del mio disgusto. Il titolo originale del libro è Monsters: A Fan’s Dilemma e il dilemma che tormenta i fan riguarda, profondamente, anche me.
E di Claire Dederer vorrei essere amica. Per telefonarle e parlare, per esempio, di Neil Gaiman.
Qualche giorno fa ho intravisto il nome di Neil Gaiman, uno scrittore che ho sempre apprezzato ma che soprattutto ho sempre ammirato (per dirne una: per l’apertura alle storie queer molto prima che altri lo facessero) sulla pagina di “Rolling Stone”: è stato accusato da tre donne di molestie sessuali. Io non ci posso credere. Non nel senso che non ci credo – lo stabiliranno la polizia prima e la magistratura dopo – ma come è possibile? Come è possibile essere feriti così da qualcuno che non si conosce? Perché essere fan di qualcuno, amarne le opere, crea un legame delicatissimo e prezioso che a volte è difficile separare dalla propria formazione personale. E lì ho pensato: per fortuna ho letto Claire Dederer.
Claire (amica, permettimi di chiamarmi così) parte da uno shock personale: lei, che adora i film di Roman Polanski, mentre si sta documentando per scrivere un libro su di lui, si imbatte nella storia di Samantha Gailey. Nel 1977 Roman Polanski la portò nella casa del suo amico Jack Nicholson, «la drogò con dei sedativi, la portò sul divano, la penetrò, cambiò posizione, la penetrò analmente, eiaculò». Samantha Gailey aveva 13 anni.
«Eppure. Benché sapessi ciò che Polanski aveva fatto, continuai a guardare i suoi film.»
Adesso: se qualcuno sta già pensando eh ma l’arte va separata dall’artista, oppure che l’unico modo di separarli è la ghigliottina (ho visto di recente un meme) allora niente, avete già tutte le risposte. Io no, e nemmeno Claire. Perché è nata negli anni Sessanta, come me, e noi in mezzo alle molestie, dalla mano sul culo al pene mostrato nella stradina allo stupro (e se non stavi urlando e scalciando a rischio della vita non era stupro, e io me lo ricordo) ci siamo cresciute. Claire che guarda una mostra su Picasso, una delle incarnazioni del genio, indubbiamente, e del machismo, anche, e si ferma davanti a «Femme au collier jaune, che ritrae Françoise Gilot con una guancia bruciata dalla sigaretta di Picasso, i ragazzi [i suoi figli] ne ebbero abbastanza. “Che schifo, che tristezza, ce ne andiamo?” dissero».
Allora cosa fai, non guardi più i quadri di Picasso? I film di Polanski, di Woody Allen, i libri di Hemingway, le opere di tutti quegli uomini che oltre a cambiare la nostra percezione del mondo sono stati degli orribili, orribili mostri partoriti dal patriarcato?
Le due posizioni che ho citato, opera separata, opera non separata, appartengono entrambe a persone che conosco. Direi generalmente che sopra i cinquanta le persone separano, sotto no. Io non so cosa fare. Neanche Claire. Per tutto il libro cerca di darsi una risposta. E fa una cosa che mi ha colpito moltissimo, e che in qualche modo considero female gaze, sguardo femminile: passa dalla propria autobiografia.
«Io sono un mostro?»
Con una sincerità che mi ha impressionato Claire racconta del suo passato di alcolista, e di come «tutti noi alcolisti siamo stati quel bambino che pensa di essere libero mentre si fa del male e fa del male a chi lo circonda […]. Tutto questo per dire che i mostri sono solo persone».
Non posso scriverne senza fare un torto al libro. È ovvio che Claire non ha mai stuprato analmente una tredicenne. La sua è la volontà impavida di capire se può salvare ciò che ama, e la sua onestà, insieme al fatto che non si investe di alcuna autorità e non mi spiega niente, ma ragiona sempre su un noi, su un io e un tu, mi ha fatto sentire che ero per strada insieme a qualcuno che cercava di proseguire senza dire cazzate.
Ci sono capitoli del libro che si spingono su un territorio di sabbie mobili, quelli della vita delle artiste che, per esempio, hanno abbandonato i figli. Claire è una mamma e la questione se la pone in tutta la sua dolorosa complessità. Gli artisti sono persone eccezionali che possono fare tutto? No. Si sentono tali? Spesso. Quanta mostruosità può derivarne in una società patriarcale?
«Che cosa facciamo con l’arte dei mostri? Questa domanda è un moscerino che ronza intorno al monolite di una domanda più grande: che cosa facciamo con i mostri che amiamo?»
Tipo un genitore.
«Che cosa facciamo con le persone orribili che amiamo? Le tagliamo fuori dalla nostra vita? Le giustiziamo in modo rapido e indolore? Le cancelliamo? A volte. Ma è un processo straziante, che ci fa tornare alla calcolatrice […]: quanto è orribile la loro orribilità? Quanto li amiamo? E quanto è importante per noi quell’amore?»
Se ho capito quello che dice Claire (sono cauta come lei) quell’amore è troppo importante per distruggerlo. È parte di noi. Forse una delle parti migliori di noi. La sfilata dei mostri è lunghissima, ne saltano fuori di nuovi tutti i giorni e per fortuna, vuol dire che le donne cominciano ad avere le idee più chiare di quelle che hanno fatto silenziosamente parte di me, povera boomer, per decenni. Vuole anche dire però che io, ogni volta, dovrò fare i conti con dei lutti, e con un processo di riconciliazione con la parte di me che prova amore.
Ogni singola volta.
Menzione speciale al capitolo su Lolita di Nabokov, forse quello che mi ha commosso di più. Il libro racconta la storia di un pedofilo, un pedofilo del cazzo, e sembra scritto dalla mano di un dio, non quello maschilista del Vecchio Testamento, ma non so, di un semidio come Orfeo che con la musica incanta gli animali (la metafora è mista, ma il dio egizio della scrittura Thot non mi convinceva). Centinaia di pagine dentro la testa di un pedofilo stupratore che non vede mai Lolita come una bambina, ma come «Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia». C’è un colibrì, alla fine. Quando ci sono arrivata, ho pianto.
Vive in un condominio affollato e rumoroso. Le sue coinquiline e i suoi coinquilini hanno fatto di tutto nella vita: bibliotecarie, animatrici culturali, speaker alla radio, cantanti, mogli, mariti, amanti, complici… Ora ascolta tutte e tutti e sembra abbia visto, letto e goduto di ogni cosa. Me lei sa che quell’obiettivo non è stato ancora raggiunto e che si trova alla deriva in un punto indeterminato del processo.