[L’indifferenza al calendario di Arabella fa proseliti. Anche Ginevra trascina i mostri di ottobre fin nel ventre de “I ragazzi” di novembre. ndr]
Da sempre l’horror si presta particolarmente alle metafore sull’alterità, servendosi di mostri e spiriti maligni che riflettono le nostre inquietudini, private e collettive. Ho voluto parlare di tre film che mi hanno colpita fin da subito, accomunati dalla scrittura di personaggi femminili sfaccettati e intensi, oltre che da una competenza tecnica innegabile. Chi segue certi nomi del panorama cinematografico internazionale probabilmente li conoscerà da un pezzo. Per tuttə lə altrə: buona visione!
The VVitch, Robert Eggers, 2015
New England, 1630. L’adolescente Thomasin (Anya Taylor-Joy, qui al suo debutto come protagonista) assiste impotente mentre tutta la sua famiglia viene allontanata dalla comunità di coloni puritani in cui vive, dato che l’estremismo religioso del padre William (Ralph Ineson) è troppo perfino per loro. Sembra l’unica realmente preoccupata, ma non può fare altro che seguire il padre e la madre Katherine (Kate Dickie) lontano dal villaggio, fino al limitare di una grande foresta, alla mercè della natura.
Passa qualche tempo. L’inverno è alle porte, le provviste scarseggiano e una Thomasin stanca e frustrata si divide tra le faccende domestiche, circondata dai fratelli minori: il preadolescente Caleb (Harvey Scrimshaw), i terribili gemellini Mercy e Jonas e il neonato Samuel. Quando un giorno quest’ultimo sparisce nel nulla mentre Thomasin gioca col piccolo a bubusettete, non ci sono dubbi che sia accaduto qualcosa di oscuro e che c’entri proprio la foresta, anche perché quel qualcosa viene mostrato subito. Tuttavia, buona parte dell’orrore sta nell’atmosfera cupa e opprimente (complici una fotografia al naturale e una colonna sonora tesa e dissonante) da slow burn, dove sensi di colpa, risentimento, ipocrisie, alienazione e fanatismo mettono l’una contro l’altra persone che, pur amandosi, sono senza speranze davanti a forze più grandi di loro in una terra selvaggia – con buona pace della retorica del sogno americano. Man mano che la fede dei genitori vacilla e la paranoia cresce, Thomasin viene tacciata di stregoneria, fungendo da capro (no pun intended) espiatorio per le disgrazie che si abbattono inesorabili sulla sua famiglia. Quando tutto deraglia, ormai disperata, non le resta che diventare proprio ciò per cui era calunniata, in una scena finale che pare uscita da un dipinto di Goya.
Se da un lato questo solido folk horror di Robert Eggers pesca a piene mani dai racconti dell’epoca (come suggerisce anche il sottotitolo in inglese, A New-England Folktale), dall’altro ricostruisce in modo realistico le dinamiche sociali che portarono a decine di migliaia di vittime durante quel fenomeno globalmente conosciuto con il nome di Caccia alle streghe, tra la fine del Medioevo e l’età moderna. Come specificato da una didascalia al termine del film, buona parte dei dialoghi è basata su resoconti dei processi per stregoneria (e anche per questo varrebbe la pena guardarlo in lingua originale, oltre che per le performance straordinarie di tutto il cast); se vi è mai capitato di leggerne qualcuno, avrete notato come spesso ci siano caratteristiche ricorrenti tra le persone accusate, che in un modo o nell’altro risultavano delle outsider rispetto al contesto in cui vivevano. La Thomasin di The VVitch (stilizzato con lo spelling di quel periodo) è una giovane donna che sogna di evadere da una vita di stenti e repressione, e arriva a contestare l’autorità paterna quando William è disposto ad addossarle la colpa di ciò che sta succedendo, pur di non ammettere che sono stati proprio il suo orgoglio e la sua intransigenza a condannare la famiglia. Katherine poi non esita a rinfacciare alla figlia la scomparsa del piccolo Samuel, ben prima che la ragazza vada incontro al suo fato. Chi è il vero mostro, dunque?
Titane, Julia Ducournau, 2021
Una bambina di nome Alexia si trova in macchina col padre. Capiamo subito che c’è qualcosa di insolito in lei, e che il loro rapporto è piuttosto freddo. Quando Alexia si slaccia la cintura per attirare la sua attenzione e lui si gira a rimproverarla, l’automobile finisce contro un guard-rail e la piccola rimane ferita alla testa. In ospedale le mettono una placca di titanio, e Alexia ne esce cambiata, correndo incontro all’auto di famiglia per abbracciarla, quasi sentisse un’affinità.
Dopo il titolo del film seguiamo in piano sequenza una Alexia adulta (Agathe Rousselle) dentro al motor show dove lavora, mentre con Doing it to death balla in modo sexy sopra una Cadillac per attirare i clienti. Tuttavia la ragazza non cerca di stare simpatica proprio a nessuno, anzi. Quando a fine serata un ammiratore troppo insistente la tampina, lei non esita a ucciderlo, e dal suo atteggiamento distaccato intuiamo che non è la prima volta. Rimasta da sola, a un certo punto un richiamo irresistibile sembra provenire dalla Cadillac… In un’atmosfera onirica Alexia fa sesso con l’auto, che ha improvvisamente vita propria (impossibile non pensare a Christine – La macchina infernale). Dopo poco la ragazza si accorge con terrore di essere incinta, e che non si tratta affatto di una gravidanza normale: perde olio motore dalle parti intime, e il suo ventre cresce a vista d’occhio. Il momento di tagliare la corda arriva quando la situazione precipita a causa delle esplosioni di violenza di Alexia (dove comunque l’ironia di Julia Ducournau non manca di manifestarsi; vedi le mazzate a suon di Nessuno mi può giudicare), che nella sua divergenza sembra capace di rapportarsi al prossimo soltanto così. Ricercata dalla polizia per una serie di omicidi, tenta di passare per un ragazzo scomparso anni prima, Adrien, che le assomiglia quanto basta. Per accentuare il proprio aspetto androgino si rompe il naso e si fascia il seno e la pancia, non senza difficoltà. Viene quindi raggiunta da Vincent (un immenso Vincent Lindon), padre di Adrien e capitano di una caserma di pompieri in crisi di mezza età che, distrutto per la sparizione del figlio, si rifiuta di sentire ragioni e accoglie la ragazza come se lo avesse ritrovato. Si viene così a instaurare un rapporto complesso tra due individui frammentati, fragili e soli, dove la diffidenza e gli impulsi violenti di Alexia sono vinti da qualcuno che, per la prima volta nella sua vita, la ama incondizionatamente e la accetta com’è, anche quando ormai è chiaro che non si tratta di Adrien. Via via che l’elefante nella stanza diventa ineludibile, vediamo nascere una storia d’amore queer che è tale perché trascende ogni norma, ogni genere, sia di Alexia/Adrien che puramente cinematografico.
Sarebbe infatti semplicistico considerare quest’opera ibrida un body horror alla Cronenberg – matrice comunque presente quando viene mostrato l’evolversi della gravidanza cyborg, accettata infine da Alexia, o il corpo di Vincent che si contrae per gli steroidi da cui è dipendente. Alexia si trasforma (in tutti i sensi); impara ad amare, a lasciar andare le proprie paure (la scena del ballo coi pompieri sulle note di Light House è di una bellezza rara), a salvare vite invece di toglierle (altro momento assurdamente spassoso è quello del massaggio cardiaco a ritmo di Macarena), a lenire la rabbia che si porta dentro da quando era una bambina ignorata dal padre. E Vincent trova il coraggio di ricominciare, quando una nuova vita di carne e titanio entra in scena nel più cruento dei modi.
Gretel e Hansel, Oz Perkins, 2020
In una terra lontana, in un tempo indefinito, Gretel (la bravissima Sophia Lillis) è una ragazza di 16 anni che in piena pestilenza cerca di provvedere come può all’amato fratellino Hansel (Samuel Leakey), che non lascia mai il suo fianco, dal momento che la loro madre (Fiona O’Shaughnessy) non è più in sé dalla morte del padre. Quando Gretel rifiuta un lavoro da domestica perché capisce che il padrone di casa intende abusare di lei, la madre minaccia di uccidere i suoi stessi figli se non andranno via quanto prima. Alla ragazza dunque tocca cercare altrove un futuro migliore per sé e per il fratello. Persi nel fitto della foresta (archetipo per eccellenza di ciò che sfugge al nostro controllo) dopo che un cacciatore ha indicato loro la via per raggiungere dei boscaioli, cominciano a sentire i morsi della fame, finché non raggiungono una casa misteriosa con una tavola imbandita da pietanze d’ogni tipo. Attirato da un profumo di torta, Hansel entra e viene sorpreso da Holda (Alice Krige), un’anziana inquietante e sospettosamente gentile che offre ospitalità ai fratelli. Poiché sa che ogni dono ha un prezzo, in cambio Gretel propone a Holda di aiutarla nelle faccende domestiche. Con la scusa che il bambino deve imparare a tagliare la legna, durante il giorno l’anziana tiene Hansel lontano dalla casa, mentre comincia a istruire Gretel su pozioni e unguenti. La donna infatti è una potente strega (simboli magici come triangoli, esagrammi e pentacoli ricorrono lungo il film), che percepisce come anche la ragazza sia molto dotata, e la esorta a recidere il legame con Hansel per liberare il suo potenziale. Di notte Gretel è tormentata da visioni oscure, e quando anche il fratellino realizza che qualcosa non va Holda mostra il proprio volto, svelando la verità raccapricciante dietro tutto quel cibo messo a tavola senza sforzo. Starà a Gretel dimostrare che la scia di sangue può essere interrotta, e che le sue capacità possono nutrirsi tanto di tenebre quanto di luce, a seconda di come lei stessa plasmerà il suo destino.
Rivisitando una delle fiabe più note dei fratelli Grimm (a loro volta rielaborazioni di racconti popolari tedeschi), Oz Perkins fa risaltare Gretel, qui una giovane intraprendente in un coming of age dall’ispirazione femminista, dove si trova a fare i conti con la necessità di trovare la propria strada per poter maturare – in questo senso, dando ragione a Holda. Ma, come per ogni sottotesto psicoanalitico che si rispetti, le figure genitoriali vengono messe fuori gioco, e il vecchio deve lasciare spazio al nuovo (e forse in fondo la strega ne è consapevole). A rimanere intatta è l’anima dark dei Grimm, le cui storie traevano spunto da fatti lontani di una tale violenza (ad esempio carestie, casi di cannibalismo, prole abbandonata a causa della povertà) da restare impressa nella memoria collettiva, diventando un monito per le generazioni a venire.
Sbarcata su QUASI grazie a Paolo, scrive poco ma cerca di darci senso. Ama i film di Miyazaki, i gatti, la pappa al pomodoro e tante altre cose. Odia i fascisti. Se non può ballare non è la sua rivoluzione.