Umanità attraverso gli altri

Emiliano Barletta | Affatto |

I robot esistono per un motivo: obbedire, servire, eseguire ordini. Eppure, eccola lì, Roz. Un ammasso di circuiti schiantati su un’isola deserta, circondata solo da bestie selvatiche e alberi, e senza nessun ordine a cui obbedire. Eppure, in quel vuoto, qualcosa in lei si inceppa.

Il Robot Selvaggio diventa così una nuova versione del mito del bambino selvaggio, che come un moderno Tarzan, è un essere senziente che scopre il mondo in assenza di modelli umani, imparando dai ritmi e dalle leggi dell’ecosistema in cui si trova. Ma a differenza di Tarzan, che alla fine viene plasmato (e in parte traviato) dalle aspettative della società, Roz si evolve in una direzione nuova e più armoniosa. Il robot è una “creatura civilizzata” — una macchina costruita con scopi utilitaristici — che viene gettata in un contesto naturale dove non serve a nessuno, tranne a ciò che riesce a dare come individuo. Non cerca di civilizzare – o sottomettere – il mondo intorno a sé, anzi, si lascia “civilizzare” da esso.

E così nel mezzo del nulla, senza nessuno a cui obbedire, Roz diventa “Persona”. Nel senso che scopre che il suo scopo può essere altro, può essere chi vuole, senza permessi, senza comandi. Un soggetto autonomo, capace di imparare a scegliere. E quella scelta — quella scintilla che non avrebbe mai dovuto avere — è l’unica cosa che gli fa scoprire cosa significa essere davvero liberi.

Quindi, lontana da ogni costrizione, Roz sceglie di essere il genitore di un pulcino d’anatra. E senza alcuna base, senza nessun programma di istruzione parentale, scopre cosa significa prendersi cura di un essere vivente. Ma in fondo, non è forse quello che deve affrontare ogni neogenitore?

Così, nel gesto stesso di prendersi cura del piccolo anatroccolo, Roz ci mostra una via di progresso che non ha nulla a che vedere con lo sfruttamento, nulla a che fare con il profitto o con l’ego umano. Una alterità che ci dimostra quanto possa essere fragile la linea tra ciò che è umano e ciò che non lo è.

L’umanità, dunque, non è una questione di carne e ossa, ma di connessione. Questo concetto trova un forte parallelismo nella filosofia Ubuntu dell’Africa sub-sahariana (nome che, non a caso, è stato dato anche a una popolare distribuzione Linux): «Essere umani significa affermare la propria umanità riconoscendo l’umanità degli altri e, su questa base, stabilire con loro relazioni umane rispettose». È proprio ciò che Roz scopre nel suo percorso: il valore di un individuo si definisce attraverso le relazioni che stabilisce nella comunità. Una visione che si discosta profondamente dal pensiero occidentale, dove l’individuo viene concepito come entità autonoma e preesistente, un’unità che esiste prima e indipendentemente dalla società che lo circonda.

Così Roz non è soltanto un robot, ma una sfida esistenziale, un sogno utopico che si nutre di anarchia. È l’applicazione di quanto teorizzato da Gregory Bateson – il pioniere del pensiero ecologico evolutivo e il fondatore di una cibernetica applicata alle scienze umane – per cui la conoscenza nasce dalla differenza.

Alla fine, proprio nel suo essere “non umana”, Roz diventa il ritratto di un’umanità che si allontana dai tradizionali canoni occidentali. A definirla non è la sua struttura di metallo e circuiti, ma le sue scelte, il bisogno di connessione e la capacità di prendersi cura di chi le sta intorno. Il Robot Selvaggio ci porta a chiederci cosa significhi davvero essere umani, suggerendo che l’umanità non è questione di carne e sangue, ma di empatia, legami e volontà di costruire insieme. È un invito a scoprire l’umano anche in ciò che ci appare diverso, a vedere nella diversità una fonte di crescita e arricchimento per tutti.

«Umuntu ngumuntu ngabantu», «Io sono ciò che sono in virtù di ciò che tutti siamo».

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