Sans la liberté de blâmer, il n’est point d’éloge flatteur…
Pierre Augustin Caron de Beaumarchais
Il 6 novembre era un mercoledì. È strano, perché di solito a metà settimana ho da fare cose più divertenti che pubblicare post su Facebook. A parte ripostare ogni mattina gli articoli di (Quasi), se posto qualcosa su quel social il mercoledì è perché mi sto annoiando a bestia. Ecco: io non me lo ricordo, ma probabilmente non avevo voglia di lavorare alle tre traduzioni, alle due postfazioni, alla storia e ai sei saggi che ho in ballo adesso. Non avevo nemmeno voglia di uscire e raggiungere gli amici al bancone del solito locale sui navigli, e ancor meno di guardarmi un film o una serie in tv. Stavo lì ad annoiarmi e a scrollare cazzate sul telefonino. Quindi mi è venuto di fare un post d’amore (per Edmond Baudoin) e un post d’odio (per un sito archivistico).
Voglio essere chiaro. Io non odio nessuno. Amo pochissime persone, ne stimo altrettanto poche (non combaciano necessariamente, ma spesso sì) e ho una normale indifferenza per tutti gli altri. Qualcuno di questi altri lo disistimo, per esempio buona parte di quella generazione di “critici” e “storici” del fumetto nati tra la seconda metà degli anni Quaranta e la prima degli anni Cinquanta del secolo scorso. La disistima è una categoria del sentimento, certo, ma come il disprezzo non è da confondersi con l’odio. Comunque: ho fatto questo post in cui me la prendevo per una nozione sbagliata su un sito nozionistico e le reazioni non si sono fatte aspettare – ma, per inciso: a distanza di più di dieci giorni quella nozione sbagliata ancora non è stata corretta – stigmatizzando la mia maleducazione.
Hanno ragione. Sono maleducato. Però c’è una ragione alla mia maleducazione, perché a differenza loro io sono davvero un critico, e la critica beneducata è un’araba fenice dal sapore metastasiano: non esiste.
Ha ragione il mio socio Paolo Interdonato, la critica ha il dovere della militanza. Ma la militanza non può, a mio avviso, restare rinchiusa tra le regole del galateo. Anche perché di solito quelle regole le ha stabilite il sistema cui appartengono il soggetto e/o l’oggetto che viene criticato.
Me se considero quel sistema solo un accolita di collezionisti completisti con intenzioni conservative e, nella migliore (quella che in fondo, fosse vero, sarebbe utile) delle ipotesi, archivistiche e non un gruppo di organizzatori di un discorso di sistemazione critica, perché sento la necessità di entrare nel loro salotto e imbrattargli il tappeto con i miei anfibi sporchi di fango?
Perché non conta quello che sono, ma come sono percepiti. E sono percepiti come critici. Il loro lavoro è ciò che viene ritenuto, da quella irrilevante parte di pubblico cui interessa e cui ci rivolgiamo, il lavoro del critico. Questo genera un problema. La loro natura di “appassionati” mette al centro della loro struttura di sapere il fumetto come categoria estetica. È bello, è interessante, perché è fumetto. A questa categoria tributano quindi il sacrificio di sapere tutto. Il fumetto, avulso dal sistema economico, sociale e culturale che lo ha prodotto, è il fine ultimo del loro discorso.
Per un critico invece, l’oggetto della propria critica – nello specifico, il fumetto – non è il fine, ma il mezzo per la costruzione del proprio discorso. Anche in questo senso ha ragione il mio socio: il critico è un autore che lavora su un semilavorato altrui, per trasformarlo in un’altra cosa.
Una volta un autore di fumetti mi ha detto che la critica lascia il tempo che trova, perché tanto quello che alla fine resterà, se qualcosa resterà, non lo sanno certo i critici; eppoi aggiungeva: chi fa le cose dovrebbe infischiarsene della critica. Aveva ragione.
Io non so fare niente. Non so disegnare, non so scrivere sceneggiature, non so colorare, non so fare niente di quello che sa fare lui quando fa un fumetto. E non mi frega proprio niente di imparare a farlo. Perché so fare un’altra cosa, che non è detto lui sappia fare – alle volte sì, ci sono fumettisti che lo sanno fare benissimo – , che ho imparato negli anni e che mi dà un potere infinito su quello che sa fare lui. Guardare quello che ha fatto. Guardare questi “maledetti” fumetti.
Quindi, quello che mi diceva quel simpatico autore lo capovolgo e ti dico che chi fa la critica deve infischiarsene di chi fa i fumetti. Preoccuparsi solo di dire la verità sulle cose. Spolpare il testo e andare ai resti. Perché non c’è bisogno di tirare in ballo Roman Jakobson per dimostrare che un’opera è sempre già qualcosa che appartiene al passato e quindi è qualcosa che resta. Mittente e destinatario di un’opera non sono mai compresenti. L’opera si colloca nel passato rispetto al lettore. Io che leggo sono la contemporaneità, l’opera anche se solo di qualche giorno è il passato, i resti – per quanto striminziti – del passato. Mio caro autore, quando io leggo, tu non ci sei più.
Intendiamoci, non ci sei più come presenza fisica: quel rompicoglioni che si offende se parlo male di quello che ha fatto. Il resto, quello che conta, la tua biografia, le tue contraddizioni (il fatto che in Italia, ad esempio, non esistano vere biografie degli autori più grandi, ma solo ridicole e inutili agiografie è un problema imputabile anche in parte a quella generazione di cui sopra) stanno lì dentro, dentro la tua opera, come tracce del passato che il mio sguardo trasforma in segnali presenti.
La lettura è quindi sempre un atto critico che richiede il confronto tra sistemi e tempi differenti.
Il discorso critico è l’opera del critico. Se il materiale con cui e su cui lavora l’autore di fumetti è composto dalla carta, dalla matita, dai pennarelli, dai programmi e dalle tavolette grafiche, dalla documentazione iconica, dalle regole editoriali e dai vincoli del formato; il materiale su cui lavora il critico di fumetti è composto dalle stesse opere di fumetti. Quando costruisco la mia critica, il materiale grezzo su cui lavoro è l’opera di cui sto parlando.
Se, per esempio, la materia su cui lavora uno scultore è il marmo, per me che sto, sempre per esempio, riflettendo sull’opera di Moebius, la materia grezza, il semilavorato è Il Garage ermetico.
Ho citato Moebius, ma non è necessario; può essere qualsiasi opera, puoi costruire discorsi anche sull’Alan Ford attuale. D’altra parte ce lo ha insegnato Piero Manzoni che si possono fare discorsi critici fondamentali persino sulla merda. Il punto è che devi essere consapevole che stai maneggiando merda, cioè devi essere critico, perché altrimenti, come è accaduto alla generazione di cui sopra, schizzi di merda anche tutto il resto. Quando tutto odora di deiezione, purtroppo, tutto diventa deiezione.
Quando è fatto con questa consapevolezza il lavoro del critico, la sua interpretazione, apporta nuovo materiale all’opera stessa, trasformandola in qualcosa d’altro, in qualcosa di più completo. Trasformando, alle volte, persino la merda in oro. Per farlo deve entrare in conflitto polemico con l’autore o, quando si dia il caso che l’autore non sia più vivo, con gli altri interpreti. In questo preciso momento l’azione critica diventa autentica: due avversari che si affrontano (l’opera e la critica, ma anche viceversa e anche due diverse visioni critiche una contro l’altra) e si scontrano. Da questo conflitto chi trae il massimo vantaggio è il lettore.
Sia chiara una cosa: lettore è sia l’autore, sia il critico, sia quel terzo soggetto che, effettivamente, si limita a leggere il fumetto di cui stiamo parlando, solo per divertimento. Un divertimento a cui si giunge comunque attraverso un percorso di fatica, fosse anche solo l’imparare a leggere o a guardare. L’ho detto e ripetuto in tutti i miei saggi (lasciami fare un po’ di autopromozione: Il peso del fumo e Tu chiamale se vuoi Graphic Novel) ma non mi stancherò mai di sottolinearlo: è quello del lettore il lavoro più difficile.
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.