Salvare ciò che non è inferno: The Tower di Mats Grorud

Ginevra Gambi | Affatto |

«Non importa quanto sia buio, cerca di trovare anche il più piccolo raggio di luce, e rimanere lì…»

La zia Hanan alla piccola Wardi

Beirut, 2018. Le abitazioni nel campo profughi di Burj el Barjaneh si affastellano precarie una sull’altra, formando una foresta di torri che anelano al cielo. Si tratta di rifugiatə anche di terza, quarta generazione, da quando due terzi della popolazione palestinese vennero rimossi dalla loro terra nel 1948, con la fine del Mandato britannico e l’istituzione dello Stato di Israele. Il giorno dell’anniversario della Nakba (15 maggio), mentre corre la notizia di un ragazzo del campo ferito durante una manifestazione, l’undicenne Wardi (Layla Najjar) rientra da una scuola UNRWA. Quando l’adorato bisnonno Sidi (Makram Khoury), gravemente malato, le affida la chiave della sua vecchia casa in Galilea che, come tantissimə palestinesi, tiene ancora con sé, la bambina teme che abbia perso la speranza di poter rivedere la terra natale e inizia a cercarla tra le pieghe della storia famigliare, salendo i piani della casa. Mentre Wardi raccoglie le testimonianze dellə parenti, in un alternarsi tra stop motion e animazione 2D, emerge come ogni generazione sia segnata da traumi e dalla difficoltà di dover sopravvivere altrove, in un contesto tutt’altro che accogliente. Ma è anche la restituzione di molteplici forme di resistenza, come la piccola terrazza dove Sidi continua a curare le piante nate dai semi del suo giardino in Palestina, quand’era bambino. E anche se lui non vi tornerà mai, può ancora sperare che sua nipote veda un futuro diverso, libero dall’occupazione sionista.

Basato sulle storie raccolte dal regista e animatore norvegese Mats Grorud proprio a Burj el Barjaneh, è difficile guardare The Tower (disponibile su OpenDDB) senza un groppo in gola. A un anno dall’inizio del massacro nella striscia di Gaza, allargatosi alla Cisgiordania e allo stesso Libano, i numeri dellə sfollatə (milioni, tra palestinesi e libanesi) e delle vittime sono devastanti. Solo a Gaza l’esercito israeliano ha sterminato oltre 43.000 persone, senza contare tuttə lə dispersə sotto le macerie e chi muore per le cause indirette del genocidio, quali fame e malattie, e si stima che potrebbero volerci fino a 350 anni per rendere la zona vivibile. Nel frattempo, gli Stati Uniti d’America (gli stessi che forniscono circa il 70% dell’arsenale di Israele) vedono sfidarsi Donald Trump e Kamala Harris per le nuove presidenziali (mentre scrivo è il 4 novembre). Da un lato uno tra i peggiori presidenti della storia del Paese, che destò scalpore quando nel 2017 decise di riconoscere Gerusalemme come capitale d’Israele e di trasferirvi l’ambasciata statunitense, in barba al diritto internazionale. Dall’altro la vice apertamente filosionista di “Genocide Joe” Biden, che con il suo sostegno incondizionato a Benjamin Netanyahu si è dimostrato… uno tra i peggiori presidenti della storia del Paese. Il dado è truccato, e in ogni caso saranno tempi molto bui per il Medioriente.

E noi che possiamo fare per reagire a questa barbarie, come singoli, come umanità tutta? Forse può venire in nostro aiuto Italo Calvino, con un celebre passo alla fine di Le città invisibili che trovo rispecchi abbastanza lo spirito resistente di Sidi e del popolo palestinese:

«L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.»  

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