(Quasi) un podcast: La stele di Rosetta

Paolo Interdonato | post-it |

Credici o no: Boris è il nucleo di buon senso cui mi ancoro quando ho bisogno di essere moderato. Ho pulsioni radicali ed estremistiche su tutto ciò che riguarda la lettura del mondo. Il confronto quotidiano con Boris serve a smussarle: rischio continuamente di perdere il senso della misura e Boris, tutte le volte, è lì, per restituirmelo. Penso che lui senta la stessa cosa per me, ma non glielo chiederò mai, perché non ho voglia di essere gelato dal suo sarcasmo.
Ti faccio un esempio del modo feroce con cui mi rintuzza e mi rimette al mio posto.

P: Cazzo! Ma questo scrive di merda ed è convinto di scrivere bene.
B: Pare anche a me.
P: Pure io sono convinto di scrivere bene… non è che invece scrivo di merda e non sono capace di valutare oggettivamente quello che faccio?
B: Anche io sono convinto di scrivere bene.
P: Beh…
B: Poi mi rileggo!
P:
B: Tu non lo fai?

Bene o male che sia, Boris e io scriviamo molto. E, un po’ alla volta, ci siamo convinti che parlare di musica e danzare di architettura sono due modi di fare critica. Due modi leciti e bellissimi.
Scriviamo da quando eravamo giovani, da almeno trent’anni. E ormai siamo, entrambi, uomini di mezza età da così tanto tempo da iniziare a chiederci quando questa età di mezzo finirà. E dopo il medioevo anagrafico mica c’è una cosa che chiameremo Rinascimento o modernità (a seconda del tempo continuo che sei disposto a riconoscere alla storia): si diventa anziani.
Mentre ci prepariamo a essere due meravigliosi rompicoglioni da parchetto, pronti a inveire contro il tempo, il governo e il costo del vino e a gridarvi che ve lo buchiamo quel pallone, ci rendiamo conto che il nostro fare critica, costruito quasi esclusivamente con racconto e parole scritte, ha voglia di cambiare forma.

Ancora non sappiamo se ci riusciremo e che forma avrà, ma sappiamo che, nonostante i corpi che rispondono più lentamente e rivelano la loro fallibilità in un sacco di modi stronzissimi, non abbiamo perso la voglia di giocare.
Una delle forme che vogliamo per il nostro gioco è quella del podcast. Ci piacerebbe un sacco trovare un modo per godere di quel formato, ma, per il momento, non riusciamo ad avere un’idea armonica capace di farci lavorare in un modo omogeneo e continuo che, al contempo, ci diverta.

Per il momento, abbiamo costruito uno spazio per il nostro podcast, per seguire l’urgenza e l’incontinenza verbale scatenantami dalla visione della mostra parigina “Bande Dessinée 1964-2024”.
Poi, mentre ci chiedevamo come proseguire, con chiacchiere libere, letture di articoli, interviste, tavole rotonde, litigi in presa diretta, storie a puntate e un sacco di altre idee sghembe e fuori fuoco, l’incontinenza verbale è tornata a bussare alla mia porta. In fondo sono un (Quasi) anziano.

Allora ho deciso di raccontare una questione privata. Molto privata.

Su (Quasi) diciamo spesso che la critica è soprattutto autonarrazione. In fondo un critico è una persona che prende un testo (scritto, cantato, giocabile, visibile, usufruibile su mille piattaforme diverse e in mille modi diversi) e lo mette di fronte a quel pezzo di mondo che ha capito fino a quel momento. E il suo fruire di quel testo produce un testo nuovo che cambia – anche solo micrometricamente, come tutto quello che ci succede ogni giorno – la percezione del mondo sua e di chi ha avuto voglia di ascoltarlo, leggerlo, fruirlo.

Con l’autonarrazione, a volte, si può anche esagerare. E forse non avevi alcuna voglia di sapere cose così private, addirittura sensibili, di me. Eppure, te le racconto.

Perché questo è il solo modo che conosco per dirti il mio amore per i fumetti e il mio fastidio per alcune mossette industriali che cambiano il modo in cui, quei fumetti, dovremmo percepirli. Se hai voglia di sentire per trenta minuti il mio accento da Brianza velenosa, non devi che ascoltare “La stele di Rosetta, oppure Aveva ragione mia madre”

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(Quasi)