La critica ci farà a pezzi, ogni volta

Boris e Paolo | Facoltà di cazzeggio |

Paolo: Spiegami un’altra volta perché nel mese dedicato ai ragazzi, quando avremmo dovuto dire delle elezioni americane e di una pistola puntata alla tempia dell’elettorato priva di nicchie vuote, noi due siamo autorizzati a lanciarci in concioni e proclami sul senso della critica? (Se parli di “statuto ontologico”, però, me lo faccio spiegare di nuovo, eh!)

Boris: Dài. Lo sai benissimo. Il tema del mese è ispirato alla serie The Boys, che è ispirata al fumetto di Garth Ennis e Darick Robertson. Se la serie TV è un’evidente critica (con forti toni satirici) alla politica interna americana, il fumetto di Ennis è soprattutto – per quanto scorreggionissimo – una critica al sistema culturale: al mito fondativo degli Stati Uniti che ha reso possibile l’esistenza di un personaggio come Trump. Il mito nietzschiano del superuomo in chiave pop: Superman (e va da sé, tutti gli altri supereroi). Col cazzo, dice Ennis, che da grandi poteri derivano grandi responsabilità. Dal grande potere deriva un delirio narcisista che ti scolla da ogni realtà e dal concetto di responsabilità. Il potere più grande è quello di costruire storie, di creare narrazioni che, nel flusso delirante della creazione artistica, ti fanno credere di essere invincibile e inattaccabile. Attaccare il narcisismo gli autori di storie per riportarli alla realtà è un atto necessario. L’atto critico di cui ci troviamo qui a discutere.

P: Hai parlato di storie e realtà. E mettere le narrazioni di fronte al mondo è uno dei punti fondamentali dell’idea che ci muove – e ci fa litigare – da tanti anni. E che muove anche (Quasi) che – diciamocelo – è lo spazio che abbiamo scelto per litigarci con continuità.

Ecco… ho fatto questo preambolo perché volevo prenderti per il culo perché hai detto “attaccare il narcisismo degli autori di storie per riportarli alla realtà”. E, mentre lo facevo, mi è venuto in mente che, per noi due, attaccare l’altro per mettere in crisi l’idea di partenza è una costante. Litighiamo pesantemente (mentre chi ci ascolta pensa che stiamo fingendo) per trovare il punto in cui possiamo cambiare e cambiarci. Sei d’accordo?

B: Mmh, non so se c’entra la nostra passione per gli sport da combattimento e quindi sublimiamo la nostra impossibilità, per gli evidenti limiti d’età, di darci diretti sul muso, ma sì, sono d’accordo. Ci cambiamo, saliamo sul ring di (Quasi) a suonarcele – ed è vero, quando ce le suoniamo non stiamo scherzando… quello prima e dopo, mai durante l’incontro – e alla fine dell’ultimo round l’idea di base per cui ci siamo dati le mazzate non è più la stessa. Quanto meno è andata in crisi. Si è incrinata sotto ganci e montanti. Scendiamo dal ring e gli abiti borghesi che ci rimettiamo non sono più gli stessi.
Però alle volte c’è un problema. Quando sul ring ci trasciniamo qualcuno che non ha il nostro allenamento alla critica.

P: E qui entra in crisi l’idea di “attaccare gli autori di storie” per la quale prima volevo litigarmi con te. Non ho mai attaccato un autore… non è vero, alcune volte – pochissime – mi è scappato di farlo, ma sono stati gesti meschini di cui mi vergogno. In ogni caso, non attacco, non mi confronto con gli autori, mi confronto con le storie. E, durante quegli scontri, gli attori che si scontrano sono due: la storia, chiamiamola opera per ridurre i fraintendimenti, e tutta la risibile comprensione del mondo che ho dentro in quel momento.
Credo che sia esattamente la stessa cosa per te (anche se a te scappa più spesso di prendertela con gli autori). La domanda, allora, è: perché la mia – o la tua – comprensione del mondo – risibile tanto quanto quella di chiunque altro – deve essere più attendibile di quella altrui?
Di cosa parliamo quando parliamo di allenamento alla critica? Di amore?

B: Ahahah. L’AMORE! Mi vene in mente un verso di quel meraviglioso pezzo di Capossela, Che cos’è l’amor?: «è quello che rimane da spartirsi e litigarsi». Ecco, quello che rimane, dopo il processo produttivo. I resti. L’allenamento alla critica è questo: sapere andare ai resti. Non è che siamo più attendibili, è che abbiamo mappe più complete per arrivarci. E siamo così generosi da renderle continuamente pubbliche. Forse, sì: questo è amore.

P: Sei insopportabile. Tiri fuori le mappe, perché sai che a questo punto non posso che darti ragione. Le mappe sono rappresentazioni del mondo. Esigono astrazione e modellazione e richiedono la condivisione di sistemi di metafore e di modelli di lettura e uso. Fare critica significa prendere una storia e metterla sulla mappa. Alla fine, la critica è usare il mondo che hai mappato per capire una storia e usare quella storia per cambiare la mappa.

B: Sostanzialmente il critico è una sorta di mostro quadricipite, esploratore per arrivare ai resti, archeologo per esaminarli, cartografo per ridisegnare la mappa che ci ha portato a quei resti e infine Mike Tyson per ficcare a cazzotti nelle teste degli altri le nuove coordinate del territorio. Mi piace. Soprattutto il quarto aspetto.

P: Hm… Hai scelto Tyson, un mito che recentemente è diventato un anziano ostinato che si è prestato all’incontro farsa con uno youtuber per fare cassa. Avrei preferito citassi uno di quelli i cui incontri mi piacciono sul serio. Chessò… Demetrious Johnson, Mikey Musumeci, Oleksandr Usyk, Rafael Ağayev
Non conosco nessun critico che sia riuscito nella sua vita a fare cassa spettacolarizzando la memoria del suo talento. Neanche Umberto Eco, Susan Sontag o Michel Foucault.

B: Però tutti vecchi ostinati!

P: Chi più chi meno… Qualcuno non ci è riuscito a diventarlo.

B: Già, l’unico che è diventato davvero vecchio è stato quello con la vita più noiosa e forse il meno ostinato. La cosa più interessante, in ambito critico, è che il percorso di Eco si chiude con lui che racconta storie, dimostrando due cose: che un grande critico può essere un narratore mediocre, certo, ma anche che un critico (grande o meno che sia) è prima di tutto un autore.

P: C’è una cosa che non diciamo mai. Il meglio della scrittura, da un sacco di tempo, ma forse da sempre, ha la forma del saggio. Il romanzo è stato un incidente di percorso che è durato poco. Ora c’è quel fango di parole che si affastellano per un sacco di pagine senza costrutto. Le altre forme della narrazione letteraria sono state schiacciate da quel formato unico. La critica, che difficilmente si esprime in forma narrativa, è ancora vivace.
Mi sentirei un presuntuoso che cerca di tirare acqua a un mulino che non considera nemmeno suo se non sapessi che Alfonso Berardinelli, da anni, afferma proprio questa cosa. E la correda di un sacco di mirabili esempi.
C’è però una contraddizione molto forte che viviamo, facendo critica, su (Quasi) e vorrei sapere cosa ne pensi tu. La scrittura tua e la mia (e molta di quella che accogliamo su queste pagine) sono in realtà molto narrative. Da queste parti non ci si limita alla mappatura e alla analisi: raccontiamo continuamente. Un sacco di storie, aneddoti, elementi nascosti, vicende personali, fatti diversi, novelle morali, barzellette…

B: Figurati, sfondi una porta aperta. Da anni, salvo rarissime eccezioni, la saggistica è l’unico macrogenere letterario che frequento. Sono convinto che sarà anche l’unica realtà editoriale, l’unico oggetto fisico in forma di libro, che non si esaurirà nei prossimi decenni. La critica è quello che resterà davvero. Ahah! No, non penso che la scrittura che esercitiamo su (Quasi) sia contradditoria. La saggistica è un macrogenere, che contiene microgeneri: dal saggio accademico, alla scolastica, alla divulgazione storica o scientifica, alla cartografia, al biografismo, alle guide pratiche o ludiche, ai pamphlet, alla critica. Cose che nel nostro campo d’indagine, l’immaginario e i suoi mutamenti, non sono mica separate da recinti invalicabili. Anzi. È quello di cui ci occupiamo con (Quasi), non volendo fare la fine di quei vecchi tassidermisti conservatori che mi diverto ad attaccare, a obbligarci all’ interdisciplinarietà.

P: E la scrittura inizia a starci stretta. Mica abbiamo voglia di essere rinchiusi nella riserva dell’editoria sopravvissuta di cui dici. Dobbiamo piantarla con le parole intorno alle storie. Perché ostinarsi a parlare di musica quando possiamo iniziare a danzare di architettura?

B: E allora danziamo! Danzare è un atto d’amore. Vedi che tutto si tiene? Basta avere la consapevolezza che, come diceva il poeta, l’amore ci farà a pezzi, ogni volta.

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(Quasi)