In una settimana mi sono confrontata con l’Apocalisse tre volte, con tre ragazzi diversi.
La prima volta è stata alla biblioteca UAU, con i ragazzi di una seconda del liceo scientifico. Per il gruppo di lettura di quest’anno hanno scelto Clementine di Tillie Walden, che ho inserito nella bibliografia ma gli insegnanti odiano.
I gruppi di lettura delle superiori sono la parte del mio lavoro che amo di più. Mi costringono a rivedere continuamente la routine, mi lasciano sempre col dubbio di aver sbagliato qualcosa, mi rimandano in biblioteca col cuore e il cervello che vibrano così tanto che in fumetto ci sarebbe la pagina doppia con scritto SBANG.
Parlare di Apocalisse zombie con dei ragazzi di quindici anni ti porta inevitabilmente a confrontarti con una idea dolorosa, quella del mondo che la mia generazione gli sta consegnando. Guerra e devastazione del pianeta. Realismo capitalista e neonazismi. Dopo averne parlato sommariamente ho cercato, come sempre, di arrivare a una conversazione più personale, perché un’ora passa velocissima, e far parlare tutti è difficile e richiede un senso del tempo da performance musicale. Non mi va di limitarmi a lasciarli parlare, sono una merda e alla fine riesco sempre a farli parlare tutti: siccome poi chiedono sempre di partecipare a un altro gruppo di lettura, la mia convinzione che tutti, quando contribuiscono a qualcosa, sono un po’ più contenti, specie se di solito non lo fanno, ne esce rinforzata.
Clementine è la personaggia di una serie di videogiochi di TellTale Games, tutti ambientati nell’universo di The Walking Dead di Robert Kirkman. Nel 2022 è diventata il Libro Uno di un fumetto disegnato da Tillie Walden – di cui io porto in classe anche Trottole, Eisner Award 2018. Walden ha un tratto particolare, che gioca moltissimo con la luce e tratteggia i visi e i corpi in un modo che potrebbe anche essere definito “grazioso”: quando racconta la fase due dell’Apocalisse il risultato è una leggera dissonanza cognitiva, per chi legge. Ma io sono un pesce e cos’è la dissonanza cognitiva?
La seconda volta è stato ieri, quando mi è arrivato Vic & Blood di Richard Corben, la storia del ragazzo e del suo cane telepatico tratta dai racconti di Harlan Ellison. Vic il ragazzino e Blood il cane si muovono in una terra devastata dai conflitti nucleari e Wikipedia mi informa che l’anno è il 2024. Come facevamo a non parlarne? La storia di Ellison è del 1969 ed è finita nella raccolta intitolata The Beast that Shouted Love at the Heart of the World, La bestia che gridava amore al cuore del mondo. Lo stesso anno il racconto che dà il titolo alla raccolta ha preso il premio Hugo, e da quando l’ho letto, trent’anni dopo, non ha smesso di colonizzare il mio inconscio. Vic & Blood invece l’ho scoperto oggi leggendo la versione a fumetti, e ho pensato un sacco di cose, che sono sicura non sono in linea con chi conosce l’opera di Corben e, ovviamente, sono influenzate dal mio essere una donna che si sta lentamente risvegliando dal coma negli anni Venti del XXI secolo.
E siccome Rorschach è una rubrica esplicitamente proiettiva, quello che vedo nelle macchie colorate è assolutamente personale, no? Non è che può interpretarlo qualcun altro al posto mio (ho cercato di mettermi al sicuro dagli esperti, che fanno benissimo il loro mestiere e hanno una competenza che non avrò mai, a meno di non vivere altri cinquant’anni con un disco esterno di estensione mnemonica).
Io, leggendo Vic & Blood, sono salita, salita, salita e alla fine sono rotolata, «Backwards Out Her Window», all’indietro fuori dalla finestra, (Sendak ti ringrazio per sempre di aver dato forma a questa sensazione) e dalla vignetta sono caduta di nuovo in Clementine.
Tre ragazzi. La prima è Clementine, il secondo è Vic, e il terzo io l’ho chiamato Apocalypse Dude per creare un distacco emotivo che non ho, e era l’ultimo del cerchio quando abbiamo discusso Clementine. Fuori dalle vetrate della biblioteca c’era un sole senza senso per il mese di novembre, il prato era ancora verde, ogni tanto un uccello si posava, faceva qualcosa, e ripartiva. Il clima era lì, impazzito, io cercavo di concentrarmi sugli zombie.
Gli zombie sono un piacevole diversivo quando pensi che se anche il problema dell’acqua potabile forse lo eviterai morendo in tempo, mentre questi qua che hai davanti probabilmente dovranno affrontarlo.
Allora: Vic & Blood per me è stato difficilissimo da leggere. Perché c’è uno stupro. Muore moltissima gente, ma a me importava solo che sopravvivesse il cane telepatico.
D’altra parte, la convenzione letteraria della sopravvivenza del più forte nel mondo post nucleare è talmente consolidata in una lettrice di fantascienza da non darmi nessun fastidio. Nelle rom-com si dicono frasi come «romperò il muro del suono per raggiungerti» (aw, Red White and Royal Blue! Cuori all’infinito), nell’universo post nucleare si mangia cibo in scatola scaduto, o l’occasionale topo, e chi ha le armi le usa per difendersi o per accaparrarsi cose miserabili tra le rovine. Sono convenzioni. Il cane telepatico, Blood, era l’unico a cui tenevo, era sensato, mai inutilmente aggressivo, più amico che fedele, capace di valutazioni a lungo termine e molto realista. Vic era un ragazzino coglione, come fargliene una colpa, ma quando violenta la ragazza io ho pensato NOPE. La cosa peggiore non è stato tanto lo stupro, quanto il fatto che lei dice No, no e poi le piace. Ovvio, a chi non piace il cazzo?
L’idea di un mondo di maschi giovani che vogliono scopare e devono farlo tra di loro, presi malissimo – anche se ci sarà un 10% contento, no? – e in cui lo stupro è parte dello stile di vita, è coerente con l’ambientazione. Il cannibalismo – sì, c’è, e è forse il momento più rom-com della storia, perché un ragazzo ama il suo cane – non è un problema, perché anche quello è coerente con l’ambientazione. E potrebbe anche esserci una ragazza che non vuole ma poi vuole. Il problema è che questo trope io l’ho visto rappresentato un miliardo di volte. Ho conosciuto ragazzi che credevano che vis grata puellae fosse una cosa reale. E questa fantasia maschile nel 2024 mi dà la nausea, fisicamente.
(Se devo spiegare a un uomo che sta leggendo che quello che scrivo non riguarda lui mi rannicchio e urlo, giuro).
Vic & Blood è ancora bellissimo. Il verde, l’arancio. Sono felice di averlo letto. La città sotterranea di Topeka fa ridere ma fa anche venire i brividi e alla fine preferisci vivere nel deserto nucleare. Che ci sia un cattivo che si chiama Fellini è esilarante, e anche che nella Topeka underground ci siano ragazze che continuano ad avere nomi da Kansas come Quilla June. Vic davvero non sa cos’è l’amore? Forse sì, ma non è come te lo aspetti.
Clementine di Tillie Walden, invece, è pieno di ragazze. Clementine ha perso un piede e deve costruirsi protesi con quello che trova. L’unico maschio è dolcissimo, ha un cappello amish e conserverà la sua innocenza fino al momento giusto. Quasi tutti i maschi del mio gruppo di lettura lo hanno identificato come il loro personaggio preferito. Un paio hanno scelto l’uomo che salva Clementine e Ricca dagli zombi rallentati dal congelamento, quello che parla di come la fine del mondo conosciuto dalla sua generazione lo abbia sorpreso mentre tornava con il marito dal viaggio di nozze, felice, felice come sono io quando non penso che succederà qualcosa, tipo l’acqua che finisce (ci penso). Quasi nessuno, nessuna, ha scelto Clementine, o Ricca. Io ho scelto la gemella che voleva scappare. Le ragazze e il ragazzo di Clementine sono tutti nati quando già il mondo era percorso da orde di walker, di non morti lentissimi che a me fanno molta più paura di quelli velocissimi da videogioco, perché, uncanny valley, amici. Cercano di divorarti trascinati da una fame insensata e insaziabile (io la provo durante gli attacchi d’ansia quando finisco sul sito di Amazon) perché un virus impedisce all’ultima briciola dei loro cervelli di spegnersi.
In questo libro il disegno di Walden, a differenza di quello che ho visto negli altri suoi lavori, è un bianco e nero che ti sommerge. Alcuni studenti hanno amato il fumetto, altri no. In molti hanno criticato il bianco e nero – noioso – o la scarsa emotività dei protagonisti – anche se ci sono persone che si innamorano, e alla fine c’è il cielo e un po’ di fragilissima e temporanea, felicità. Io per demografica appartengo ai lettori di Corben, per età emotiva sono fan di Walden, e ho amato la sua storia piena di morti stupide e in un certo senso inevitabili – anche quelle per mano dei viventi.
Ho amato queste persone giovani che danno per scontato che non ci sia più il mondo come lo conosco io ma che, anche se sono votate alla sopravvivenza, e anche alla solitudine, mantengono una delicatezza che mi fa sperare nella morte per sfinimento della cultura patriarcale. Se gli zombie sono l’unico modo per sbriciolarla: pensiamoci. C’è stato un periodo in cui non facevo altro che sognarli (e ne ho ucciso uno piantandogli una matita nella tempia. Una matita! Non so neanche disegnare, ma forse ho pensato che quello che scrivi, anche se non è indelebile, è ok comunque).
Questo libro esce dalla matita (per modo di dire, che boomer) di una ragazza nata nel 1996, che ha sposato una donna e ne parla con gli occhi che brillano – ho avuto la grandissima fortuna di conoscerla on line durante una conversazione organizzata da Saldapress – e assomiglia ai ragazzi e alle ragazze delle classi che incontro da dodici anni. Sicuramente ci sono le baby gang, e i ragazzini omofobi, e quelli che entrano nei gruppi di naziskin, ma ci sono anche questi che danno per scontate un sacco di cose che io pensavo, alla loro età, che fossero fantascienza. Quella bella, dell’umanesimo di Vonnegut e Bradbury e Le Guin.
Alla fine del primo giro di commenti, tantissimi (erano in ventiquattro) c’era un ragazzo. Magro. Silenzioso. Tutti a un certo punto hanno chiacchierato con qualcuno, si sono passati dei fumetti, hanno riso, bisbigliato, e io ho fatto le cose che faccio, li ho chiamati, ho scherzato, battuto le mani, schioccato le dita, l’arsenale dei modi amichevoli per dire zitti cazzo che c’è un’altra che sta parlando. Lui non ha mai interagito con nessuno. Se ne è stato seduto, un po’ gobbo, in un corpo che ancora gli sta facendo lo sgambetto, e io avrei potuto aspettarmi tre parole immusonite, ma orami lo so che c’è sempre spazio per l’incantamento nel tempo che passo con loro, quindi quando ha aperto la bocca ho fatto le cose che ormai il mio corpo fa in automatico per sintonizzarsi. L’ho guardato negli occhi. Mi sono sporta in avanti. Non ho mai parlato ma ho lasciato che la mia testa e le mie spalle dicessero sì, no, è vero, continua, non fermarti.
A lui Clementine era piaciuto. Tantissimo. Ha aperto la bocca e per quattro o cinque minuti non si è più fermato. Parlava serio, quasi arrabbiato. Risoluto. Guardava avanti, a volte me. Ha detto tantissime cose ma io ero ipnotizzata da quello che stava succedendo e non posso fare altro che riassumerle. Ha detto che era logico che il mondo fosse in bianco e nero, perché il mondo dell’apocalisse è così. Che le emozioni erano contenute perché quando sai che la persona che hai accanto può morire in qualsiasi momento non puoi permetterti di avvicinarti troppo e poi essere distrutto dal dolore. Non so, parlava con una competenza terribile. E io – Rorschach – ho pensato che certo: lui in quel mondo ci viveva già. E sono risuonata come un diapason. Ho anche pianto per una frazione di secondo, senza farmi vedere.
Ho immaginato che avesse camminato nella neve con Clementine. Che avesse attraversato il bianco e nero, e i bordi frastagliati e aguzzi delle vignette. Con quel suo corpo ancora spigoloso e indefinito, tutto ossa e occhi seri e labbra serrate.
Il secondo giro è stato velocissimo. «È l’apocalisse zombie. La vostra famiglia è in salvo, dovete mettervi in viaggio per raggiungerla. Potete portarvi una persona e un oggetto. Chi e cosa scegliete?»
Moltissimi si sono portati uno strumento musicale! Saranno molto ricercati, una volta che si creeranno le comunità fortificate, bravi. Uno ho preso un pallone. Un’altra un libro – quale? Impazzirei. Comica finale di Kurt Vonnegut? Il buio oltre la siepe di Harper Lee? La gioia di scrivere. Tutte le poesie di Wislawa Szymborska? Spero di non dover scegliere mai…
Gli oggetti sfilavano. Un coltellino svizzero. Una macchina fotografica. Un quaderno. Armi. Coltelli, soprattutto. Ho raccontato del ragazzo giapponese che per scappare dal palazzo invaso dagli zombi in quel capolavoro che è World War Z di Max Brooks si cala al piano di sotto e trova una katana.
Quasi tutti hanno portato con sé un amico. Due o tre hanno detto che si sarebbero uniti a qualcuno incontrato in cammino.
Sono arrivata ad Apocalypse Dude. Ha detto:
«Il mio cane e un coltello.»
«Il tuo cane è già in salvo, con la tua famiglia.»
«Allora, solo un coltello.»
Vive in un condominio affollato e rumoroso. Le sue coinquiline e i suoi coinquilini hanno fatto di tutto nella vita: bibliotecarie, animatrici culturali, speaker alla radio, cantanti, mogli, mariti, amanti, complici… Ora ascolta tutte e tutti e sembra abbia visto, letto e goduto di ogni cosa. Me lei sa che quell’obiettivo non è stato ancora raggiunto e che si trova alla deriva in un punto indeterminato del processo.