Non vedo Chiara da mesi. Ci siamo sentiti al telefono, ma non così spesso come ti aspetteresti facciano un padre e una figlia con un rapporto sano, se abitano in due città e in due paesi diversi. Siamo fatti così. Ci sentiamo solo per le cose molto importanti (una serie bellissima, un podcast irrinunciabile, un gruppo che dovremmo proprio ascoltare…) e ci basta sapere che stiamo bene.
Dall’ultima volta che ci siamo incontrati, sono successe due cose importanti: lei si è laureata e ha deciso di iniziare un dottorato di ricerca e a me è stata certificata l’irreversibilità della condizione di ipovedente medio-grave.
È arrivata ieri, Chiara. Ha dormito una quindicina di ore per ripigliarsi dai festeggiamenti dopo la discussione della tesi e oggi usciamo a pranzo. Mi guarda, si concentra sulle mie bellissime sneaker rosse. Ne sono molto orgoglioso: una nota di colore in un abbigliamento sempre così austero che oscilla tra grigio e blu. Siamo ancora lontani e, con la mia vista balenga, riesco appena a intuirne il sorriso. «Avevi paura di non trovarti i piedi?», dice indicando le mie scarpe scarlatte.
Ci abbracciamo fortissimo, ridendo. Appena riusciamo a smettere di insultarci, andiamo a sfondarci di sushi così così. All you can it.
Ho davvero paura di non trovarmi i piedi. Tagliarsi le unghie è un’impresa. Se mentre affetto verdure, mi cade un pezzo di zucchina sul pavimento, ritrovarlo su quella superficie annebbiata può richiedere molto tempo. Leggere su carta è quasi impossibile. Guardare le figure richiede una dedizione speciale.
“Illeggibile”, per me, una volta, era un insulto, Un epiteto carico unicamente di connotazioni negative. È stato Alessandro Lise, suggerendo il tema di questo mese di (Quasi), a dire che, alla fine, tutto il fumetto che piace a lui è così: illeggibile. Ho percepito una punta di snobismo: mi è parso quasi che volesse sottolineare quanto la vera bellezza sia destinata ai pochi (addirittura pochissimi) che hanno le chiavi per decodificarla, squarciare il velo di Maya e toccare un nucleo di brillante verità. Perché, diciamocelo, l’essenziale è illeggibile agli occhi. Più probabilmente, Alessandro, sempre così poco autoindulgente, stava solo cercando un modo nuovo per dileggiarsi.
Quando ho iniziato a interrogarmi sul tema del mese, muovendomi nel torpore della nube depressiva che mi avvolge in questi giorni così vicini alla acquisita consapevolezza della catastrofe, continuavo a pensare a storie che non si potessero leggere per i motivi più disparati. Fumetti senza parole e silent book, fumetti in cui i personaggi parlassero codici o lingue inventate, esperimenti di narrazione sequenziale non figurativa indistinguibili dalla carta da parati…
Poi, siccome quando cerchi di guadagnare la superficie, agitandoti in una tristezza così viscosa, la rabbia è sempre a portata di mano, mi sono lanciato in invettive contro romanzi e romanzieri. A un certo punto mi sarebbe piaciuto scagliarmi contro la stronzaggine di un anziano inglese che ha smesso di fare fumetti perché ha trovato una forma narrativa ancora più putrescente, il romanzo. E, allora, volgare e borioso com’è, infittisce centinaia di pagine con una storia che, per essere letta e compresa, richiede un ricchissimo apparato critico e persone disposte a dedicare sforzi immani alla parafrasi del testo. Un ometto piccolo piccolo odioso che estroflette un’erudizione enciclopedica devastante per non raccontare nulla, godendo della presenza di interpreti in vita. Avevo pure trovato titoli bellissimi: dovevo scegliere tra “Senza cultura: il regno dell’idiota sapiente” e “La morte dell’autore e il fraintendimento delle metafore”.
«Ma piantala!», mi sono detto, «Adesso lo sai cosa è illeggibile. L’illeggibile non si vede, tende a diventare invisibile. Parla di quello.»
Se non ricordo male, tutti gli albi Marvel usciti nell’ottobre 1983 – quelli che, per facilitare le rese e la vita di commercianti e distributori, riportano in copertina la data gennaio 1984 – sono stati lasciati in gestione al vicesupervisore della testata. Un progetto delirante di Jim Shooter, noto come “Assistant Editor Month”.
Approfittando dell’opportunità, John Byrne ha usato un trucco divertentissimo sulla sua testata “Alpha Flight”. Nel sesto numero della collana ha pubblicato la storia Snowblind, che racconta uno scontro tra creature bianche, magiche e mostruose, nella neve. Per fartela breve, in quell’albo ci sono cinque o sei pagine con le vignette chiaramente tracciate, balloon e didascalie ridondanti come al solito e un bel po’ di onomatopee. Laddove ti aspetteresti del disegno, non c’è niente. Distese di bianco a dire uno scontro epocale e violentissimo.
Cosa rimane di quella storia? Il quattrino regolarmente guadagnato da Byrne con poca fatica, un po’ di sorpresa, un grido ammirato per la cialtroneria geniale e un aneddoto da raccontare per riempire un articolo di (Quasi). Nient’altro.
Passano esattamente quarantun anni ed esce, per Orecchio Acerbo, Bianca come la neve di Fabian Negrin.
È una notizia che mi emoziona, perché sembra chiudere un cerchio, uno di quegli strani anelli per ammirare i quali (Quasi) è nata. Negrin è un illustratore straordinario che, a un certo punto, a scoperto di essere un narratore. All’inizio del terzo millennio (e quindi ormai un quarto di secolo fa) ha iniziato a scrivere e disegnare i suoi libri, diventando il primo autore pubblicato e poi l’autore simbolo di Orecchio Acerbo, una casa editrice di progetto, voluta e diretta da Fausta Orecchio.
Per anni Negrin, pubblicando libri per quel marchio, ha perseguito l’invisibilità. Per evitare la noia, ha sperimentato con tecniche, strumenti e materiali, cambiandoli spessissimo, sperando di diventare un disegnatore irriconoscibile a ogni libro. Un disegnatore diverso per ciascuno dei suoi libri: il più adatto, l’unico che avrebbe potuto disegnarlo.
Ha giocato molto, in casa Orecchio Acerbo, con gli strumenti e con le tecniche, certo, ma anche con le storie, con le fiabe e con i classici. Poi ha deciso di diventare un classico a sua volta. Ha preso la mira con determinazione e ha cercato di diventare uno dei giganti dell’illustrazione figurativista.
Si è allontanato da Orecchio Acerbo e ha disegnato tanti altri libri, tutti meritevoli di attenzione.
Presso Donzelli, si è dedicato ai fratelli Grimm, a Hans Christian Andersen e a Giuseppe Pitré.
Poi, quasi a chiusura di un anello, ha progettato un nuovo libro per Orecchio Acerbo. Fino a quel momento, per quella casa editrice, aveva riletto e ribaltato Cappuccetto Rosso (con In bocca al lupo, nel 2003), Pinocchio (con Occhiopin, nel 2006) e Le mille e una notte (con Mille giorni e una notte, nel 2008). Adesso è la volta di Biancaneve.
Fabian Negrin è un autore di cultura vastissima: sembra aver visto tutto, conosce tutto, sintetizza tutti i segni nel suo. Chiacchierare con lui equivale a fare una cavalcata a rotta di collo nella storia dell’immagine.
Con Bianca come la neve, torna a giocare.
La nota, in quarta di copertina, recita: «E se Biancaneve fosse veramente bianca come la neve? E se fosse nata in mezzo ai ghiacci e col potere di diventare invisibile? E se aggiungessimo un pizzico della Bella Addormentata, un granello dei Cigni Selvatici, forse un chicco del Piccolo Principe?»
Abbiamo visto Ferro 3 di Kim Ki-duk e sappiamo che quando l’invisibilità è solo un trucco, nella migliore delle ipotesi, rimangono qualche quattrino guadagnato con poca fatica, un po’ di sorpresa, l’ammirazione per la cialtroneria e un aneddoto da raccontare.
Quando l’invisibilità è il frutto di ricerca continua, determinata, contro la noia, i vincoli, i limiti, addirittura la natura si arriva a ribaltare la frase più citata del libro che si è più amato.
Per molti anni Negrin, parlando di bellezza, ha citato Il piccolo principe. Ora, in epigrafe al libro, inventandosi una citazione, ribalta la frase dell’odiosa volpe e il senso del romanzo di Antoine de Saint-Exupéry: «L’invisibile è essenziale agli occhi».
Grazie Negrin, ancora una volta, per avermi ricordato che non è vero che si vede col cuore. Che dobbiamo sforzarci, più che possiamo, usando tutto quello che abbiamo, mettendo in gioco tutto quello che siamo, per vedere l’invisibile.
Vado a infilarmi le scarpe rosse: ho ancora bisogno di trovarmi i piedi.
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).