The Great When – L’apparente fine della storia

Omar Martini | Leggere Long London |

IMMAGINE “1. Civil Defence”>

In cui l’incauto scrivano continua a essere perplesso perché non riesce a inquadrare l’apparente sovvertimento della struttura a tre atti e non comprende se per caso sia lui a non essere in sintonia con la storia che sta leggendo oppure il progetto dell’autore è molto più sottile di quello che possa apparentemente sembrare.


Behold Him, Gemmed with Larcenies” / “Ammiralo, splendente per le ruberie”

La settimana scorsa ci siamo interrotti nel momento in cui Dennis, Ironfoot Jack, Jack “Spot” Comer e Solly Kankus sono in attesa dell’arrivo del rappresentante del crimine di Long London, Harry Lud (potete rinfrescare i dettagli qui). Nell’oscurità e nella nebbia che li circonda, uno spazio in mezzo a loro si modifica creando un varco da cui appare prima una mano, e poi tutto il corpo di Gog Blincoe. Mentre i due criminali iniziano a spaventarsi per quello a cui stanno assistendo, fa la sua comparsa Harry Lud: ha un aspetto terrificante. Proviene dall’altra realtà, e la sua fisionomia non appare stabile ma cambia in continuazione: la testa è enorme, composta da elementi diversi (per esempio, sul cappello ha una pellicola di un film pornografico) e anche il resto del corpo è composto da diverse “cose”: corpi torturati, mani con pistole, scarpe, lettere anonime, banconote, polaroid compromettenti, richieste di riscatto che ne compongono il cappotto, e così via. Si rivolge alle persone presenti cercando l’umano che desiderava parlare con lui.

La cosa interessante di questa sezione è che Alan Moore realizza, oltre a nominarla e descriverla, una vera e propria interpenetrazione narrativa (la “pericoresi” già citata in precedenza): poiché siamo di fronte a personaggi che fanno parte di entrambe le realtà, a seconda del punto di vista di chi sta parlando e della sua prospettiva, i paragrafi si alternano tra il corsivo della Long London e il carattere rotondo della Short London. Anche lo stile della prosa si adatta a questo continuo cambio grafico: tradizionale quando si tratta dei personaggi reali, mentre ritmata, con i paragrafi che continuano ad apparire già iniziati (senza lettere maiuscole) e mai finiti (non è presente il punto fermo finale) quando abbiamo la descrizione e il punto di vista di Harry Lud. Questo cambio costante, oltre a creare un ritmo piuttosto interessante, non permette mai al lettore di rilassarsi, subendo il medesimo bombardamento sensoriale dei personaggi stessi.

Blincoe esorta Jack Comer ad avvicinarsi e a parlare con Harry Lud, come aveva richiesto, ma l’uomo è paralizzato dalla paura per l’apparizione del criminale di Long London (il suo scagnozzo, Kankus, è a terra, in posizione fetale perché non riesce a reggere la situazione). Alla fine, dopo aver emesso qualche parola che ha poco senso, chiede a Lud di sistemare il rapporto che si era guastato con il suo capo Billy Hill. Lud rivela che non si può cambiare nulla: non riuscirà a ricucire la situazione con il boss, che in futuro lo farà picchiare, e morirà tra trent’anni. Dopodiché, se ne va e Blincoe lo segue, chiudendo il varco che aveva originariamente aperto. Ironfoot dice ai due criminali che se ne possono andare e poi si allontana con Dennis. Gli fa i complimenti per come si è comportato in quella situazione e lo informa che la settimana successiva Austin Osman Spare inaugurerà una mostra e al mago-pittore farebbe piacere che il ragazzo venisse. Poi si separano e il ragazzo si dirige verso l’appartamento di Grace.

La trova ancora alzata e le racconta sinteticamente com’è andata la serata: ora è tutto finito, non dovrebbero più avere dei guai, per cui la mattina successiva potrà tornare alla sua vecchia casa. Ci rimane un po’ male perché lei non dice nulla per cercare di fermarlo: per continuare la conversazione, le chiede se ha letto il libro di Arthur Machen: l’ha finito da mezz’ora e le è piaciuto, soprattutto il racconto “N”. Poi gli dice che, in fin dei conti, è una persona interessante e lui trova il coraggio di invitarla alla mostra di Spare: lei accetta di buon grado. Chiacchierano ancora un po’, poi lui le restituisce la chiave dell’appartamento e vanno a dormire.

Quando Dennis si sveglia la mattina dopo, trova Grace ancora lì e fanno colazione assieme. Poi escono assieme e si separano: il saluto è un po’ goffo e, invece di baciarla, le dà la mano. Il ragazzo si dirige verso la libreria di Ada e incontra per caso Clive. È stupito di trovarlo in quella zona e il suo aspetto non è impeccabile come al solito. Dennis ha l’impressione che ci sia qualcosa di strano ma poi, siccome Clive afferma che, dopo l’incontro del giorno prima e il racconto dell’appuntamento che avrebbe dovuto avere, era venuto da quelle parti perché voleva vedere come stava, ne rimane colpito. Dennis conferma che è andato tutto abbastanza bene e che non deve più temere nulla da parte di Spot Comer. Siccome Dennis non ha molta voglia di tornare subito in libreria, gli chiede se vuole andare a bere qualcosa, ma Clive declina perché ha del lavoro da sbrigare e propone di trovarsi una diecina di giorni dopo. Dennis ci rimane un po’ male, anche perché voleva trovare una scusa per ritardare il ritorno alla libreria, e si separano.

Arrivato al negozio, Dennis entra e Ada rimane sconvolta nel vederlo. All’inizio pensa che il ragazzo non abbia portato a termine il suo compito, ma lui l’assicura del contrario. La donna allora chiude il negozio, perché è troppo emozionata e lo conduce nella cucina del retro dove prepara del tè. Il giovane le consegna il libro di Machen autografato da John Gawsworth e lei rivela di averlo conosciuto, assieme a M. P. Shiel. Poi inizia a raccontarle quello che gli era successo, ma lei lo interrompe dicendo che non vuole sapere i dettagli, bensì solo il senso generale. Alla fine la donna appare convinta che la situazione si sia effettivamente risolta. Quindi gli propone che se lui lavorerà nel pomeriggio in negozio, lei rimetterà le lenzuola sul materasso (in quei quattro giorni in cui Dennis non c’era, aveva venduto la struttura del letto del ragazzo) e comprerà del pesce per la cena. Poi la donna si ricorda che il suo amico John era passato a cercarlo e aveva lasciato un messaggio: se era ancora vivo, gli dava appuntamento per il lunedì sera al Ye Olde Cheshire Cheese, un pub molto famoso e da sempre frequentato da scrittori del calibro di Samuel Johnson, W. B. Yeats e P. G. Wodehouse.

Mentre si reca al pub, passa accanto al lampione dove aveva incontrato Grace per la prima volta, ed è sollevato che non sia lì a lavorare. Quando incontra l’amico, quest’ultimo è sollevato nel vederlo ancora vivo, anche se Dennis continua a rimanere perplesso dal fatto che tutte le persone che incontra pensavano che fosse morto a causa delle situazioni difficili che doveva affrontare. John stabilisce un nome in codice per indicare l’altra Londra, in modo che eventuali orecchie indiscrete non capiscano di che cosa stanno parlando, e si fa raccontare quello che era accaduto. Poi, come era avvenuto durante un precedente incontro con Clive, si mettono a parlare del crescente aumento della criminalità ma, soprattutto, degli omicidi. John è convinto che è difficile trovare una ragione perché ora vivono in un mondo complesso, dove esistono più cause che si incrociano l’una con l’altra; in più, ritiene che il dilagare degli omicidi sia in parte dovuto a quello che la popolazione aveva dovuto subire durante la guerra, con i continui e costanti bombardamenti. Crede che le morti violente non potranno fare altro che aumentare ed è cosciente che ci sono degli omicidi seriali di cui i giornali forniscono molte notizie, ma quello che più lo spaventa è il numero di omicidi che non arrivano sui giornali oppure durano lo spazio di un giorno nelle ultime pagine, senza suscitare il minimo interesse. Al momento, sta facendo delle ricerche su un omicidio irrisolto di tre anni prima in cui un reduce era stato ucciso in macchina mentre era in un boschetto con la fidanzata. Quando però nomina il nome della vittima (Kenneth Dolden), Dennis ricorda di avere letto quel nome nell’agendina di Clive qualche giorno prima. Uno strano sentimento lo assale, soprattutto alla luce di quello che gli è successo negli ultimi giorni, per cui chiede se può verificare altri tre nomi, che ricorda di avere letto, ma che all’inizio aveva attribuito alla denominazione di una società (Green, Dorland & Lockhart). Prima di salutarsi, invita il giornalista alla mostra di Spare tre giorni dopo e poi si separano. Dennis torna a casa pensando che tra qualche giorno rivedrà Grace e si addormenta un po’ a fatica.

I sei giorni sono passati in un lampo ed è arrivata la sera dell’incontro con Clive. Dennis riconosce la zona dove si trova il pub, ma il nome del locale gli sembra diverso, rispetto a quello che si ricordava. È l’unico e, avendo caratteristiche simili a quello dove si incontravano solitamente, pensa che sia quello corretto. Prima di varcare la porta nota due uomini dall’altro lato della strada: riconosce “Spot” Comer che sta aiutando Kankus a rialzarsi. I due lo vedono e diventano ancora più spaventati di quanto fossero prima. Entra e vede il proprietario. All’inizio pensa sia la stessa persona del caffè dove si vedeva sempre con Clive, ma poi nota che assomiglia a Harrison. L’uomo lo saluta chiamandolo con il nome dell’arcinemico di Fu Manchu (Denis Nayland-Smith) e lo conduce al tavolo dell’amico. Dennis è contento di rivedere il libraio e ha dei ricordi diversi rispetto a quello che abbiamo letto in precedenza (sa che aveva chiuso la libreria, ma non ricorda il motivo). Clive sta leggendo un giornale, vicino a un tavolo dove sono sedute delle segretarie. Una delle ragazze lo guarda con disappunto e riconosce Grace. Dennis si rende conto che se è il lunedì dell’appuntamento con l’amico, allora ha completamente dimenticato la mostra di Spare. La ragazza gli sussurra qualcosa e poi lui si guarda meglio attorno. Vede dei sacchi di iuta sul tavolo e quello che aveva scambiato per un elegante completo nero indossato da Clive, si rivela invece essere una membrana, da cui escono secrezioni di latte. Poi nota che le mani hanno delle lame sulle dita e quando chiama l’amico gli risponde un rumore metallico, lo stesso che aveva caratterizzato la creatura a cui era stato dedicato una scena del prologo, l’unica che non aveva avuto ancora un collegamento all’interno del romanzo.

Dennis si risveglia di soprassalto, dubbioso sul perché si senta spaventato.

Anche se mancano circa 80 pagine (cioè due capitoli e un epilogo), posso iniziare a fare qualche valutazione… e chissà che non venga smentito nelle prossime settimane per essere stato troppo precipitoso nei miei giudizi… questo è il pericolo (ma anche il bello) di leggere in diretta e parlare “ad alta voce” senza avere il tempo di riflettere, ma magari rivedendo le proprie posizioni, alla luce dei nuovi elementi che possono saltare fuori. Sono fondamentalmente due gli aspetti che mi sento di mettere in evidenza questa settimana.

Il primo è quello degli omicidi seriali che, dopo essere stato affrontato durante l’incontro con l’amico Clive e che avevo considerato, al pari delle citazioni di Jack lo Squartatore, un riferimento alla propria opera precedente; con la nuova discussione tra Dennis e John e alla luce di quello che sembra sottintendere (spoiler: i tre nomi che Dennis chiede a John di verificare sono i nomi delle vittime di omicidi a tutt’oggi irrisolti), acquista un peso molto più importante di quello che sembrava potesse possedere all’inizio. Se Jack lo Squartatore in From Hell era una specie di levatrice del nuovo secolo e del nuovo mondo che si stava delineando, le considerazioni che vengono effettuate sul dilagare della violenza e della quasi impossibilità di leggere e interpretare un mondo sempre più complesso di cui non possediamo le chiavi, potrebbero essere analoghe: in questo caso, assassini casuali e di cui non si intravede una motivazione diventano gli agenti di un mondo nel caos le cui azioni sono impossibili da interpretare e spiegare. È un mondo nuovo scaturito dalle ceneri (in certi casi, letterali) di nazioni ancora segnate fisicamente dalla guerra finita da qualche anno. È stata un conflitto che la popolazione ha vissuto drammaticamente in prima persona, non più relegato ai campi di battaglia e alle trincee, ma esteso alle città e ai territori civili, che hanno vissuto in prima persona quella devastazione. La PTSD non è più qualcosa da collegare solo ai reduci, ma anche alle persone normali, sembra dire Moore, e il modo con cui alcuni di loro reagiscono è uccidendo, visto che per molti era stato l’azione quotidiana che erano stati costretti a effettuare. Il serial killer diventa la ferita invisibile, il trauma mentale che non si vede e che è difficile da identificare. È un assassino quasi banale, che agisce nell’anonimato e nell’invisibilità e che non viene, normalmente, toccato dalla celebrità. Una visione drammatica e senza speranza, soprattutto alla luce dei conflitti contemporanei sempre più in aumento.

L’altro aspetto su cui sto riflettendo da un po’ è la struttura del romanzo. Al di là delle considerazioni sulla prosa, sulla scelta di preferire raccontare quello che si dicono le persone piuttosto che mettere in scena i dialoghi, sulle citazioni nascoste o evidenti, sulla necessità (o costrizione?) di comprendere i numerosi riferimenti, quello che a un certo punto non mi convinceva era come si stava evolvendo la storia, nel senso che trovavo la traiettoria degli eventi eccessivamente lineare. Se riprendete la mia narrazione dei fatti che compongono la storia, noterete che non ci sono intoppi nel “cammino dell’eroe”, che dovrebbe essere Dennis. Infatti, semplificando (ma fino a un certo punto) il ragazzo trova il libro, gli viene detto di portarlo a Long London, lo riporta facendosi aiutare da Osman Spare, fa un accordo per un nuovo appuntamento per evitare che lui e Grace muoiano, avviene l’appuntamento e… fine. Tutto quello che viene normalmente raccontato nei libri o nei corsi di narratologia sembra mancare completamente. All’inizio ho pensato a un “decadimento” dello scrittore: dopo aver abbandonato i fumetti, vuole ricostruirsi una nuova carriera ma sbaglia clamorosamente i conti e realizza un libro non riuscito. Ecco, questo potrebbe essere vero ma, sperando di non fare troppo elucubrazioni e di non leggere più cose di quello che in realtà ci sono, è incominciata a ronzarmi in testa un’altra idea. E se tutto questo fosse una finta e lo scrittore ci stesse sviando? E se questo stile apparentemente piano, in certi momenti eccessivamente elementare, fosse un riferimento alle fiabe (mentre rileggevo il riassunto appena fatto il paragone mi sembra sempre più calzante) e alla loro capacità di far riverberare significati oltre all’apparente banalità degli avvenimenti che raccontano? Le capacità narrative di Moore continuano a esserci perché molte parti di questo libro, da un punto di vista formale, sono notevoli (il prologo, che continuo a trovare strabiliante, la prosa che usa quando ci trasporta nell’altro mondo), per cui non è che ci sta portando volontariamente su una strada “sbagliata”, come sembrerebbe avere fatto, almeno nella mia opinione, con il tema dei serial killer, mentre in realtà il suo obiettivo è un altro?

Ho notato che l’apparente fine della storia avviene a circa due terzi della lunghezza del libro, dove non ci sono apparenti ragioni per continuare la storia, al di là dei classici “semi” che ogni tanto vengono gettati per poter avere degli agganci per realizzare dei seguiti (dopo tutto, devono uscire altri quattro volumi), per cui l’autore sta forse allungando il brodo e scrivendo uno dei più lunghi epiloghi della storia della letteratura? O forse quella che a me pare una conclusione (la missione è completata e i due ragazzi si salvano dal pericolo) in realtà è il momento della crisi perché non abbiamo colto quale sia la vera situazione? E se Moore avesse giocato sui classici meccanismi della struttura e li avesse ribaltati completamente? Se avesse lavorato contemporaneamente su due livelli: utilizzare la classica struttura dei tre atti (1. Introduzione dei personaggi; 2. Scontro e lotta; 3. Risoluzione della crisi) per la stesura del romanzo, e basare la struttura dei cinque atti, utilizzata per convenzione da William Shakespeare (1. Impostazione del contesto; 2. Conflitto; 3. Climax; 4. Chiusura; 5. Conclusione) per la composizione del ciclo completo di Long London, composto appunto da cinque romanzi? E se questo ciclo non fosse in realtà che un unico romanzo, come fece John R. R. Tolkien con Il signore degli anelli, costretto a dividere la storia in più tomi per venire incontro all’editore che non se la sentiva di pubblicare direttamente l’opera in un unico volume? Un romanzo ancora più lungo di quello che era stato Jerusalem… e, potenzialmente, forse tra i più lunghi romanzi mai scritti? Considerato che in questa serie, come era avvenuto con Century della “Lega degli straordinari gentlemen”, ogni volume è ambientato in un anno diverso, allora questa ipotesi potrebbe non essere più così assurda. In quest’ottica certi apparenti “errori” acquistano una luce diversa: non sono “errori” di struttura perché stiamo prendendo in considerazione l’unità di misura “sbagliata” e quindi attribuiamo delle etichette errate.

Non ho idea se sto facendo dei ragionamenti campati in aria e se, in realtà, come spesso accade, la spiegazione è molto più semplice di quanto si fosse immaginato inizialmente. È possibile che riesca a intravedere qualcosa quando arriverò alla fine di questo romanzo (cioè, salvo intoppi natalizi, tra tre settimane) oppure dopo l’uscita di qualche libro, se non di tutti (in questo caso, stiamo parlando di anni). Quello che so è che quando ho iniziato a scrivere questo pezzo, qualche giorno fa, avevo già nella mia testa la considerazione “eretica” di ritenere questo libro un parziale insuccesso (solo forma estetica, ma niente sostanza), mentre adesso, riflettendoci, ho un po’ cambiato idea. Come dicevo all’inizio, è anche il bello di scrivere così: senza filtri, con il forte rischio di sbagliare ma anche con la possibilità, dovendo scrivere con tempi stretti, di lasciarsi guidare da improvvise e, spero, interessanti intuizioni.

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