Specchi di un’avventura

Boris Battaglia | Una pietra sopra |

Stabilire la data esatta è praticamente impossibile. Ma, con una buona dose di approssimazione, possiamo dire che sarà stato verso la fine dell’inverno 69/70 che Roy Thomas entra nell’ufficio di Stan Lee, al 365 di Madison Avenue (dove Marvel Publishing Inc. si era trasferita dal 1951) e gli dice a brutto muso: «Sono cinque anni che scrivo storie per i tuoi personaggi, adesso ne vorrei uno mio e ho pensato che mi piacerebbe ridurre a fumetti il Thongor di Lin Carter. Che ne dici?»

«Dico che sei matto. I diritti per i romanzi di Carter costano troppo. Guarda, leggiti ‘sta roba qui: è uguale, anzi… è lui che ha ispirato Thongor. Se ti va i diritti di questa robaccia li portiamo via per una manciata di dollari.» E gli butta lì una copia di un libro un po’ usurato di un certo Robert Ervin Howard.

Dalla metà degli anni Venti del secolo scorso, Howard era stato un prolifico autore di racconti horror e romanzi western, ma aveva raggiunto il successo pubblicando sulla rivista “Weird Tales” due cicli fantasy. Anzi, possiamo dire, inventandosi proprio un genere che avrà notevole e duratura fortuna: lo Sword and Sorcery.
Vissuto per tutta la sua breve esistenza a Cross Plains, un soffocante e gretto paese del Texas, angustiato dai coetanei che lo consideravano un tipo strano, e patologicamente legato alla madre Hester, Howard si dedicò al body-building e al pugilato per riuscire a fronteggiare i ragazzi che lo bullizzavano e per difendere la madre dalle violenze domestiche del padre. Riuscito in questo intento, diventato un colosso muscoloso che incuteva timore, cominciò a inventarsi mondi fantastici per fuggire alla avvilente e vuota vita della provincia americana.

Il successo come scrittore gli arrise subito e questo accrebbe l’incomprensione e il rifiuto dei suoi compaesani, che non capivano come riuscisse a guadagnare soldi senza uscire di casa per lavorare. L’odio di cui si sentiva bersaglio accrebbe i suoi problemi psicologici, portandolo a un isolamento totale e a un legame sempre più morboso con la madre. Legame che diventò esclusivo (allontanando definitivamente Novalyne Price Ellis, l’unica donna con cui avesse costruito un rapporto), al punto che l’11 giugno del 1936, dopo che sua madre era caduta in coma a seguito di una gravissima malattia, Howard si sparò in testa con una Colt 380. Aveva compiuto i 30 anni a gennaio.

Il giorno dopo anche sua madre, in fondo l’unica donna della sua vita, mori.

Dovranno passare altri trent’anni perché la sua opera venga riproposta al grande pubblico, quando nel 1966 L. Sprague de Camp raccoglie in un volume (pubblicato da Lancer Books) i primi racconti di Howard dedicati al più iconico (non è un caso che la copertina di quel volume sia realizzata da Frank Frazetta) dei suoi personaggi fantastici.
A metà degli anni Sessanta la Marvel cercava un editore esterno che si occupasse di confezionare, ricopertinando le rese dei suoi giornaletti, volumi antologici da distribuire nelle librerie di varia. Aveva trovato nella Lancer Books il partner perfetto per questa operazione. Ed è probabilmente per il fatto della loro collaborazione che Stan Lee aveva nel suo ufficio quel volume della Lancer che rifilò a Thomas quando andò a fargli quella richiesta. Non credo che lanciandolo sulla scrivania e proponendo a Thomas di tirarne fuori delle storie a fumetti, Stan Lee avesse la minima idea di quello che ne sarebbe seguito, ma qualche giorno dopo essersi letto i racconti howardiani raccolti in Conan The Adventurer, Thomas tornò da lui dicendogli: «Ok, lo faccio. Prendi i diritti e dammi un disegnatore.»

Glielo danno un disegnatore. Ma quello che reputano il più scasso di tutto il parco dei professionisti a libro paga in Marvel. Faccia la sua testata, Roy. Appena vede come andrà, torna sicuro a scrivere Iron Man.
Solo che Barry Windsor-Smith, consapevole del fatto che, se avesse continuato a disegnare come un clone di Kirby sarebbe rimasto una nullità, si è messo a studiare da autodidatta anatomia e a cercare un suo stile. Quando gli dicono: hai da disegnare queste storie di barbari e streghe, tutti nerboruti e mezzi nudi, capisce che è il momento di far vedere al mondo quello che sa fare. Quando il primo ottobre 1970 esce il numero 1 di “Conan the Barbarian” il segno di Windsor Smith è ancora kirbiano, ma declinato in una modalità che promette già future liberazioni dalla dittatura del Re, ed è un successo senza eguali. Il fumetto di Thomas e Windsor-Smith trasforma, nel giro dei pochi numeri di un comic book, un personaggio dimenticato, creato da un autore psicolabile, dalla sintassi mortalmente noiosa (siamo nel 1970, le storie di Howard hanno la prosa degli anni Trenta! e sono francamente illeggibili), in quello che diventerà un topos della narrazione per immagini (fumetto e cinema). Il Conan che abita prepotentemente il nostro immaginario non è quello descritto da Howard, ma quello scritto e disegnato da Thomas e Windsor-Smith e fissato, poi per sempre, nel nostro sguardo da John Buscema e Ernie Chan.

Però, quando ho cominciato questa tiritera, non è di Conan che volevo parlarti. La lunga premessa che hai letto fin qui, oltre a permettermi di arrivare al numero minimo di battute richieste dal pezzo, mi serviva per arrivare a raccontarti di un autore, Frank Thorne, che mi ha scombussolato la vita, e per un motivo che non è quello che può sembrare il più evidente. Ma per parlare di Thorne, dobbiamo prima incontrare Red Sonja.

Presa di peso da un noioso racconto di ambientazione medioevale di Howard e gettata, con intuizione geniale, nel mezzo dell’era hyboriana, Red Sonja fa la sua comparsa nel 1973, sul numero 23 di “Conan the Barbarian”, e vivrà la sua prima avventura (che sarà anche l’ultima prova di Windsor-Smith per Conan, prima di lasciare il testimone a Buscema), The song of Red Sonja, sul numero 24. Nello stesso anno di uscita, questa storia vincerà l’Academy of Comic Book Arts Award e garantirà alla sua protagonista una lunga vita a fumetti e tra il ’75 e il ’76 una miniserie che poi dal ’77 diventa una vera e propria testata. Escludendo il primo numero della miniserie, disegnato da un dimenticabile Dick Giordano, tutti gli altri numeri della testata portano, per i disegni, la firma di Frank Thorne.

Il segno di Thorne si discosta di netto dal sofisticato preraffaellitismo di Windsor-Smith (trovo incredibile la somiglianza tra la sua Red Sonja e la Persefone – in particolare l’ottava versione – di Dante Gabriel Rossetti) e ancor più dal neoclassicismo muscolare di Buscema, mostrandosi da subito come una sorta di personalissima stilizzazione del segno dell’Hal Foster di metà anni Quaranta, mischiata al Joe Kubert degli anni Sessanta, con l’effetto catalizzante dei francesi che arrivavano sulle pagine di “Haevy Metal”.

Piccolo inciso: io questo non lo so se è vero, ma a me i personaggi femminili di Thorne ricordano tantissimo quelli del primo Pichard; trovo una comunanza, che definirei ontologica, tra la sua Ghita e la Blanche Epiphanie o la Paulette del maestro francese. Ma non è questo cambio di stile grafico che, per come la vedo io, decreterà il successo di Red Sonja, quanto quella novità che, come ti dicevo, a me ha segnato parecchio. Gli occhi.

La rivoluzione di Thorne consiste in una insistita presenza degli occhi: l’uso che fa dello sguardo. No, non quello del lettore. In fondo non è tanto la costruzione della tavola, che funziona ma mantiene la gabbia tipica del comic book, quanto il fatto che la struttura di ogni sua storia è costruita attraverso il ritmo (quasi ogni battito di palpebra) dello sguardo di Red Sonja. I suoi occhi sono gli organi più rappresentati in ogni tavola – persino più delle tette strette nel bikini di metallo con cui proprio Thorne sostituisce la cotta di maglia che le aveva fatto indossare Windsor-Smith – e interpellano il lettore senza sosta. Non ho mai letto un fumetto in cui gli occhi siano così tanto mostrati e sottolineati. In cui tengano il tempo della lettura. Non ho alcun dubbio nel sostenere che fu proprio per merito di questo uso incondizionatamente erotico degli occhi che il personaggio trovò grande spazio sulla stampa periodica: le dedicarono infatti articoli da “News Week” a “Esquire”, da “Rolling Stone” a – a dimostrazione di quanto dicevo – “Playboy”. A questo punto Thorne si convince a usare la peculiarità di Red Sonja per creare un suo personaggio, e nel 1978 dà vita a Ghita di Alizarr, pubblicata sulla rivista “1984” della Warren Publishing. In poco tempo “1984”, proprio per la presenza di Ghita, divenne la testata più venduta della Warren.
Ancora più che con Red Sonja, al centro della struttura narrativa, specchi della sua avventura, per altro molto esile, ci sono gli occhi della protagonista, sottolineati da un mascara abbastanza improbabile ai tempi in cui la storia è ambientata, ma indispensabile a renderne l’evidenza.

Unico altro fumetto che mi viene in mente, nel quale gli occhi sono il fulcro di tutto (anche se con intenzioni diametralmente opposte, ma con simile ambientazione fantastica) è Gli occhi del gatto, di Moebius/Jodorowsky. Forse non a caso pubblicato proprio nel 1978.

Comunque sia. A occhi come quelli di Red Sonja o di Ghita non si può resistere. Perlomeno, io non ci riesco.

Howard era matto, e aveva identificato sé stesso con Conan. Non credo Thorne fosse meno matto: forse all’incontrario, e cercava di uniformare, da cosplayer che era, la realtà ai mondi che creava nei fumetti. Non si rappresenta nella storia di Ghita come il mago Thenef, è lui che nel tempo, stregato dagli occhi della sua eroina, tende a somigliargli sempre di più, fino a diventare Thenef e a vestirsi come Mago Merlino.
Il 7 marzo del 2021 Thorne è morto (di morte naturale e a 90 anni), ma accade questa cosa strana. Lo stesso giorno, a sei ore di distanza da lui, muore anche sua moglie Marylin. Erano stati un’unica entità. Come – lo so che non è così, ma mi piace crederlo – in fondo era capitato all’altra coppia (madre e figlio) il cui legame affettivo (per quanto patologico) era stato il motore per la creazione di quel mondo di cui, e in cui, Thorne e sua moglie avevano vissuto.

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