Capitolo quarto – CineKodak Special
Capitolo quarto di dodici. Dove ti racconto come Mario Monicelli arrivò a muovere i primi passi su un vero set cinematografico, e dove incontriamo per le salite del quartiere Castello di Genova, un personaggio fondamentale per lo sviluppo di questa storia.
“I film si dividono in due sole categorie. Quelli di cui il pubblico si chiede come finiranno, e quelli di cui lo stesso pubblico si chiede quando finiranno.”
Benito Mussolini
Ovviamente chi, per questioni anagrafiche, quei 365 giorni li stava vivendo, come chiunque viva nel tempo che gli è proprio, non poteva averne una percezione storica e retrospettiva. Sono cose che si sanno sempre dopo, ma il 1933 fu un anno cruciale per la storia del XX secolo. Quasi tutto quello che accadde nei dodici anni successivi al gennaio del 1933, quando l’ultraottuagenario presidente della Repubblica di Waimar, Paul Von Hindenburg nominò Adolf Hitler cancelliere, dipese da quell’evento.
I vecchi sono brutta gente, fanno sempre le cose sbagliate – alle volte con conseguenze nefaste – perché guardano alla loro realtà con l’ottica del passato e non hanno, per questioni biologiche, la minima percezione di come quella realtà influirà sul futuro.
Comunque, al di là del mio disprezzo per i vecchi – nei quali mi includo – , nel 1933 sono successe anche un sacco di altre cose importanti.
Franklin Delano Roosvelt diventa il 32° presidente degli Stati Uniti e comincia il lento lavoro per portare il paese fuori dalla depressione; a marzo il neonominato cancelliere tedesco Adolf Hitler ottiene dal parlamento i pieni poteri; a giugno Primo Carnera conquista il titolo mondiale dei pesi massimi mandando KO Jack Sharkley alla sesta ripresa; a novembre esce nelle sale americane Duck Soup, il capolavoro di Leo McCarey (se il suo nome non ti dice niente, sappi che fu l’uomo che inventò la coppia comica più famosa del mondo: Stanlio e Ollio e che un giorno gli dedicherò un saggio) e dei Fratelli Marx, film che con più di un lustro di anticipo, racconta il disastro che succederà in Europa.
La cosa importante per la storia che ti sto raccontando, accade in aprile, quando la Eastman Kodak Company mette sul mercato una nuova e rivoluzionaria cinepresa a passo ridotto: la Cine-Kodak Special 16 mm.
Rivoluzionaria perché, montando un classico obiettivo a torretta a due posizioni, ha però una particolarità: le ottiche sono intercambiabili grazie a un innesto dedicato. Chi la usa può così variare l’angolo di campo nella stessa inquadratura, semplicemente sostituendo l’ottica. Le ottiche in dotazione sono un 15mm f/2,8 e un 25mm f/1,9, obiettivi decisamente luminosi, che permettono una buona resa anche in condizioni critiche di illuminazione.
Cesare Civita era il fortunato possessore di una di queste meraviglie, comprata proprio alla sua uscita durante uno dei suoi viaggi in America. La usava, a suo dire, per esperimenti di microcinematografia, girando brevi documentari sugli insetti e sul mondo naturale.
Il 1933 è anche l’anno in cui arriva a Milano la famiglia Monicelli. Nelle sue peregrinazioni da giornalista, Tomaso aveva portato la famiglia con sé, via da Ostiglia. Prima a Roma, dove era stato chiamato dall’amico Giuseppe Bottai a dirigere “L’idea nazionale” e “Il Giornale di Roma”; poi a Bologna per dirigere ”Il Resto del Carlino”. Con il delitto Matteotti, la fiducia di Tomaso nel fascismo si appanna (entrerà definitivamente in crisi con le leggi razziali) al punto da fargli scrivere sul “Carlino” una serie di articoli dai toni fortemente critici verso Mussolini. Gli costerà caro. La caduta in disgrazia e la cacciata dalla direzione del quotidiano bolognese.
Emarginato e osteggiato dal regime, Tomaso porta la famiglia a Viareggio, dove trascorrono anni di ristrettezze economiche tra sporadiche collaborazioni editoriali e traduzioni. Finalmente, nel ’33, grazie all’interessamento dell’amico Bottai, Tomaso trova lavoro presso la casa editrice Rizzoli. Quindi nuovo trasferimento per tutta la famiglia, questa volta a Milano. In via Eustachi, a qualche centinaio di metri da Piazza Eleonora Duse. Probabile che questa nuova residenza gli sia stata trovata dal cognato Arnoldo. Saranno 13 anni di frustrazioni, di sopravvivenza garantita dai legami parentali e dall’amicizia con Bottai. Cose che provano. Quando, nel 1945 gli sarà negato il titolo di direttore del ricostituito Ordine dei giornalisti per il voto contrario di quel mediocre scrittore e personaggio di Curzio Malaparte, Tomaso cadrà in una profonda depressione, che il 25 maggio del 1946 lo porterà al suicidio. Sarà proprio Mario a trovarlo dopo che si è sparato in testa. Cose che segnano e che ti porti addosso per tutta la vita. Che di quella vita ti danno una visione precisa che poi trascorrerai la tua a condividerla con tutti i tuoi spettatori.
Ma calma. Siamo ancora nel 1933. Appena trasferito a Milano, Mario frequenta l’ultimo anno del liceo classico Berchet, insieme a suo cugino Alberto. Studiava un cazzo (dovrà cambiare liceo) ma se la godeva un sacco, come tutti quei giovani studenti borghesi sfaccendati. Lo ammette lui stesso, in quel bellissimo libro intervista che è La commedia umana: a Milano faceva un freddo cane, nebbioni e nevicate che non aveva mai visto, oltretutto case e locali non avevano riscaldamento, ma quegli anni milanesi furono i più belli della sua vita.
Ti ho già detto che Civita era molto amico di Alberto Mondadori e condivideva con lui una forte passione per il cinema. Passione che coltivavano quasi tutte le sere a vedersi un film, accompagnati da Mina Consolo, che da tre anni era sua moglie, e dagli altri due amici fraterni, Mario Monicelli e Alberto Lattuada. Scorpacciate di kilometri e kilometri di pellicola: Murnau, Wiene, Pabst, Lang, Mamoulian, Eisenstein. Racconta proprio Monicelli (sempre nel fondamentale La commedia umana) che a quel tempo disprezzavano il cinema italiano e impazzivano per le produzioni americane, ma soprattutto per l’espressionismo tedesco. Naturale che, avendo il giovane Mondadori velleità di diventare regista, e possedendo il suo amico Carlo quella meraviglia tecnologica della Kodak, Alberto decida di coinvolgerli tutti, un po’ per gioco un po’ per passione, nella realizzazione di un un cortometraggio.
Nel 1932 Alberto aveva fondato una rivista, “Camminare”, la cui redazione era nello scantinato di casa (i Mondadori non si erano ancora trasferiti in piazza Duse, ma stavano lì vicino, in via Livorno) e che veniva stampata dal padre. La redazione oltre che da lui, era composta da Civita, da Lattuada, da Giorgio Mondadori, fratello di Alberto, da Antonia Pozzi, da Vittorio Sereni e Remo Cantoni. La rivista ovviamente si occupava soprattutto di cinema e quando Monicelli arriva a Milano entra subito a farne parte. È questo gruppo che, nel 1934, Alberto Mondadori mette al lavoro per realizzare un brevissimo film ispirato a un racconto di Edgar Allan Poe, Il cuore rivelatore.
Girano nello scantinato che funge da redazione della rivista. La sceneggiatura la hanno scritta Alberto e Mario. Della scenografia si occupa Lattuada, che frequenta il primo anno di Architettura al Politecnico, la regia è di Alberto, mentre Cesare, che è l’unico a saper usare la Cine-Kodak Special, si occupa delle riprese. Per le carrellate fissano la cinepresa al manubrio di una bicicletta che Mario e Giorgio spostano avanti e indietro, mentre Cesare in sella regola l’apertura del diaframma e la messa a fuoco.
Il riferimento culturale al quale guardano mentre di divertono a realizzare il cortometraggio è, ovviamente, l’espressionismo tedesco che tanto li entusiasmava quando erano seduti in sala. Come capita spesso con le cose nate per gioco, alla fine si ritrovano con un film di 14 minuti completamente e, potremmo dire, professionalmente montato da Cesare.
Nella sua autobiografia Civita sostiene che lo mandarono in concorso a Venezia nella sezione dei film a passo ridotto, ma la cosa è piuttosto improbabile. Nata nel 1932 la Mostra di arte cinematografica di Venezia, divenne un appuntamento annuale fisso solo nel 1935. Nel 1933 non si tenne e quella del 1934 si tenne all’inizio di agosto: i film partecipanti erano statai tutti prodotti nell’anno precedente. È quindi molto probabile che sia andata invece come racconta Monicelli e che, come giovani studenti, il cortometraggio lo mandarono alle selezioni per i Littoriali della cultura e dell’arte, di cui proprio nell’aprile del 1934, si tenne a Firenze la prima edizione. Comunque sia, tutti e due concordano su quello che fu il risultato. Il film non passò la selezione e fu respinto con l’accusa di essere morboso, decadente e degenerato.
Non è il giudizio in sé che li scalfisce, ma il fatto di vedere delusa la speranza che il film venisse proiettato nei CINEGUF, sorta di circoli cinematografici promossi dal regime per diffondere tra gli studenti universitari l’interesse per il cinema. Sono giovani e si sentono, se non dei rivoluzionari, almeno degli innovatori. Monicelli riesce, grazie alle conoscenze del padre – ti ricordi che dirigeva una rivista di cinema, vero? – a incontrare a Roma Luigi Chiarini che era il presidente del neonato Centro sperimentale di cinematografia. Chiarini però liquida il film come un prodotto paranoico e invita Monicelli a dedicarsi alla promozione dei veri valori del fascismo e non a quelle degenerate perversioni intellettuali.
Per inciso: Luigi Chiarini si dichiarava fervente fascista, vestiva in orbace, sfoggiava una brillante pelata mussoliniana e nel 1938 fu tra i firmatari del Manifesto della razza, ma saprà riciclarsi poi, dopo la guerra, senza alcuna vergogna nel mondo burocratico della cinematografia repubblicana diventando addirittura, nel 1963, direttore della Mostra veneziana. Quando Monicelli lo incontra, Chiarini ha 34 anni, ma per lui è solo un vecchio trombone che non può capire quello che loro stanno facendo. Anni dopo, all’inizio degli anni Sessanta, si rincontreranno: Chiarini è membro, insieme ad Age e Scarpelli, della commissione cultura del Partito socialista (alla faccia della capacità di riciclarsi!) e Monicelli non perde occasione per rinfacciargli quell’antico giudizio e il passato fascista. Ne segue una polemica che si chiuderà con la vendetta dell’ex-gerarca che, diventato direttore di Venezia, rifiuterà I compagni, film che Monicelli ha scritto proprio con Age e Scarpelli.
Torniamo a noi. Nonostante questo risultato, i ragazzi di “Camminare” l’anno dopo ci riprovano. Stavolta fanno le cose in grande. Un film di tre quarti d’ora in cui adattano I ragazzi della via Pal di Ferenc Molnàr. La sceneggiatura la scrivono Alberto e Mario, mentre Cesare trova i fondi: 1.000 lire gliele dà – forse per un senso di colpa dovuto alla speculazione sul palazzo di Piazza Duse – l’amministratore delegato della Banca Commerciale, Joséf Leopold Toeplitz, altre 1.000 lire le ottiene da Ulrico Hoepli a cui Valentino Bompiani ne aggiunge altrettante. La famiglia Feltrinelli gli permette di rifornirsi presso i suoi depositi di legname di tutte le assi che gli occorrono per la realizzazione dei set. Grazie a questi finanziamenti possono mettere insieme una dotazione di tre cineprese e farsi costruire dei carrelli rudimentali su cui montarle. Girano sopratttuto in esterno, cosa non comune all’epoca, coinvolgendo gli studenti del Berchet.
Passano tutta l’estate del 35 a montare il film e a settembre riescono a presentarlo al Festival di Venezia nella sezione dei film a passo ridotto. Il film vince il primo premio della sua categoria. Premio che non consiste in denaro, ma nella possibilità di partecipare alle riprese del film Ballerine che Gustav Machaty dirigerà l’anno dopo negli stabilimenti di Tirrenia.
Dato che dal gennaio del 1936 Cesare Civita è sempre più assorbito dal suo lavoro per l’Anonima Periodici Italiani, sul set di Ballerine ci vanno Alberto e Mario.
Così Monicelli ricorda quell’esperienza:
“Lavoravamo gratis ma ci davano l’alloggio e il cestino. Alberto e io dormivamo in una stanzetta a Tirrenia. Fin dal primo giorno capimmo che il nostro ruolo era quello dei servi degli assistenti degli assistenti alla regia.”
Trasportano mobili, spostano oggetti di scena, battono qualche ciak, ma sopratttuto si legano di amicizia con Giorgio Bianchi, l’aiuto regista, che li prende a benvolere. Finalmente, come sognavano, stanno muovendo i loro primi passi nel mondo del cinema, quello vero. Ma l’unico che in quel mondo compirà un lungo e fruttuoso cammino è Mario. Come già ti ho detto Cesare lascerà, a causa delle leggi razziali, l’Italia per l’Argentina, dove fonderà le edizioni Abril. Alberto invece, dopo una prima resistenza, cedette all’imposizione del padre Arnoldo che lo voleva a dirigere con lui la casa editrice. Dietro la macchina da presa ci resterà solo Monicelli.
Ah! C’è un’altra cosa rilevante nell’economia di quanto ti sto raccontando, che accade nel 1933. Pietro Germi, un giovane studente dell’Istituto tecnico nautico San Giorgio di Genova, comincia a frequentare con il desiderio di diventare attore, la filodrammatica di un piccolo teatro del quartiere di Castello.
Teniamolo d’occhio, perché avrà un ruolo fondamentale in questa storia.
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.