Paolo: Dove eri il 7 gennaio 2015?
Boris: Quando mi hai chiamato… ci parlavamo ancora in quel periodo… ero in trattoria. Dopo la tua chiamata ho chiesto alla Domenica, la proprietaria della trattoria, di accendere la TV per vedere il notiziario.
P: Io ero a Brescia. Avevo appena finito di registrare una trasmissione di “Radio Onda d’urto” e, con Arabella, avevo raggiunto un bar. Mentre eravamo seduti, in attesa dell’ora di pranzo… io spritz (che lì chiamano pirlo) e lei coca cola… in televisione sono apparse strane notizie su Parigi.
Mentre cercavamo di capire, mi è suonato il cellulare. Era una giornalista di “Radio popolare” che voleva un commento a caldo. Mi sono fatto spiegare cosa fosse successo. Ho cercato i nomi dei morti e sono scoppiato a piangere. Poi ti ho chiamato. Ti ricordi cosa ci siamo detti?
B: Le esatte parole, no. Ma ricordo che mi devi aver detto qualcosa tipo: «Cazzo! Wolinski e Cabu sono morti!» E io devo aver ribattuto: «Che coincidenza, insieme! Comunque capita, erano decisamente très âgé.»
P: Davvero?
B: Ma no, pirla! Mi hai gridato: «Li hanno ammazzati! Insieme agli altri di “Charlie”!»
Ricordo che mi è caduta la mascella. «Cazzo dici?», ho bofonchiato, «“Charlie” lo pubblicano ancora?»
P: Sei un cretino! “Charlie”, lo sapevamo benissimo che esisteva ancora, non fare il furbo. Dopo la riapertura, la versione diretta da Philippe Val si era un po’ sputtanata e c’era stata la fuoriuscita del vecchio Siné che, col suo “Siné Hebdo” fatto in casa, si era portato via metà dei lettori.
B: Non faccio il furbo. Val, succeduto a Gébé come direttore del nuovo “Charlie Hebdo”, non si dimostrò granché all’altezza. È vero, con l’affare delle vignette scandinave su Maometto portò il settimanale a un’invidiabile tiratura, ma quando licenziò Sinè per antisemitismo – per un’innocua vignetta su Nicolas Sarkozy – dimostrò tutta la contraddizione degli irriverenti ragazzacci di “Charlie” per i quali c’erano comunque argomenti quasi intoccabili, come l’ebraismo. Poi, per rimediare alla cazzata, Val fu costretto a lasciare la direzione che passò a Charb. Con tutto il bene che gli volevo a Stephane Charbonnier, la sua direzione mi aveva quasi fatto dimenticare dell’esistenza di “Charlie Hebdo”.
P: A te e a tutti gli altri. “Charlie Hebdo” vendeva pochissimo. Di quel giorno non ricordo niente. Non ricordavo neanche di averti chiamato, figurati. E “Charlie” era – ed è – un rito da edicola: proprio come te lo compro tutte le volte che trovo un chiosco in Francia (e ormai è diventata un’impresa quasi impossibile) e me lo porto a spasso fino a quando non lo dimentico da qualche parte.
Ecco… “Charlie”, dieci anni fa, era veramente un rivista che non leggeva nessunə. Eppure, il giorno dopo, erano tutti “Charlie”. Tutti. Gente che, fino al giorno prima, condivideva sui social le vignette di Makkox, indignati del sabato sera, disegnatori di faccioni dalla parte del torto, fascisti, piddini, pentastellati, residenti di Pinerolo, possessori di criceti… tutti. Tutti a dire “Je suis Charlie”.
B: Eppure quando c’era stato l’attentato incendiario di matrice islamica del 2011, non ricordo ce ne fosse stata una grande eco in Italia.
P: Per me, “Charlie Hebdo” è sempre stato altro. Un’idea, un covo, una redazione di gran cazzari, le origini resistenti alla censura che partono da “Charlie Mensuel” (e quindi da “Linus”), quell’hara-kiri che sbudella gli altri… e poi Fred, Gébé, Reiser, Choron, Cavanna e, cazzo!, Cabu e, soprattutto, Wolinski…
E dire cosa sia stato “Charlie Hebdo” a una banda di saputelli inconsapevoli che ci hanno inondato di dolore anticensorio e matite levate per la libertà, mi fa sentire a disagio.
Sai che giorno è oggi? Sai quanti saranno oggi gli articoli intitolati “Quel che resta di Charlie”?
B: Certo che so che giorno è. E so che tutti quegli articoli eviterò di leggerli. Sono dieci anni che mi manca quello che, forse, è stato l’unico vero anarchico del fumetto europeo, e non ho nessuna voglia di farmi venire mal di stomaco leggendo le cazzate degli “esperti” italiani.
Figurati che sulla scrivania, da giorni, ho il volume curato da Riss per le edizioni Les Echappés, Charlie Libertè, ma non ho trovato ancora il coraggio di aprirlo. Tremo all’idea di scoprire davvero cosa ci resta di “Charlie Hebdo”. Figurati se mi interessa cosa scriveranno sui siti di fumetti o, addirittura, sui quotidiani italiani! Me ne andrò a rileggermi tutto quello che ho in libreria di Wolinski.
P: Però non si può far finta che non sia successo niente (o non stia succedendo niente, come inizieremo a blaterare da domani). Per dire “Charlie Hebdo”, anche in occasione di una ricorrenza così tragica, a me piacerebbe parlare solo dell’amore che sento per alcune delle persone che quel settimanale hanno fatto e che, ancora oggi, sono tra le intelligenze più lucide e risplendenti che il mondo abbia espresso. Wolinski, Reiser e Fred, innanzi tutto. Ma anche Cabu, Cavanna e Siné.
Wolinski, poi, era anche uno splendido esemplare di essere umano, capace di partecipazione, rivolta, comprensione, solidarietà e amore, al quale mi è decisamente difficile trovare difetti.
B: Forse un difetto l’aveva. Era talmente disponibile da convincere qualcuno a confondere quella disponibilità per amicizia, millantandola ancora oggi.
P: Non so a chi ti riferisci. Pensavo al mio aneddoto preferito su Wolinski durante la mostra di Guido Buzzelli ad Angoulême. Ma non lo racconterò per non farmi trattare come l’anziano che sono da te che mi dici «Quante volte me l’hai raccontato? Milletrecentododici o milletrecentotredici?»
B: Ahahah. Per essere esatti, milletrecentoquindici! Dello squallido personaggio cui mi riferisco – Fulvio Abbate -, dirò quando scriverò il mio saggio su Wolinski, nel capitolo dedicato a quel gioiellino che è Chérie, je vais à Charlie di sua moglie Maryse. Ma l’aneddoto raccontalo, dai! Chi non legge (Quasi), se non ti ha incontrato a pranzo e quindi non lo hai annoiato raccontandoglielo, non lo conosce. Mi sembra un bel modo per iniziare a raccontare di Wolinski.
P: Gennaio 2006. Ultimo fine settimana del mese. Il festival di Angoulême dedica una grande personale a Buzzelli. Emozionato e devoto, mi ci reco. Mi aggiro tra questi originali magnifici, allestiti proprio bene. Non ricordo quali pagine fossero in mostra, ed è strano perché sono le cose che tipicamente non mi mollano più. Ricordo benissimo la sensazione strana che mi è arrivata a un certo punto.
C’era un tipo con una zazzera bianca impazzita, circondato da un capannello ossequioso. Lo guardo e lo riconosco. È Wolinski. Cerco di sincronizzare la mia camminata alla sua visita lenta. Lo ascolto, rubando parole che non sono destinate a me.
Dice di Buzzelli a “Charlie Mensuel”. Racconta aneddoti da redazione, discussioni piccole sul senso di un disegno, rinunce, piccole sconfitte e molte soddisfazioni.
E mentre parla di Guido, Wolinski ha la voce un po’ rotta. Di tanto in tanto solleva gli occhiali e si stringe la base del naso, come se dovesse contenere le lacrime. E, in quel gesto commosso, c’è tutto l’amore di cui è capace.
B: Perché Wolinski, oltre a essere stato un narratore senza eguali, un disegnatore gigantesco, un umorista senza limiti morali, un rivoluzionario epicureo e un gran cazzeggiatore, è stato anche uno degli editori più illuminati del ventennio che va dal 1970 alla fine degli anni Ottanta. Quando succede a Defeil de Ton alla direzione di “Charlie Mensuel”, se non ricordo male dal numero 19, datato agosto 1970, da fotocopia di “Linus”, la trasforma in una rivista seminale e imprescindibile che farà scoprire ai lettori francesi autori come Will Elder e il tuo Harvey Kurtzman. Ma a mio avviso il suo meglio come direttore di rivista lo dà quando i tipi di Albin Michel lo chiamano insieme a Claude Maggiori (uno dei grafici più grandi di sempre) a ridare vita a “l’Echo des Savanes” (non vorrei dire una cazzata: nel giugno del 1982). È sua l’intuizione di trasformare la rivista di Brétecher, Gotlib e Mandryka in una versione più figa della “Frigidaire” di Sparagna. Perché Wolinski conosceva tutto quello che di editorialmente importante avveniva attorno all’Exagone. Frequentava le edicole, leggeva le riviste. Scopre Il Gioco di Manara perché legge “Playmen”. E decidendo di pubblicarlo su “l’Echo”, usa quello che, senza il suo intervento, sarebbe rimasto un fumetto destinato ai segaioli borghesi che in Italia leggevano di nascosto la rivista di Adelina Tattilo, per raggiungere tutti i segaioli francesi. Un’intuizione che porta “l’Echo” a vendere 400.000 copie al mese. Un genio!
P: E tocca ricordare quello che racconta in quell’intervista che non abbiamo piratato (ma avremmo dovuto) Dominique Grange. Quando nel 1968 la cantante finisce in clandestinità, Wolinski le assegna le traduzioni dei fumetti spagnoli e italiani di “Charlie Mensuel”, per garantirle una retribuzione. Siccome Grange è ricercata, l’unico che sa dove è nascosta e la va a trovare, per consegnarle il lavoro e il denaro e ritirare le traduzioni, è proprio Wolinski. E questa immagine ci restituisce un altro connubio di umanità, amore e impegno politico.
B: C’è una cosa che scrive in quel gioiellino filosofico che è La Morale, pubblicato da Le Cerche Midi nel 1992, e che ben esemplifica il paradosso (che poi in realtà non è tale) tra il suo cinismo (non nell’accezione comune, ma nel senso di quello di Diogene) e la gratuità di tante sue azioni: «Tutte le azioni umane sono sospette, soprattutto quelle che non sono dettate da un interesse». È verissimo: gli interessi che dettavano le sue azioni erano l’amore per l’umanità (soprattutto nella sua parte femminile) e l’amicizia.
P: Come se sapesse che l’egoismo, se guidato da intelligenza, è il più nobile dei sentimenti. Chiunque voglia essere felice deve lottare per essere circondato da benessere e benevolenza, addirittura amore.
E quell’uomo, con il suo desiderio d’amore, ci manca da dieci anni.
B: A quante battute siamo?
P: Che ne so?
B: Fuori tema, ma neanche tanto: “Siné Mensuel” a marzo chiude.
P: E anche “Charlie Hebdo” non sta troppo bene.
B: Però fa copertine bellissime.