Mostry e boys (dei paesi tuoys) [ma anche illeggibilità]{e non sta succedendo niente}

Lorenzo Ceccherini | Il bassista non se lo incula nessuno |

Ti distrai giusto un attimo, non sembrava di più, veramente, ma passano mesi, tanti che ci rimetti insieme un anno pulito pulito senza aver più pubblicato niente, qui (o altrove, giusto per non passare per fedifraghi). Succede sempre così, finisci sotto l’onda e non risali, a volte per un po’, a volte a tempo indeterminato, solo che non è un problema, perché non senti un senso di soffocamento e scivoli dal fare al non fare, forse dal pensare al non pensare. Però i temi di questo mese e del precedente* (vedi nota a fine articolo) hanno una forza da canto delle sirene e allora il nostos è servito. Eccolo qua. Che rumore fa un bassista da salotto che ritorna nella foresta delle idee inquietanti senza che nessuno vi assista? Questo.

Ottobre l’ho bucato (novembre, pure, arivedi la nota conclusiva) ma lo faccio rientrare (non posso certo lasciarmi alle spalle i mostri senza averne trattato) con una manovra di bassa lega, non priva, tuttavia, di un senso – credo silenziosamente mutuato dagli imperscrutabili disegni dei nostri capo redattori.

Va anche detto che il periodo di latitanza scrittoria è stato tale in virtù sì del lavoro sempre più debordante, ma anche di uno studio più convinto e serrato dello strumento, che si è preso quasi tutto di quel poco tempo non servile che restava a disposizione – non era quindi nei propositi per il nuovo anno (inutile compulsare una teorica lista, era vuota e secca come un pozzo asciutto) riprendere a scrivere ma il tema è rientrato di prepotenza come risposta all’assillante cosa-faccio-per-restare-almeno-apparentemente-vivo-e-non-diventare-un-cazzo-di-flatliner-cerebrale-ambulante. Come per il Pablo Casals novantenne, è la sensazione di stare migliorando che mi porta avanti – il fatto di non essere poi ‘sto granché è secondario, da più pippa a meno pippa il percorso è comunque salvifico – senza che il senso di finalità passi a riscuotere il suo tributo edittale di indispensabilità.

Casals

È solo quando a tarda, troppo tarda sera per essere fresco e funzionante il giorno dopo, che inizi a far girare l’accompagnamento su un esercizio del Latin Bass Book di Oscar Stagnaro o su una parte un po’ prog fitta fitta tutta a sedicisimi a centoquindici di metronomo, cose che a pensarle ti dici «no, non gliela faccio» – è solo a quel punto che poi vai a letto, dormi due ore di meno, ma la mattina dopo ti svegli con una transitoria percezione di sensatezza nelle vene. Poi, potrebbe anche accadere di essere meno bassista da salotto nei prossimi mesi, ma questo è proprio tutto un altro discorso.

Back to mostri, back to boys, adesso.

Mostri, innanzitutto. Senza necessariamente buttarla in pedanteria con ricercatezze etimologiche il primo passo che mi viene da compiere riguarda il significato della parola. Così come c’è tanta fiducia nell’usare con disinvoltura termini come umano o disumano, pure per mostri conviene farsi qualche domanda prima di mostrizzare ogni cosa. Senza dare alcuna speranza alla suspense, sapete già che per quanto mi riguarda, il mostro ha da sempre occupato lo spazio presuntivo del normale, rispetto al quale invece inizio a sospettare che, a sua volta, coincida con un archetipo platonico, pacifico e indifferente nella sua capsula di Petri, rasserenante nella sua presupposta naturalezza, folgorante nella sua materiale insensatezza. Quando pronunciamo il termine normale stiamo esprimendo un concetto statistico ma ci comportiamo come se ci fosse di mezzo una ortodossia, un confine mortale tra buono e non buono. Dove inizia la zona dei mostri?

Chissà se veramente dietro al monstrum c’è il monitum o se siamo a livelli da paretimologie di Isidoro di Siviglia. ChatGPT pensa di sì ma quello «ragiona» in termini probabilistici e se lo addestri su un dataset che contiene una menzogna ripetuta mille volte ecco che quella ti diventa una comoda verità. Ma migliorerà col tempo, cosa che non si può dire con certezza di noialtri. Se dietro al monstrum c’è il monitum, questo non è mai un avvertimento troppo specifico, è più la solennità per se del segno, del presagio, a ricordarti che sei in balia di un ordine naturale che fingi di poter ignorare o controllare. Più si sono affermati i concetti di storia, di progresso, di in avanti e più è cresciuta l’attesa che dovesse esserci un messaggio, confezionato in un qualche cofanetto ieratico, elargito con esclusività ma senza rendere le cose troppo difficili. Il mostro come prodigio poteva essere parte di quelle modalità imperscrutabili di far viaggiare un messaggio ma pesa, su di lui, il sospetto che non sia altro che una manifestazione naturale che ci ricorda che il punteggio NCAP ottenuto dalla società umana in termini di sicurezza per i suoi passeggeri è «zero stelle». Il mostro è come il pulsante di autodistruzione dello Spaceball One in Spaceballs: è stupido ma non può non esserci, ha la stessa genealogia culturale del tallone di Achille, è titillante perché non è inevitabile – anzi, tutto il contrario. Della Morte non sai dove e quando ti ha dato l’ineludibile appuntamento. Il mostro puoi passare il tempo a temerlo, a consolarti di averlo evitato o, addirittura, a fantasticare di averlo ucciso.

Per un racconto profondo e ben argomentato sulla dimensione mostruosa del normalizzante, potremmo, per esempio, andare a bussare alla porta del Foucault di Sorvegliare e Punire, ma visto che anche in questa nostra società occidentale il percorso dell’illuminazione (al neon, e fioca, ché siamo in troppi e non c’è energia o buone lampadine per tutti) ce lo dobbiamo conquistare comunque da soli, per pervenire a conclusioni similari a quelle di sofferenti precursori molto più bravi e capaci di noi, dobbiamo quindi tirarci su con le nostre forze su queste zattere metaforiche di pensiero raccolto e irrobustito, reso quasi irriducibile, come un Kon Tiki in mezzo a un oceano di sgomento. Lì poi tiriamo un respiro, ci congratuliamo un attimo, solleviamo lo sguardo e diciamo «oh, cazzo».

Foucault

Non abbiamo neppure il conforto della proposta di qualche tecnica – il Vijñānabhairava Tantra almeno punta a quello, cerca di non lasciarti incaprettato abbandonato a bordo strada dopo averti rivelato la vera natura dell’esistente. Vera natura che sarebbe:

Oltre ogni concezione di spazio o tempo, senza direzione né località, impossibile da rappresentare, in ultima analisi, indescrivibile. Beato nell’esperienza di ciò che è più intimo, un campo di consapevolezza libero da costruzioni mentali: quello stato di pienezza traboccante è Bhairavī, l’essenza di Bhairava. Essenza in ultima analisi reale e fondamentale, ciò che deve essere conosciuto e sperimentato, ciò che è intrinsecamente puro, ciò che pervade ogni cosa.

Bhairava è la manifestazione spaventosa del benevolo Shiva e a renderlo tale è la sua natura di rappresentazione ultima della realtà – mi viene da notare che nella traduzione italiana edita da Adelphi, il sottotitolo è La Conoscenza del Tremendo. Non hanno avuto esitazioni nell’abbracciare il lato terrificante. Bella esperienza vivere nella realtà, vero?

Siamo noi che non riusciamo a stare dritti su quella zattera e a sintonizzarci su quella serenità essenziale che dovrebbe fluire attraverso la presenza immediata al momento e al mondo naturale. E, a quanto pare, non è un problema precipuamente occidentale ma umano e storico. Noi, in questo Occidente moderno, abbiamo preso il problema e lo abbiamo confezionato, pellettato, pressofuso, tritovagliato, termovalorizzato, più di frequente buttato in discarica, senza mai proporci di affrontarlo. Abbiamo fatto ricorso a cose posticce e ridicole, ancorché di successo, come le religioni, in particolare quelle che inventano un retrofit ridicolo di colpa surrettizia e di come lavarla via con raccolte a punti, giochi senza frontiere o biglietti esci-gratis-di-prigione, con mitografie scadenti e personaggi veramente deteriori. Voglio dire: esiste qualcosa di più palloso delle vite dei santi? Qualcosa di più viscido dell’untuosità (anche senza tirare in ballo certe preferenze sessuali) dei prelati ricoperti di ori e ricami che richiamano alla sottomissione i già sottomessi, alla povertà i già poveri?

Oggi credo che per rispondere al perché etiche mortifere e autolesionistiche attecchiscano puntualmente – tipo: operai disoccupati che votano tycoon evasori, devoti cristicoli che votano sempre i suddetti tycoon conclamatamente puttanieri, donne che fervidamente accettano di cedere la naturale sovranità sul proprio corpo, colletti bianchi che lavorano entusiasticamente gratis la notte e nei weekend, neri che si iscrivono alla Lega, fiorentini che tifano Juventus, cose così – per guardare a tutti questi fenomeni anti-vita (però puntualmente mascherati da pro-vita, o almeno da pro domibus suis) con una vista sufficientemente ampia credo che dobbiamo rifarci a una radice comune che affonderebbe proprio in un assoluto terrore del Tremendo. Sotto all’odio per la libertà altrui, al razzismo, allo specismo, alla misoginia e ginofobia, all’omofobia, alla paura dell’altro in generale, abiterebbe questo motore primo: il rifiuto di dover fronteggiare l’essenza terrificante dell’esistere, prima ancora di condirla con il problema delle condizioni sociali e economiche, per quanto significative. Ma come si fa a raggiungere quel livello del discorso sul vivere se ci sventolano in faccia, in continuazione, manco fossimo lavoratrici del porno, il flaccido totem della «santità» della vita. Certo, a livello di marketing, «terrore di esistere» non vende benissimo, manco nei sottogeneri del cinema horror – il terrore deve appuntarsi su qualcosa (di solito un mostro, un Jason, un Pennywise, il chirurgo di The Human Centipede, un cazzo di clown a basso costo e ossessivamente omicida), niente o tutto non sono categorie accettabili, serve un qualcosa-qualsiasi. E il qualsiasi riesce a essere mostruoso, probailmente proprio in virtù della sua banale qualsiasità.

[una nota di metodo: tra le casistiche mortifere supportate dai volonterosi non ci ho messo le guerre e gli scenari bellici in generale – anche lì il meccanismo è all’opera ma la cornice di disciplina e costrizione rende quelle situazioni avulse da una premessa di piena, libera e costante autodeterminazione, il teatro in atto in quei casi è atavicamente più definito e delimitato, quindi evito di fare un mescolone poco utile. Qui si vuole prendere a calci la nozione di vita normale, mettere cinquanta centesimi nella cassetta delle offerte per sanare il problema essenziale del perché ti senti in colpa perché stai male nel tempo di pace, nella giornata di sole, nello svolgere i tuoi compiti. Spoiler: è normale.]

Se avessi più coscienza e amore per il prossimo, la farei un minimo di riflessione sull’effettiva utilità di questo specillo metaforico affondato nelle croniche carie esistenziali che ci affliggono – ma, malgrado la storia delle mie incerte aspirazioni, l’idealtipo di Baal il poeta non mi abbandona (vedo che l’ho citato già altre tre volte) e, visto che, come diceva Gide:

Toutes choses sont dites déjà; mais comme personne n’écoute, il faut toujours recommencer

e, visti i tempi, penso che non ci sia da essere schizzonosi sulla qualità delle voci che ricominciano a ripetere. Non sarà un granché ma pazienza.

Gide

E veniamo alla questione Boys.

L’immaginario contemporaneo è dominato, alimentato in modo preponderante, dai portati culturali americani e anglosassoni. Ci è piaciuto tanto per tanto tempo, forse per ragioni di forza di mercato, vero, però ci siamo susinati tutto, i film di Giònvaine e via e via, salvo poi diventare un po’ tutti, coralmente, anti-americani. Ché non è che si debba essere americanofili (di quale versione di America, poi?) solo che colpisce quanto sia diffuso il disprezzo per l’oltreoceano come luogo abitanto da minchioni senza gusto per la cucina, afflitti da porzioni troppo grosse, troppo grasso addominale e da urbanistiche senza charme. Non è che in giro per l’Europa affoghiamo nel glamour, però, visti i trend delle notizie da oltreoceano sta diventando un po’ difficile provare a dire, no, dai, non è che sono tutti così. E noi, com’è che siamo noi quando ci guarda qualcun altro? A spanne larghe pare che siamo quelli arruffoni ma creativi, vivaci anche se inaffidabili, disorganizzati, corrompibili se non già corrotti, inestricabilmente invischiati vita natural durante nelle vicende familiari. Pizza, mamma, mandolino forever. E magari fosse così, così come magari fosse solo che gli statunitensi (ché quando dici «americani» staresti prendendo un continente intero) sono dei chiattoni con delle portate supersized e cibo uber-processed, con una perculabilissima mala conoscenza della geografia del mondo.

A pensare di essere meglio si finisce assai male, è garantito.

Siamo noi che siamo abituati male, non spiega tutto ma bisogna tenerne conto. Abitare è esistere e farlo in scatole anonime in territori senza storia (o con brutte storie…) è un po’ diverso da quello che ci è perlopiù familiare. Il portato storico che informa di sé le nostre città, province, regioni, i nostri borghi e quartieri, non è dettaglio banale. Anche se le nostre città sono state devastate da una urbanistica condominiale para-lecorbusieriana a base di pianificazione inesistente e materiali e estetiche discutibili, il legame con quel portato lo sentiamo eccome e sentirlo ci ancora in qualche modo (anche illusorio) a una sensazione di essere parte di una storia. Dalle mura serviane al piano regolatore di Roma del 1962 non è che sia una bella storia, specie gli ultimi quindici secoli, ma almeno è tanta storia. Se abiti in qualcuno di quegli sconfinati pezzi di Stati Uniti dove di storia non ce n’è, sia perché quelli che potevano raccontarne una sono stati spazzati via, sia perché quelli che sono arrivati dopo non hanno certo pensato di appropriarsi, di ereditare un po’ della storia dei primi (difficile immaginare che ci fossero le condizioni per farlo), diventa, secondo il mio modesto e cialtronesco parere, molto, molto più facile che tu annaspi per questo vuoto di identità– aspetto che non fa che accrescere in modo esponenziale la possibilità che a qualcuno venga una gran voglia di raccontare la storia in avanti. Storia che, guarda caso, è sempre in tono da end of times, messianica, millenaristica, apocalittica. Un cupio dissolvi molto ingessato però con i forconi (anzi, gli AR-15) in mano, le croci incendiate, le milizie e i linciaggi. Un mood di questo tipo sembra risuonare in modo consistente in una quota rilevante dell’elettorato americano, come si è visto – io quando guardo quella roba là penso a quanto la retorica della «vittoria mutilata» del nostro 1919 sia non affatto distante parente dell’armamentario sloganistico trumpiano. Concettualmente intendo – temporalmente ci corre un secolo, ma non è che una stagionatura, un affinamento nelle barrique delle menti atterrite che abbracciano le versioni correnti della mens fascista (ho deciso di chiamarla così adesso, i professionisti di lungo corso magari userebbero personalità autoritaria), dei soliti concetti anti-vitali, sempre anti-tutto ma rivendicanti il pro-life, il sacro, il santo, il tradizionale. Quando sotto c’è solo il vuoto e il terrore che il vuoto ispira. L’unica storia che sanno raccontare è che vogliono salvare il mondo da qualcosa o qualcuno, solo per farlo finire nel modo in cui si suppone debba. Lo sproloquio di un suicida su un cornicione.

La rappresentanza democratica non è la norma storica, la norma è il potere (e il potere è la norma). In un accesso di improvviso pragmatismo potrei anche concludere che scandalizzarsi del fatto che il teatro democratico sia avvelenato dai dettami del potere è un po’ come rimanersene basiti per il puzzo di merda dopo aver cacato. È una brutta cosa, necessariamente, il discorso che gira intorno alla nomina di capi, di rappresentanti, di amministratori. Può puzzare, ma proprio per questo sarebbe bene porvi attenzione. E azionare lo sciacquone (e darci pure di spazzolone).

Il fatto che i Boys siano vertiginosamente minoranza ci dice qualcosa – lo spirito del 1789, del 1848 o del 1870, ma anche del 1943, se è per questo, non sappiamo se dorme o se è proprio defunto. Il potere nell’epoca capitalistica ha ben compreso che obnubilare paga ben più che opprimere (posto che certe oppressioni esplicite poi se le concede con gran gusto). Ha un ROI del 10.000%, prima di tutto perché non ti fai nemici gli oppressi che opprimi, i quali, invece, daranno alacremente, e di frequente non ingiustificatamente, addosso ai mediocri occupanti il ruolo di loro tradizionali nominali rappresentanti. Non è un ragionamento da economia domestica che fa imbrancare tutti dietro a monumentali buffoni, è più l’odio per i rappresentanti di classe. I mestieranti della rappresentanza democratica stanno venendo spazzati via, sostituiti da ibridi, espontaneos e meteore varie. Non ci mancheranno, è vero, ma della sostituzione non possiamo essere certi che sia un fenomeno positivo.

Tutta questa pantomima, i canovacci di base, il repertorio dei mezzucci, dei chiagni-e-fotti, delle intimidazioni mafiose, l’abbiamo vissuta qui da noi venti anni prima che da loro, siamo il laboratorio della merda contemporanea, la cloaca minima nella quale prendono forza e fiducia i colibatteri politici del futuro. Immigrati stupratori, mangiacani e mangiagatti, le donne da prendere “by the pussy”, barzellette sulle mele che sanno di culo, nipoti di Mubarak, bellissimi muri e respingimenti in mare e via e via, in una escalation di fanfaluche colossali che non provocano nessunissima delle reazioni che ti aspetteresti in un altro contesto sociale (perculamenti e marginalizzazione, come minimo).

Voglio dire: il ‘900 ha avuto gli Hitler e i Goebbels, i Mussolini gli Stalin e i Mao, gente che mistificava di bruttissimo, talvolta facendo rumore, talvolta no, prima di passare all’eliminazione fisica, gente che ha messo su il cinema della Seconda Guerra Mondiale, nel quale una parte da Boys l’hanno interpretata, che ne so, i G-Men in Normandia o i partigiani nei paesi invasi. Oggi invece dire Boys significa una banda di mezzi delinquenti disfunzionali, misfits e scarti della società, banda che pare essere stata ideata come adeguata sia al livello dei nemici che allo Zeitgeist in generale. L’idiozia e il suo esercizio sono diventati predominanti nei rituali del potere – gli idiótes in greco sono gli individui privati, inesperti delle cose della gestione pubblica, quindi incompetenti – ma la caduta degli uomini pubblici è in primo luogo una loro colossale responsabilità: in una sorta di scenario platonizzante andato a male gli amministratori si sono segregati dal resto della società, non tanto per sterilizzare rischi di corruzione e cose così, quanto piuttosto per prot! zoink! burp! cazz! fott! merd! bleah!

You’re all fucking welcome!

In questa (finissima, vero?) riflessione credo si annidi però una discreta opportunità per i soliti cronici sconfitti in quei riti elettorali dell’Occidente che dovrebbero rendere qualcuno un po’ superiore agli altri però poi questo qualcuno perde e tutto va comunque più o meno a male – iniziare a picchiare duro, a giocare sporco, a fare appello agli istinti bassi, alla roba che funziona davvero quando c’è da raccogliere il maledetto consenso. È trita la considerazione finale: dal voto nell’urna ai like, ai cuoricini e alle stelline, ci vedo veramente poca strada. Ma ormai il gioco è diventato questo – la provocazione è immaginare di giocarlo da zozzi veri ma comunque, almeno un po’, nella sostanza, in nome e per conto della pars costruens.

* Tutto questo rant doveva arrivare sulle povere pagine di (Quasi) in ottobre, poi in novembre, ora forse, ma solo forse, ce la fa per dicembre, saltando sull’ultimo treno. L’autore qui sta diventando tendenzialmente illeggibile – ma potrebbe essere un fenomeno carsico. Chissà.

P.S. non è stato neppure dicembre – è gennaio. Il tema è: Non sta succedendo niente. Ci sta anche questo, non cambio una riga, buon anno!

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(Quasi)