In cui l’incauto scrivano giunge al termine del lungo viaggio e cerca di mettere insieme qualche considerazione finale, sebbene non sia sicuro di riuscire a esprimere tutte le impressioni che ha avuto durante la lettura di questo libro.
“A Startling New Calendar” – “The Old Man at the End” / “Un nuovo, sorprendente Calendar” – “Il vecchio alla fine”
Siamo finalmente arrivati al gran finale. Prima di Natale avevamo lasciato Dennis mentre stava per incontrare, timoroso, il suo amico Clive. Infatti, era giunto alla conclusione che fosse un serial killer e di essere stato usato per andare nella Long London, per cui temeva che quell’appuntamento fosse stato fissato solo per ucciderlo (potete leggere i dettagli che ci hanno portato a questo punto qui). Nel bar dove Clive ha fissato l’appuntamento ci sono solo altri tre avventori. Dennis è piuttosto nervoso: non riesce a concentrarsi su quello che l’amico gli sta dicendo, mentre osserva l’ambiente in cui si trova. Clive dice che è molto contento di vederlo e che gli mancavano le loro conversazioni, dato che trova l’ambiente di lavoro piuttosto noioso. A un certo punto, però, stupito dall’atteggiamento del giovane gli chiede se c’è qualcosa che non va e Dennis si inventa il fatto che probabilmente aveva mangiato qualcosa che gli aveva fatto male. Al che, l’amico avvocato gli propone di andare a fare una passeggiata lungo il fiume. Per Dennis è il segnale che vuole ucciderlo in quel posto, per cui si alza per andare al bagno prima di uscire e, mentre si dirige lì, decide di scappare fuori. Nessuno sembra notare la scena e Clive lo insegue, chiedendogli che cosa stava facendo: ora il tono non è più gioviale come prima. Correndo senza meta, Dennis si trova a Fleet Street e, man mano che procede, nota che in realtà si sta avvicinando sempre di più alla zona dove Clive voleva portarlo. Inconsciamente, arriva nel punto dove aveva incontrato volta Grace, di ritorno dal primo viaggio a Long London, e passa attraverso un’entrata nel Grande Quando.
Si ritrova in un ambiente vagamente familiare e sebbene non creda che Clive abbia avuto il tempo di vederlo oltrepassare il confine tra le due realtà, cerca di muoversi in fretta. Purtroppo non è così e lo vede dirigersi verso di lui. L’ex amico afferma che quella è la seconda porta che gli ha mostrato e gli domanda perché voleva tenere quel luogo tutto per sé. Indietreggiando, Dennis gli rivela che sa che è un assassino. Dopo aver cercato di negarlo, ammette di aver fatto quello di cui viene accusato e afferma che quel mondo è il posto perfetto per lui. Con questo “colpo di scena”, quindi, viene confermata la supposizione (non che Moore avesse fatto poi molto per nasconderlo o per sviare l’attenzione) che l’amico sia un criminale, anche se quello che mi colpisce è che mi aspettavo che Clive fosse anche la creatura presentata nel prologo, e non uno dei nuovi assassini, così efficacemente descritti in precedenza, la progenie del nuovo mondo nato dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale. Estrae un coltello e quando il giovane scappa di nuovo, lo insegue. A un certo punto Dennis si blocca e non riesce più a muoversi. Nota che la stessa cosa sta succedendo anche all’altro, e poi vede un altro Arcano di cui gli aveva parlato Ironfoot Jack: l’immagine stilizzata di una donna sopra un cavallo fatto di ossa, chiamato Slenderhose. Ha in mano una chiave e un fazzoletto nero. Quando “lei” lascia cadere il pezzo di tessuto nero, i due riescono a muoversi nuovamente.
Dennis cerca di distaccare più che può Clive, ma senza successo: continua a sentire il rumore dei passi e la risata di gioia dietro di lui. Si rende conto che sta facendo il percorso inverso a quello che aveva fatto quando era venuto con Maurice Calendar e il pensiero che potrebbe morire lì, senza che nessuna delle poche persone che conosce lo saprà perché nessuno è al corrente del suo collegamento con Clive, lo demoralizza. Continua a vedere cose bizzarre e sente Clive avvicinarsi sempre di più. A un certo punto riconosce dove si trova (è in un vividistrict, dove ogni oggetto è vivo) e gli viene un’idea su come salvarsi. Riconosce uno dei “coccodrilli” d’asfalto, ci salta sopra e poi lo supera. Clive non è così fortunato e viene azzannato, tranciandogli una gamba. Dennis si volta e vede che altri “animali” si stanno dirigendo verso il ragazzo ferito e dalle sue urla capisce che sta per morire. Non sopporta la vista di quello che sta per avvenire e scappa via, lontano da quello che ha fatto e sconvolto per aver appena ucciso una persona.
Arriva davanti a un edificio e, attraverso una finestra, vedo la carcassa appesa, quasi irriconoscibile, di Maurice. Si allontana domandandosi, se quello che avviene in quel luogo è un’anticipazione di quello che dovrà accadere nella Short London. Continua a muoversi per cercare una via di uscita e lentamente ritorna in sé. Si dirige verso l’altra entrata e prima di arrivare reincontra di nuovo Slenderhorse: riceve la chiave che aveva tenuto in mano in precedenza, poi attraversa il passaggio per tornare alla sua Londra.
È ancora sconvolto dall’esperienza che ha avuto e riesce a malapena a sedersi. Dopo un’ora: si rende conto di avere sempre la chiave in mano. Quello che è accaduto l’ha cambiato profondamente e sa che non ne può parlare con nessuno (si ritiene la causa della morte di Clive, anche se costretto dalle circostanze): nel suo mondo perché c’è la pena di morte per quello che ha fatto, e dall’altra parte perché ha praticamente effettuato un tradimento nei confronti di quella città. Ora vede sotto una luce positiva il fatto che nessuno lo possa collegare con Clive.
Torna in libreria, non incontra Ada e dorme per trenta ore, senza essere disturbato. Quando si alza, il 2 novembre, la donna non gli pone nessuna domanda e lo lascia stare per un po’. Una sera a cena, pone al ragazzo solo una domanda (se la situazione è definitiva come quella del suo giardino, dove un tempo aveva fatto seppellire più di un cadavere): capisce che lei ha intuito che cosa gli è successo e, ripensandoci, dice di sì. Si instaura un momento di comunione tra i due, in cui lei gli racconta un po’ del suo passato e il ragazzo la vede sotto una luce diversa: la ammira e afferma che con tutto quello che ha vissuto, vorrebbe riuscire a fare almeno la metà di quello che ha fatto lei. Impassibile, lei gli dice che ha cinquantun anni, rendendo implicitamente ridicola l’affermazione che Dennis ha appena fatto.
Venerdì (la vigilia della notte di Guy Fawkes!) ha l’appuntamento con John e fatica a concentrarsi sui discorsi che l’amico giornalista fa, continuando a pensare in maniera incessante al fatto che esistono due Londra che occupano lo stesso posto e al finale del racconto “N” di Arthur Machen, dove uno dei personaggi si domanda chi sono le persone che che non vedono e che sono intorno a loro. Per cambiare la sua attuale situazione, John gli suggerisce di provare a scrivere per il suo giornale: all’inizio non sarebbero state grandi cose, ma avrebbe potuto ottenere una piccola entrata per rendersi indipendente. Dopo un tentennamento iniziale, sebbene sia molto tentato e pensi al fatto di potersi fare una vita con Grace, rifiuta, ma alla fine si fa convincere con l’offerta dell’amico di regalargli la sua vecchia macchina da scrivere e della carta. Ambedue elettrizzati e con qualche birra in corpo, parlano senza sosta e John espone le sue teorie politiche sulla situazione della Gran Bretagna attuale (le cose migliorano, ma dovranno esserci ulteriori cambiamenti) e futura (deve decidere se vivere sulle glorie del passato oppure capire il suo posizionamento all’interno dello scacchiere mondiale).
Due giorni dopo, andando a trovare Grace, passa attraverso i resti dei fuochi d’artificio esplosi durante la serata di Guy Fawkes, e si chiede come fa la gente a non essere stanca di sentire esplosioni nel buio della notte. La ragazza è felice della nuova opportunità lavorativa di Dennis, visto che era quello che recentemente le aveva detto che avrebbe voluto fare, e aggiunge che anche lei si sta avvicinando un poco al sogno di fare la ballerina, perché delle spogliarelliste che conosce le hanno detto che nel locale dove lavorano stanno cercando delle persone che sappiano ballare un po’. Dennis pensa che sia il momento giusto e cerca di baciarla, ma viene respinto: possono solo essere amici. Lui si scusa, mortificato, e dice che capisce che in parte la cosa è dovuta alla loro differenza di età, al che lei rivela di avere quindici anni. Lui se ne va e sa che non si vedranno mai più perché non sarebbe in grado di frequentarla esclusivamente come amico.
Mentre lui pensa periodicamente sia a Grace che a quello che ha fatto a Clive, c’è un sintetico elenco di quello che accade in quelle settimane, tra fatti personali e storici (viene citato il discorso di Winston Churchill dove anticipa la possibilità di un’Europa unita), e alla fine si arriva al capodanno. Passa la serata in qualche pub da solo e poi, in strada, incontra Ironfoot Jack e Gog Blincoe. Continuano a bere e parlano di Austin Osmon Spare, a cui le cose stanno andando molto bene, e del principe Monolulu che, per paura di quello che gli aveva predetto il gatto, non è più ritornato a Long London. Vedono una folla che si dirige verso di loro: si apre e fanno passare uno trasformato Maurice Calendar che li abbraccia e dice frasi che gli altri non capiscono (sono riferimenti al rock’n’roll).
Si separano e Dennis torna verso casa. È completamente demoralizzato, pensa di aver sopravvalutato le proprie capacità e, conscio di quello che John pensava di Ada (gli stava prosciugando le energie), decide di abbandonarsi completamente a lei, annullandosi e cancellando ogni velleità che aveva, eseguendo qualunque ordine che gli avrebbe chiesto e decidendo di amarla completamente.
Su questo finale amaro si passa all’epilogo che, nel titolo, come fosse una cornice, si collega al prologo (lì si parlava di inizio, qui di fine). È il 1999 e c’è un uomo anziano di cui non si conosce o comprende l’identità che ha interrotto la lettura di The Legendary Joe Meek – The Telstar Man, la biografia del produttore musicale e compositore Joe Meek scritta da John Repsch alla fine degli anni Ottanta. I pensieri vagano sul fatto che adesso è vecchio e non riesce a fare e a pensare quello che poteva fare e pensare un tempo, su come la Gran Bretagna sia cambiata (c’è una valutazione politica di quello che è accaduto dal decennio di Margaret Tatcher al periodo di Tony Blair, che sembra il contraltare del discorso positivo fatto da John nel capitolo precedente) e su qualcosa che ha fatto vent’anni prima, di cui prova ancora il rimorso. È irrequieto, non sa se ascoltare della musica (i Prefab Sprout o John Cage), vede sullo schermo il saggio incompiuto che sta scrivendo sul poeta surrealista David Gascoyne (già incontrato in una delle scene del prologo) e sente un rumore improvviso. Si spaventa, ma poi si calma… dato che si tratta solo di un gatto.
FINE.
E ora? Ora dovremo aspettare l’uscita del secondo volume per continuare a leggere le avventure di Dennis Knuckleyard e vedere come continueranno le vicende appena aperte. Al momento non sembra esserci una data ufficiale di uscita e le uniche informazioni che sono state diffuse (già indicate dal sito Bleeding Cool il giorno di pubblicazione del primo tomo) è che i libri saranno ambientati in periodi diversi (cioè nel 1959, 1969, 1979 e infine nel 1989), e che il secondo volume si intitolerà I Hear a New World. Il titolo fa riferimento a un album parzialmente uscito nel 1960, e nella sua interezza solo nel 1991, realizzato proprio da quel Joe Meek citato nell’epilogo, che dovrebbe comparire anche lui assieme a Dennis. È plausibile ipotizzare che l’epilogo alzi le ambizioni e le aspettative dell’opera poiché stabilisce un collegamento con quello che uscirà in fuguro: la biografia del produttore (e forse anche il riferimento alla musica nel titolo del prologo) sembra introdurre il secondo volume. L’epilogo ambientato nel 1999 fa un oscuro collegamento a un’azione avvenuta vent’anni, cioè nel 1979, per cui è plausibile che quell’azione avverrà nel quarto libro, ambientato come appena detto al 1979, mentre è sempre ipotizzabile che l’epilogo sia in realtà il prologo dell’ultimo volume che ha luogo nel 1999 (o comunque uno degli elementi che lo compongono), dove probabilmente scoprireremo se il rumore che si era sentito era stato emesso da un gatto normale oppure da quel Charming Peter della Long London che tanta paura aveva instillato nel principe Monolulu.
L’altra domanda è capire chi sia quel vecchio. La prima supposizione si focalizzerebbe in maniera scontata su Dennis: magari il grosso rimorso che prova è collegato a qualche atto commesso nel Grande Quando, magari si tratta della “vera” uccisione di Clive Amery. Dopotutto, nell’ottavo capitolo il giovane avvocato è alla mercè delle creature della Londra alternativa, ma non lo vediamo realmente morire: essendo questo libro composto da elementi fantastici, la morte, come nella migliore tradizione supereroistica, potrebbe non essere un evento così definitivo. Non possiamo dare per scontato nulla, dato che quello che ci attende è ancora un lunghissimo viaggio, sia come pagine (se i prossimi libri avranno una lunghezza analoga a questo, stiamo parlando ancora di almeno 1.200-1.300 pagine) che come anni di attesa (come minimo 6-8 anni), e molto potrà quindi ancora accadere. Possiamo anche supporre che Dennis potrebbe essere sempre presente come protagonista, per cui potenzialmente questi volumi illustreranno la sua vita, sempre intrecciata a doppio filo sia con l’esistenza di Long London che con i cambiamenti che avverranno nella vera Londra. Si potrebbe anche pensare che, dopo Machen, in ogni romanzo ci potrebbe essere l’analisi dell’opera di un autore diverso. Questo è ipotizzabile anche guardando allla natura stessa dell’opera di Moore: in ognuna delle sue storie tende ad avere una visione compatta della Storia (che sia il fumetto, in ogni sua forma, la narrativa per ragazzi o quella erotica, il cinema, ecc.), e il titolo del prossimo libro fa intuire che potrebbe parlare della realizzazione del disco di Meek, affrontando quindi anche generi artistici diversi, e non continuando esclusivamente con un excursus sulla narrativa fantastica. È anche probabile che utilizzerà altri stili narrativi, che si adatteranno sia alle situazioni che al tipo di approccio meta-narrativo che vorrà utilizzare.
Infine, a chiudere il volume c’è qualcos’altro: oltre agli usuali ringraziamenti (ci sono gli affettuosi saluti alle persone che non ci sono più e a cui era molto legato come Steve Moore, Brian Catling e Kevin O’Neill), è presente un breve testo di cinque pagine (“London Peculiar”), realizzato in esclusiva per questa edizione, che parla del rapporto di Alan Moore con Londra: di come le sue frequenti visite avessero come obiettivo principale quello di andare a trovare l’amico Steve Moore e di come abbia conosciuto la città anche (o soprattutto?) grazie ai libri, in special modo quelli di Iain Banks, di cui in seguito sarebbe diventato grande amico, e al Mother London di Michael Moorcock.
Ed è proprio per il riferimento a Brian Catling e alla sua trilogia del Vorrh che, giunto all’ultima pagina del libro, mi pongo una domanda. Moore afferma che la lettura di quel ciclo (di cui ha scritto la prefazione al primo romanzo) l’avevo colpito perché ritiene sia un nuovo modo di trattare il fantastico e l’avevao indotto a provare a dare il suo contributo creando qualcosa di diverso.
Non è facile riuscire a fare qualcosa di nuovo in questo ambito, per la quantità di libri che sono usciti in questi anni, ma anche perché è un genere che, grazie alla forte attenzione da parte di un pubblico giovane, forse ha un po’ abbassato il livello delle proprie aspirazioni e di quello che può e/o vuole raccontare. Il rischio di cadere in un facile escapismo è molto forte, e quello di narrare delle vicende un po’ trite lo è ancora di più.
In questo caso, il libro sembra essere posseduto da due anime (o due elementi, forse). Da un lato, c’è l’aspetto fantastico e metanarrativo di una dimensione altra, dove esistono cose (libri, nel nostro caso) che non esistono. Elementi già presenti in altri romanzi (le biblioteche fantastiche di Jorge Luis Borges, per citare solo uno degli autori più celebri ad aver toccato questo tema) o fumetti (il faro con le opere mai pubblicate in Hicksville di Dylan Horrocks), discorsi su libri e citazioni di autori che amplificano una bibliofilia estrema e che aprono il discorso, per chi le voglia esplorare, a nuove direzioni, per capire in modo più approfondito perché quell’autore e quell’opera vengono citati. Dall’altro, è presente un’ambientazione storica rappresentata in modo realistico, per quanto con punte di lirismo e ironia. Questo accostamento dà origine a uno degli aspetti un po’ diversi, rispetto al solito: il protagonista si muove tra due mondi diversi, nessuno dei quali è un paradiso o un luogo in cui rifugiarsi e decidere di rimanere: la Londra “normale” è una città ancora devastata dalla guerra conclusa da poco, che ha segnato profondamente, da un punto di vista psicologico, la sua popolazione (il fenomeno del crimine in crescita sottolineato diverse volte); la Londra parallela non è un mondo rassicurante bensì oscuro, che governa e dirige il nostro in tutte le sue diramazioni, legando a sé tutte le persone che, volontariamente o incautamente, oltrepassano il confine che separa le due realtà. È una dimensione che, oltre a mettere in pratica la pericoresi illustrata in due opere di Machen, incarna l’anamorfismo espresso, tra gli altri, da Hans Holbein il Giovane, come viene citato durante l’esposizione di Spare, per il tipo di rapporto e confronto che esiste tra le nostre due realtà. Però non è ancora chiaro a che cosa serve tutto questo. Forse è un dubbio futile, ma non è esplicito se lo scopo è “solo” quello di raccontare l’evoluzione della società e di un certo tipo di cultura che si è sviluppata nella seconda metà del secolo scorso, oppure se in realtà l’obiettivo è diverso. In questa mancanza di chiarezza trovo che sia presente uno dei due problemi del romanzo, se cioè quello che abbiamo affrontato è un’opera molto interessante, affascinante per molti aspetti, ma che, per il momento, rimane solo un’operazione puramente estetica. Ho apprezzato molto la prosa che si adatta in modo quasi perfetto alla materia narrata, il respiro che ha dato all’opera e il recupero della figura di Arthur Machen, mi ha fatto imparare alcuni aspetti della società britannica che non conoscevo e mi ha introdotto ad alcuni personaggi di cui vorrei approfondire la conoscenza (uno su tutti il pittore-occultista Spare), ritengo che i punti più alti del romanzo siano il prologo e il secondo viaggio a Long London, fino a quando Dennis e Austin Osman Spare sono ricevuti dalle “Teste della Città”, ma alla fine il risultato complessivo, anche per una linearità, ritengo eccessiva, degli avvenimenti e della materia esposta, sembra basarsi esclusivamente su una forma senza molta sostanza. A tutto questo non aiuta il protagonista Dennis Knuckleyard, troppo bidimensionale e “classico” nel suo essere un ragazzo normale. Le sue insicurezze e aspirazioni sono descritte e gestite in modo forse troppo superficiale, per cui non provo interesse nel seguire lo sviluppo, al momento eccessivamente meccanico, di un personaggio che appare infantile, considerata la sua età, le esperienze che ha avuto e il mondo in cui vive.
L’altro difetto che rilevo, forse quello più grosso e che in parte influenza anche quello appena descritto, è che il libro non ha una propria compiutezza ma sembra l’episodio pilota di una miniserie, o la prima parte della struttura in cinque atti, dove viene introdotta solo l’ambientazione e i personaggi principali. La linearità e la semplicità narrativa disarmante che di solito caratterizza il primo episodio di una nuova storia raggiunge, per assurdo, il culmine nel fatto che, a due terzi del romanzo, si potrebbe anche interrompere la storia perché la vicenda principale, quella da cui è partito tutto, si è conclusa e quello che segue sembra un aspetto un po’ esterno a quello che sembrava il fine del racconto. È sicuramente una scelta voluta quella dello scrittore di optare per questo tipo di meccanismo ma, abituati sia alle complessità delle sue architetture strutturali sia alla costruzione dei tipi di narrazioni che fruiamo quotidianamente (libri, fumetti, cinema, tv e videogiochi), quello che Alan Moore mette in atto mi rende perplesso. Recentemente avevo scritto che, per come sembrava dipanarsi The Great When, forse Moore non stava scrivendo cinque romanzi, bensì un’unica storia suddivisa, per ragioni di lunghezza, in cinque parti. Dopo aver letto l’epilogo, sono piuttosto certo che sia proprio questa l’operazione che sta portando avanti. A questo si aggiunge la questione che non può lasciare fin dall’inizio il lettore in attesa che avverrà molte pagine (e anni) dopo perché, se il gioco fosse così scoperto, probabilmente rischierebbe di perdere subito lettori. Per questa ragione, penso che abbia impostato il racconto come una storia a puntate, da un lato distribuendo qualche indizio sui futuri avvenimenti (gli accenni al possibile futuro negativo di Dennis nei confronti di Long London, confermato anche da come si sente lui stesso, dopo la morte di Clive; la chiave che ha ricevuto dall’Arcana… ma anche la creatura [probabilmente un papa delle lame] che ha visto nel suo sogno (che possa essere quello ciò che diventerà Clive perché, in realtà, è sopravvissuto?)], dall’altro scrivendo un epilogo che, con quel flash-forward, anticipa i libri futuri e li collega tra di loro. Però, a differenza delle miniserie, a fumetti oppure televisive, quello che non sembra essere presente, oppure non risulta eccessivamente accattivante, è il motivo per continuare la futura lettura delle prossime uscite, lo scopo che dovrebbe portare avanti l’intera vicenda. È una scelta un po’ pericolosa perché utilizza l’approccio tipico del prodotto di intrattenimento popolare, unendolo però a un’apparente conclusione della vicenda (il protagonista, da quel post-adolescente che è, prende la decisione “finale” e melodrammatica di rinunciare a vivere) che risulta insoddisfacente perché si percepisce che non è definitiva. È mancato, quindi, il “coraggio” di esplicitare la natura episodica della vicenda, realizzando forse uno strano ibrido, che non so quanto soddisferà realmente i suoi lettori. Sono state spese parole molto altisonanti per recensire questo libro e in parte sono vere, però ho anche l’impressione che forse Moore si è fatto prendere un po’ troppo la mano dal grande progetto che sta mettendo in campo e, personalmente, per quanto ho letto finora, non mi ha convinto completamente. Quando in futuro uscirà questo I Hear a New World, lo leggerò senz’altro perché è realizzato da un autore che amo, ma non certo per la curiosità che mi ha provocato questo inizio. Diamoci quindi appuntamento con il prossimo libro, quando, in un futuro (vicino? lontano?), verrà pubblicato.
Ha accumulato diversi sostantivi a cui può aggiungere il prefisso “ex” (fanzinaro, correttore di bozze, redattore, editore, letterista-impaginatore sotto pseudonimo, articolista…), mentre continua ancora, sporadicamente e per passione, a tradurre libri a fumetti.