Di Mostri e di Marco Corona

Lella Parmigiani | Interni |

Ci siamo!
In redazione il nuovo anno inizia con la proposta di affrontare almeno uno dei temi che ci si è sfangati l’anno precedente. Anarchici e ingovernabili come siamo, i pochi presenti spariscono sotto le scrivanie o si volatilizzano con la scusa di impegni improvvisi e improcrastinabili. Funziona così: l’unica regola che seguiamo con religiosa diligenza è quella delle date di chiusura. Adoriamo andare in vacanza.
I capi (ti prego di apprezzare il paradosso!) di questa accolita di libertari, lo sanno bene: per questo la mail con la divisione dei compiti è già arrivata. Alla mail non si può sfuggire. Allora mi sono presa il tema di ottobre, perché avevo lasciato in sospeso il discorso sui mostri.
Quando (Quasi) parla di mostri, è inevitabile che la priorità sia data alle immagini, partendo dal fantasy: graphic novel, libri illustrati, fumetti… Ma perché non risalire alle origini, fino al paleolitico, quando il concetto di “mostro” si affacciava per la prima volta nell’immaginazione dell’umanità con il linguaggio universale del disegno?

La grotta di Chauvet, in Francia, risalente a circa 36.000 anni fa, è un esempio straordinario di questo legame ancestrale e un tesoro dal valore storico-artistico-scientifico inestimabile. Immensa, contiene centinaia di dipinti parietali e incisioni di animali di altissima qualità pittorica, in perfetto stato di conservazione. Alcuni animali sono riconoscibili: mammut, bisonti, rinoceronti… altri combinati, come un leone con tratti umani, altri ibridi, a testimonianza di come l’idea del mostro – del diverso – ci accompagni dai primordi.
Questo eccezionale ritrovamento, avvenuto trenta anni fa, non rappresenta il culmine dell’arte paleolitica, bensì lo straordinario l’inizio, e traccia un prezioso percorso che dura circa 10.000 anni.

Adesso sprofondati nella poltrona e regalati la visione di questo video, perché, per mantenerne la perfetta conservazione, le grotte non sono accessibili al pubblico.

Ma è con l’evoluzione della parola monstrum che il concetto di mostro si definisce nei secoli, assumendo sfumature che non sono solo legate al diverso, ma anche alla nostra sfera interiore. Il mostro diventa simbolo di ciò che ci spaventa, ma anche specchio dei nostri lati oscuri: i mostri che li abitano ci conducono da secoli a interrogativi universali:

  • Chi pensiamo di essere e chi siamo veramente?
  • Cosa crediamo di fare e come gli altri interpretano le nostre azioni?
  • Quanto la nostra visione soggettiva schiaccia la realtà?
  • E soprattutto: esiste una realtá oggettiva?

Da Platone, che distingue il mondo delle apparenze (soggettivo) da quello delle idee (oggettivo), a Nietzsche, con il suo concetto di Übermensch e l’idea di confrontarsi con il proprio abisso interiore, passando per Jung, che descrive l’“Ombra” come il lato oscuro e represso della nostra psiche, il mostro è stato analizzato in ogni suo aspetto.
Per rispondere alla domanda “esiste una realtà?”, mi affido a Jorge Luis Borges, e al suo Il giardino dei sentieri che si biforcano, dove mette in dubbio l’esistenza di una realtà univoca, proponendo l’idea di realtà parallele e soggettive in continua moltiplicazione.

Ma se vuoi davvero entrare nelle viscere del mostro e viverne l’odissea, nessuno è più indicato di Franz Kafka. Kafka ti trasporta in una realtà che non ti appartiene, la realtà di chi appare agli altri diverso da ciò che è. Nessuno racconta meglio come forma, colore e linguaggio diversi generino il mostro, e come la vita da mostro sia – per l’appunto – mostruosa.
Con una precisione angosciante e una lucidità dolorosa, Kafka scrive di incomunicabilità, alienazione, frustrazione, inadeguatezza e disgusto trasportandoci in un realismo da brividi. La sua narrazione è così ricca, dettagliata e intensa da inglobare ogni tuo fremito. Non importa quale sia la nostra condizione né come siamo arrivati a essa: la sua scrittura ti trasporta, ti penetra, e se ne esce divorati.

(Quasi) si occupa di immagini e del loro inesauribile linguaggio. Scava, seziona e racconta la potenza delle immagini, mostrando (monstrare, monstrum, mostro) come la visione di esse venga plasmata dalla nostra interpretazione. Con passione e tanta, tanta dedizione cerca di toccare tutte le tue corde, anche quelle mostruose, in una ricerca continua di autori che vivano la vita e la traducano in disegni.

E chi meglio di Marco Corona per disegnare i nostri mostri? Quella parte oscura che dobbiamo imparare a riconoscere e affrontare.
La sua arte, intrisa di ossessioni e tensioni dialoga anche con i temi Kafkiani e spinge a confrontarci. Per raccontarti questa sua straordinaria mostruosità, riprendo l’articolo di ottobre, spiegandoti perché “Marco Corona è un mostro, come te e come me”.

Bazzicando tra gli articoli di (Quasi), ho scoperto, tempo fa, l’ultima produzione di Marco Corona.

Corona è un artista con un’identità forte, alla continua ricerca di nuove sfide con cui misurarsi. Ne Il viaggio, forse il più fumoso tra i suoi racconti surreali, le pagine sono affollate da personaggi molto singolari e senza tempo. Si cimenta qui con nuovi strumenti e nuove tecniche: opere digitali in cui combina tratti frenetici, volutamente sbavati e sporchi, a strati di retini squarciati da tagli magistrali che trasformano in luce la superficie spessorata da scale di grigi diversi, e distribuisce sulle pagine abbondanti secchiate di nero, per dare vita a spettri, incubi e memorie.
È un viaggio mentale, un’esplorazione visiva dei nostri mostri interiori.
Corona ha uno stile personalissimo, usa il nero per trascinarci nei suoi abissi, creando sequenze che sembrano in movimento, quasi una carrellata cinematografica. Zooma, stringe l’immagine, la ripete, la altera, finché senti la sua ossessione pulsare. Il ritmo visivo delle sue tavole ha quasi una qualità musicale: un’alternanza di pause e accelerazioni che amplificano il senso di immersione in te.

Sono pagine graffiate dai suoi incubi, puoi quasi percepirne il rumore. Le sue tavole sono il terreno di scontro tra l’incubo e la realtà.
Non seguo la trama, mi lascio trascinare dalla potenza visiva e dalla forza del segno perché Corona, che non ha mai smesso di esplorare il nero della mente umana, qui lo fa con una maestria che trasforma ogni disegno in un atto viscerale.

Nelle pagine de La galaverna, il suo fumetto precedente, la sua abilità manuale prende il sopravvento. I suoi tratti minuziosi – quella distesa di piccoli segni che animano le tavole dando movimento – sono i veri protagonisti.
Le illustrazioni si susseguono, lasciandoci sospesi tra la magia e l’incubo; alterna disegni accurati, ricchi di dettagli, a tavole misteriose e a riquadri inondati, fino all’ossessione, di croci, teschi, bulbi oculari e ragnatele che paiono volere uscire dalla gabbia e invadere gli spazi circostanti, rimandando ai nostri sogni più allucinati.
Le linee ammaliano e inquietano in una combinazione sensoriale strana. I contrasti sono incisivi e i balloon – grazie, Corona! – non disturbano mai l’immagine.

Corona spinge chi guarda a confrontarsi con l’ignoto, oltrepassando i confini del conosciuto. Ci fa immergere nelle profondità di ciò che preferiamo ignorare e nelle paure che non affrontiamo; racconta di situazioni difficili e contorte, nelle quali i lettori inquieti, insoddisfatti e curiosi possono navigare.
Marco Corona è un autore per portatori sani di stupenda follia, quelli che non hanno paura di varcare i confini. E, quei confini, ce li fa varcare splendidamente.
C’è una bellezza misticamente inquietante nei suoi tratti, una tensione tra il visibile e l’invisibile. Chi è affascinato da ciò che non conosce trova negli spazi bianchi, disposti con sapienza, un modo per rallentare la lettura e creare pause che permettono di ascoltare ciò che ti vibra dentro.

I suoi mostri sono i tuoi mostri – quelli veri, quotidiani, interiori – quelli con cui confrontarsi.

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(Quasi)