«Avere giustizia è che tutti sappiano la verità». La frase di Licia Pinelli, estratta da Una storia quasi soltanto mia, libro-testimonianza scritto con Piero Scaramucci, l’ho citata talmente tante volte che temo d’averla inflazionata. Stavolta però voglio proportela nella sua forma completa. Leggila tutta, solo dopo potrò cominciare sul serio.
Davvero non sta succedendo niente? Ti dico di Satnam Singh…
Giuro. Ero convinto che il tema del mese fosse «Niente da buttare», invece è «Non sta succedendo niente». Poco conta, i due argomenti mi sembrano affini, specie in questo periodo solitamente dedicato al riassunto dell’anno passato, e la mente vaga confusa fra i ricordi del 2024. Molti sono dolorosi. Non un granché ‘sto 2024. Di Licia ti ho detto, l’ho già ricordata qui e la sua frase, vedrai, sarà utile lungo il nostro viaggio.
Tra i brandelli del 2024 trovo un altro volto, meno noto e pure sfocato. E persino la scarsa definizione dell’immagine ha un significato.
Il nome di Satnam Singh, dai, qualcosa ti dice. Se sei ancora frastornato da disordini alimentari e abbondanti libagioni dell’ultimo periodo, rimedio subito.
Era un bracciante di origine indiana, morto in un ospedale a Roma il 19 giugno scorso. Aveva 31 anni. Privo di permesso di soggiorno, lavorava insieme alla moglie Soni (meglio, venivano entrambi sfruttati) in un’azienda agricola. Privi di contratto, paghe da fame, orari di lavoro molto superiori a quelli consentiti dalla legge o dal buon senso. Mentre lavorava, un macchinario gli ha tranciato un braccio e provocato altre gravi ferite. Il datore di lavoro, invece di portarlo all’ospedale, ha pensato bene di scaricarlo davanti alla sua abitazione, in provincia di Latina, abbandonando il braccio mozzato fra i rifiuti. Due giorni dopo, Satnam è morto. L’autopsia ha stabilito che un soccorso tempestivo probabilmente l’avrebbe salvato.
Stando alle scarse cronache successive all’incidente, oggi non so dirti molto di più. Soni ha ottenuto il permesso di soggiorno per motivi di «protezione speciale» e vive ancora in provincia di Latina. Il datore di lavoro è accusato di omicidio. In alcuni articoli ho letto che Satnam raccoglieva zucchine. In altri, pomodori o meloni. Il braccio è stato gettato in una cassetta di ortaggi. Indicazione stavolta generica, ma a suo modo precisa.
Io sarò anche – già detto più volte, lo so – un vecchio arnese novecentesco. No, nostalgico no, nessun rimpianto per i «bei tempi passati» mai esistiti. Però mi sarei aspettato qualcosa di clamoroso come reazione alla morte di Singh. Non pretendo qualche cantante che strepita come se a un collega fosse stato ritirato l’invito al concerto di Capodanno (sì, sono ironico), ma almeno uno sciopero generale, di quelli che paralizzano il paese, una manifestazione incazzata e indignata. Facciamo casino, facciamoci sentire. Che Singh sia l’ultimo, vivaddio…
Per carità, il 22 giugno c’è stato uno sciopero di due ore. Molte persone, fra queste moltissimi braccianti di origine sikh che vivono uguali condizioni di sfruttamento, hanno chiesto giustizia per Singh. Per il resto, poco o niente. Non è successo niente, «non sta succedendo niente», nel rispetto del tema mensile. E, pure, non c’è niente da buttare. Mica solo il braccio di Satnam, gettato con noncuranza nella spazzatura. Proprio la sua vicenda, dico: non finisca pure lei nella cassetta di ortaggi della Storia.
Sappiamo che viso avesse. E pure come si chiamava…
Ti parlo di storie e di giustizia, diversamente declinata, cercata o negata. E di volti persi nelle pieghe della cronaca. Volti, appunto…
Probabilmente Francesco Guccini davvero non sapeva che viso avesse Pietro Rigosi, che ha ispirato La Locomotiva. Il Maestro da Pavana racconta di aver appreso in ambienti anarchici la storia del fuochista, improvvisatosi «macchinista ferroviere», che il 20 luglio (data significativa, direi…) del 1893 si impadronisce di una locomotiva e la dirige, a tutta velocità e in solitaria, verso Bologna. Deviata su un binario morto, si schianta «eruttando lapilli e lava» contro altre carrozze ferme per riparazioni. Rigosi fu davvero raccolto «che ancora respirava». Anzi, per la cronaca se la cavò con una gamba amputata e il volto sfigurato. Nella realtà non spiegò mai il perché del suo gesto. Ma a noi non solo piace «pensarlo ancora dietro al motore», ma pure immaginare che la sua sia stata un’azione anarchica. Chiunque abbia assistito a un concerto di Guccini può confermarti che a quei versi («la fiaccola dell’anarchia» e «trionfi la giustizia proletaria!») gli applausi e le voci del pubblico esplodevano in boati fragorosi e liberatori.
La storia del mostro che «divorava la pianura» e della canzone la puoi trovare ormai in mille modi. È tornata alla ribalta proprio a fine 2024, prima per dichiarazioni di Jovanotti e poi per una bella intervista al suo autore sul Corriere della Sera. Io, giuro, l’avevo già in mente quando ho cominciato questo pezzo, e comunque ti consiglio di leggerla in L’anarchia in cento canti di Alessio Lega (Mimesis, 2023). Lì puoi trovare anche un articolo datato 21 luglio 1893 che racconta la vicenda, e contestualizzare la sua trasposizione nel più importante canto anarchico della contemporaneità, «una sorta di esercizio letterario, proprio sulla scorta dell’amore [di Guccini, ndr] per Pietro Gori». Ormai non è più sconosciuto neppure il volto del protagonista, ritratto su un periodico d’epoca.
C’è da fare un ragionamento su questo. Sul fatto che «Pietro Rigosi vero» sia meno affascinante dell’eroe senza volto cantato da Guccini. Perché, appunto, nella fantasia «gli eroi son tutti giovani e belli». Occhio però: se il ragionamento lo fai sul serio, ti prende per mano e ti riporta a rovistare fra i rottami del 2024, fino a una storia ben più nota.
Sorridi, ragazzo…
Questa vicenda è molto più recente. Se non sei stato sfollato su Marte ne hai sentito parlare.
A sorridere, oggi lo sai, è Luigi Mangione. La foto lo ritrae il 4 dicembre scorso in un negozio, poco prima di uccidere Brian Thompson, amministratore delegato della United HealthCare, azienda leader del florido mercato statunitense delle assicurazioni mediche, nota per gli alti profitti e l’altissima quota di risarcimenti negati. Lo sai oggi, appunto.
Ora riavvolgi il nastro fino a quando di lui conoscevi solo il sorriso. Spogliati, ti prego, di qualsiasi inclinazione morale o ideologica verso il gesto specifico o la violenza in generale. Fermati al solo fatto immediato e alle sue conseguenze (questa, in fondo, dovrebbe essere la materia di cui è fatta la Storia: fatti e conseguenze). Personalmente sono stato colpito non tanto – non solo – dal florilegio di commenti alla «ben gli sta» o dalle faccine sorridenti (migliaia, dico…) postati a mo’ di necrologio sulla pagina dell’azienda. A colpirmi sono stati i commenti più articolati. Gente che commentava l’omicidio raccontando la propria rabbia – contro la United HealthCare o in generale il sistema delle assicurazioni sanitarie. Storie dolorose di cure ritardate o negate, di risarcimenti esclusi. Tutto a dimostrare quanto sia vivo, nell’opinione pubblica americana, il rancore verso uno dei settori più rappresentativi del capitalismo made in USA, che persino nel campo della salute antepone il profitto a qualsiasi considerazione etica. Insomma, nell’immediato l’assassino di Thompson, di cui in quel momento non conosci volto o identità, ma solo il sorriso, ha goduto di molte simpatie. Pure oggi, okay, ma adesso lascia «il dopo» in un angolo.
Dicevo. In quei giorni l’assassino non è ancora Luigi Mangione. Davvero non sai che volto abbia o quale sia il suo nome, come nella canzone di Guccini. Con la rivelazione della sua identità la faccenda si fa più incasinata. Il ragazzo è benestante, forse qualche problema di salute ha alimentato in lui più un livore personale che non una «coscienza di classe» e le sue opinioni politiche, a quanto pare, non sono ben definite…
[URGE UNA PRECISAZIONE, poi riprendiamo. Ho la sensazione che, se fino a ora le cronache sul caso sono state ricche e dettagliate, da qui in poi lo saranno molto meno. Dubito si voglia correre il rischio di trasformare il processo a Mangione nel palcoscenico in cui discutere le storture di un sistema sanitario che condanna a morte le fasce più povere della popolazione. E, se la mia sensazione è esatta, non credo ci si possa fidare troppo di ciò che ci sta arrivando e arriverà in merito alle opinioni di Mangione. La passione per il libro di Ted Kaczynski, i problemi alla schiena che forse avrebbero radicalizzato il suo risentimento verso il sistema sanitario: tutte cose da prendere con le molle. Ma tant’è: questo è il materiale a disposizione, questo posso elaborare, cercando di stare attento alle parti che maggiormente puzzano di bruciato o di merda. Fine del disclaimer.]
Benestante e con opinioni politiche non ben definite, dicevo. Forse di sinistra e anticapitalista, forse banalmente antisistema, per sintetizzare. Nel casino di sensazioni che può darti questa vicenda, esasperato dalla puzza di bruciato a cui accennavo sopra, una buona bussola per orientarsi può essere l’insegnamento di Eugenio Montale.
Quello che non…
«Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo»
Insomma, poche certezze, meno ancora parole sacre al sapore di verità, di certo nessuna formula magica ad aprire le porte della Rivelazione. Però questa visione apparentemente negativa non è una sconfitta. Magari non sappiamo bene-bene chi siamo o cosa pensiamo, di fronte a certi dilemmi etici, ma sappiamo cosa NON siamo. Se si accontenta Montale, figurati io. E io, questo lo so per certo, NON sono Elon Musk.
Ma più ancora dell’ormai prossimo ministro a-non-so-bene-cosa dell’amministrazione trumpiana mi aiuta a capire cosa non sono, Federico Rampini nel suo editoriale apparso sul Corsera on line l’11 dicembre scorso.
Rampini, fedele alla sua figura di non-so-bene-cosa (ma un non-so-bene-cosa che qualcuno si ostina a definire progressista) non nega «le ingiustizie, le iniquità, gli alti costi, le cure negate». Però tiene molto a dipingere Mangione come un ingrato figlio di quel capitalismo che vorrebbe colpire («educato in una prestigiosa università di élite, rampollo di una famiglia molto benestante del Maryland») e soprattutto vuole stroncare l’idea di giustizia sociale attraverso atti violenti. E fino a qui ci sta, si può non essere d’accordo ma ci sta…
Il bello lo lascia nella chiusa finale, quando Rampini HA DETTO:
«Una delle conseguenze sicure del gesto omicida di Luigi Mangione non è che avremo delle assicurazioni sanitarie meno costose, più generose nei confronti dei pazienti. No. Avremo questa conseguenza sicura, le compagnie assicurative spenderanno ancora di più per le guardie del corpo dei loro top manager … per proteggere i loro chief executive e alla fine questo lo pagheremo noi sotto forma di tariffe e premi assicurativi ancora più esosi.»
Il tradizionale VOLEVA DIRE da Tradrittore porterebbe facilmente un tocco di leggerezza in un pezzo che, lo riconosco, è assai cupo (buon anno anche a te, checcazzo!). Invece sono qui a rileggermi la chiusa del Rampini (pirla io, chiaro) e a trovare inaspettatamente doloroso il mio compito. Perché l’editorialista del Corsera ti dice, con candore al tempo stesso spudorato e paradossalmente apprezzabile per sincerità, di accettare una sconfitta epocale. E manco se ne accorge! Non prova a dirti che la violenza non va utilizzata, indicandoti una strada alternativa. Quello sarebbe andato bene, discutiamone, ci mancherebbe… No, lui dice «Certo, le assicurazioni sanitarie sono più malvagie della strega di Biancaneve, però l’omicidio di Thompson può solo renderle più stronze, e il conto lo pagheremo noi coi nostri premi assicurativi!». Insomma, siamo al «there is no alternative» predicato da Margaret Thatcher. Le compagnie assicuratrici sono belve feroci e feroci sono le loro pratiche, perfettamente legali, ma stuzzicarle le renderebbe ancora più cattive.
Insegnamenti da riscrivere
Un chiarimento è d’obbligo, sennò chiami la Digos. Io non riesco nemmeno a urlare uno slogan in una manifestazione. Ho proprio una repulsione verso la violenza. Non voglio vendertela come una visione alta, eticamente costruita e consolidata. No, è proprio una cosa istintiva. Così come la ragazza interpretata da Ana De Armas in Knives Out non riesce a mentire senza vomitare, così io provo disgusto fisico verso ogni atteggiamento violento. Fermo restando questo, ci sono due cose che ti inculcano da piccolo e che sono enormi stronzate.
La prima: il crimine non paga. Balle, paga benissimo, pure in nero. Ha i suoi rischi, certo, ma le statistiche stanno a dimostrare che purtroppo pure il lavoro regolare e salariato non è esente da rischi, anzi. Sarebbe più utile, seppure complesso e faticoso, insegnarti i principi di convivenza civile per cui il crimine va rifiutato, anche quando paga…
La seconda: con la violenza non si ottiene niente. Altre balle, la storia è una catena di situazioni risolte dalla violenza, a volte verso il progresso e a volte in senso contrario. Però, nella prospettiva di favorire un passaggio da un momento al successivo (ricordi? Fatti e conseguenze…) la violenza ha sempre avuto un ruolo. Pure in questo caso la lezione è una scorciatoia, preferita all’insegnare che la violenza è solamente la via più breve per risolvere un problema. Altre, sebbene più tortuose, sono preferibili se vogliamo dirci civili. Che poi, pure «civili» è un’approssimazione del cappero… Se vogliamo cercare di vivere assieme senza romperci vicendevolmente i coglioni, ecco.
Ma torniamo a Luigi Mangione.
Il suo gesto, sì, fa venire in mente La Locomotiva. O, per dire, Gaetano Bresci. C’è l’attacco al potente, la fascinazione estetica, le scritte sui bossoli (deny, delay, depose). Insomma, richiami forti alla «giustizia proletaria» o al «non ho ucciso Umberto. Ho ucciso il re. Ho ucciso un principio». A vedere queste analogie non sono il primo, anzi, sono il più lento. E le similitudini ci sono tutte. Però, almeno credo, c’è qualcosa di più e di diverso. Per dirtelo, userò anche un po’ di fumetti. Partendo da Watchmen.
Finalmente (anche…) fumetti – parte 1
Non è il caso di tediarti con un sunto del lavoro di Alan Moore e Dave Gibbons. Mica sei su certi siti di critica fumettistica. Su (Quasi) i popup vengono abbattuti come piattelli al tiro a segno. Giusto due parole, tagliate con l’accetta, su un personaggio.
Nato in un ambiente difficile, maltrattato dalla madre prostituta come dai suoi clienti, Walter Kovacs è cresciuto cercando riscatto e realizzazione come «vendicatore mascherato», animato da una visione della giustizia a dir poco draconiana, priva di sfumature o pietà per i criminali. Una visione che trova piena realizzazione quando Kovacs si occupa del rapimento di una bambina di sei anni, scoprendo che il suo aguzzino l’ha uccisa, fatta a pezzi e data in pasto ai cani. L’orrore e la rabbia sconvolgono Kovacs, trasformandolo davvero nel giustiziere di cui, fino a quel momento, aveva solo indossato nome e maschera. Rorschach, da quel momento, è la sua vera identità e quella maschera ne ricopre il volto quanto l’anima.
Del personaggio si potrebbe scrivere a lungo, sbizzarrendosi in etichette contrastanti e in gran parte tutte vere. Misogino. Bigotto. Fascista. Cinico. Feroce. Triste. Disperato. Instabile. Tragico. Bisognoso di affetto. In fondo, solo un uomo segnato dalla vita. Ancora più in fondo, Rorschach è l’unico a opporsi sul serio a Ozymandias che, seppure per «nobili motivi», ha progettato uno sterminio. Si oppone alla sua maniera, senza mezze misure o compromessi, e alla possibilità di tacere il massacro, rendendosene complice, preferisce la morte.
Starai però chiedendoti a cosa mi serve, qui e ora, il personaggio di cui ti ho dato una veloce infarinatura. Bene, ecco il punto.
Lungo il racconto, Rorschach cade in una trappola e finisce per qualche tempo in carcere, dove viene seguito dal Dr. Long, psicologo del penitenziario. Durante quelle sedute il Dr. Long scopre, e tu con lui, come Kovacs si sia trasformato nel feroce giustiziere di cui abbiamo detto. Scopre, e tu con lui, la storia della bambina seviziata e uccisa. Ascolta soprattutto, e tu con lui, la parte più intensa di quel monologo-confessione. Una delle pagine che più mi ha segnato, in assoluto e non solo fra i fumetti, come lettore.
Non analizzare il gesto e le parole di Rorschach secondo categorie morali, così come ti ho chiesto di evitarlo per Mangione. In entrambi i casi più che giustizia vedo rabbia, odio e vendetta. Però, attenzione, è ora che qualcuno dica che odio o vendetta sono inclinazioni dell’animo (sentimenti, categorie mentali, non so, definiscili come ti pare) perfettamente umani. Di sicuro ne esistono di più nobili, ma umani sono. La giustizia è altra cosa. E qui non voglio minacciare le tue palpebre, già pericolosamente a mezz’asta. Se sei interessato fino all’autolesionismo puoi leggere un vecchio aneddoto che ho raccontato qui. Altrimenti puoi tornare alla frase di Licia Pinelli, che a quel concetto dà un senso non facile da applicare, ma assai più alto. E, a proposito di giustizia e vendetta spacciata per essa, arrivo agli ultimi volti del 2024.
Ancora (anche…) fumetti – parte 2
Qui sopra vedi Filippo Turetta, condannato in primo grado all’ergastolo per l’uccisione di Giulia Cecchettin, così come, pochi giorni prima, Alessandro Impagnatiello per il femminicidio di Giulia Tramontano.
Chiariamo. Se uno «da destra» (per semplificare) mi dice che Turetta deve marcire in galera e magari meriterebbe la pena di morte, posso capirlo e non mi ci metto neanche a commentare o argomentare. Ma non posso farlo se le stesse cose me le dici tu. Tu che magari, in tempi che neppure ricordi, ti sei battuto per migliorare le condizioni di vita dei detenuti, o per sensibilizzare la società contro il sovraffollamento carcerario o i suicidi dietro le sbarre.
Qualcuno deve dirtelo: sì, l’ergastolo è una pena inumana e degradante. Anche per Turetta, che mi fa schifo. Pure per Impagnatiell che, se possibile, mi schifa persino di più. Le loro azioni sono terribili, atroci (aggiungi liberamente qualsiasi aggettivo ad altro gradiente di disgusto: tutti adatti). Soprattutto, definitive e irrimediabili. Voltare la testa dall’altra parte per non vederle non le renderà meno schifose, però esultare per gli ergastoli ai colpevoli non darà cura o consolazione. Questa «giustizia emotiva» lasciala ai fasci, consapevoli o meno che siano. Loro sanno bene come sguazzarci, tu no. E nemmeno capisci dove ci porterà. L’aria che tira è già abbastanza mefitica, evita di unirti al coro «più galera per tutti», che della sicurezza al massimo solletica la tua borghese percezione, senza aumentarla davvero. Perché, ricorda…
La vignetta è tratta da Zodiac (Oblomov, 2024), fumetto realizzato da Gianluca Costantini con Elettra Stamboulis sulla vita di Ai Weiwei. La brevissima citazione ti valga come consiglio di lettura (tempo permettendo, chissà, un giorno ci scriverò almeno un post-it).
A me ha fatto sorridere pensare che il proverbio citato da Ai Weiwei esiste anche da noi. In Toscana suona come «tosto si trova il bastone per dare al cane». E certamente in Italia c’è molta gente ansiosa di armarsi di bastoni con cui sfogare la propria miseria esistenziale. Contro persone come Satnam, o come Ramy Elgaml, morto lo scorso 24 novembre a Milano.
Pure questa storia la conosci. Uno scooter non si ferma all’alt dei carabinieri. La moto è guidata da Fares Bouzidi e ha come passeggero Ramy, 19 anni. Si innesca un inseguimento, manco i due ragazzi fossero Bonnie Parker e Clyde Barrow o una colonna dell’Isis. Anzi, peggio: manco fossero Bonnie e Clyde affiliati all’Isis. Poi, all’incrocio tra via Ripamonti e via Quaranta, il contatto fra la gazzella dei CC e lo scooter, lo schianto contro il semaforo. Ramy muore sul colpo, il guidatore se la cava.
Tutte cose che sai. Avrai saputo del testimone che ha ripreso l’incidente e racconta che i carabinieri, scesi dall’auto, gli hanno intimato la cancellazione del video. E avrai sentito le registrazioni con le voci degli agenti. «Chiudilo, chiudilo che cade… Merda, non è caduto», «Stringi, che lo prendiamo», «È caduto», «Bene!».
Ora il carabiniere alla guida dell’auto è indagato per omicidio stradale, così come Fares. Altri agenti sono accusati di frode processuale, depistaggio e favoreggiamento. Ramy avrebbe compiuto il ventesimo compleanno il 17 dicembre, quando io ne ho fatti 59.
E a te che non leggi e non esisti: ancora buon anno, eh. Davvero non sta succedendo niente?
Vive una crisi di mezza età da quando era adolescente. Ora è giustificato. Ha letto un bel po’ di fumetti, meno di quanto sembra e meno di quanto vorrebbe. Ne ha pure scritti diversi, da Piazza Fontana a John Belushi passando per Carlo Giuliani (tutti per BeccoGiallo) e altri brevi, specie per il settimanale “La Lettura”. Dice sempre che scrive perché è l’unica cosa che sa fare decentemente. Gli altri pensano sia una battuta, ma lui è serio quando lo dice.