Come se fosse Antani (5 di 12)

Boris Battaglia | come se fosse Antani |

Capitolo quinto – Ciò che valgo, se valgo qualcosa

Capitolo quinto di dodici. Dove ti racconto, tagliandola giù con il machete, la parabola esistenziale dell’“anarcoide malvestito” Pietro Germi, uno dei più (non dico “il più” solo per la mia abituale moderazione) grandi registi italiani della seconda metà del secolo scorso, che qualcuno ha avuto il coraggio intellettuale di definire come il John Ford di questo paese.

«Quando iniziò a fare delle commedie, rimanemmo di stucco. Nessuno di noi sospettava minimamente che Germi possedesse il senso dell’umorismo»

Tullio Pinelli

Quello per cui la commissione per l’ammissione al Centro Sperimentale di Cinematografia respinge la richiesta di iscrizione di Pietro Germi al corso di regia, è un problema amministrativo-burocratico: il giovane genovese ventitreenne non è diplomato. Questo fatto non è trascurabile né aggirabile.

Nato il 14 settembre del 1914 nel capoluogo ligure, Germi era avarissimo di racconti sulla sua infanzia e giovinezza genovesi. Nemmeno i suoi più cari amici, Mario Monicelli, Leonardo Benvenuti o Tullio Pinelli sapevano qualcosa (se non aneddoti approssimativi e inesatti) di quel periodo. Quello che sappiamo con certezza è che, come era comune nelle famiglie della piccola borghesia mercantile genovese e probabilmente senza alcuna vocazione di diventare comandante di una nave, nel 1931 si iscrive all’Istituto Nautico. Il terzo anno di questo corso di studi superiori prevedeva, come momento di formazione degli studenti, di far parte per tre settimane dell’equipaggio di una nave da crociera. Le rotte erano due: una tutta mediterranea, Marsiglia, Barcellona, Atene, Bari; l’altra orientale che arrivava fino a Odessa. Sappiamo dal racconto della sua prima moglie, Anna Bancio, che Germi aveva scelto la rotta orientale, con l’intenzione di rimanersene in Unione Sovietica. Millantasse o fosse vero, quello che è certo è che si era messo a studiare il russo e che, per questa scelta, subì un duro controllo dei carabinieri.

Durante il fascismo, il controllo da parte delle forze dell’ordine di chi si candidava spontaneamente a percorsi che avessero come meta l’Unione Sovietica era un’operazione di routine, volta a verificare le inclinazioni ideologiche del soggetto. A questo si sommava il fatto che Germi era minorenne, motivo per cui i controlli erano ancora più severi. Durante l’incontro con i carabinieri Germi si rifiutò di dare le motivazioni che lo avevano portato alla scelta di quella rotta e soprattutto, si rifiutò di dare certezza alle istituzioni circa il suo ritorno in patria. Ovviamente non gli fu concesso il permesso per quella crociera e dovette ripiegare sulla rotta mediterranea.

Questa cosa lo contrariò al punto che alla fine del quarto anno abbandonò l’Istituto Nautico senza diplomarsi. Il mare non sarebbe stato la sua vita. Disse in una bellissima intervista concessa a Oriana Fallaci e pubblicata su “L’Europeo” nel giugno del 1962: «Mi innamorai del cinema appena abbandonata quella nave».

La sua formazione cinematografica, si muove lungo due percorsi: uno, come dice Mario Sesti nel suo fondamentale Tutto il cinema di Pietro Germi (Baldini e Castoldi, 1997), consistente nella «sovraesposizione furiosa dello spettatore alla luce dello schermo» – tanto per dire: si vede diciannove volte  À nous la liberté di René Clair e sedici volte Il traditore di John Ford; l’altro nella frequentazione come attore di una scalcagnata filodrammatica di un piccolo teatro del quartiere di Castello.

È durante questa sorta di apprendistato che matura la decisione di abbandonare gli studi scolastici.

Appena maggiorenne si trasferisce per un anno a Milano, dove campa facendo lo spedizioniere.

Non sai quanto mi sarebbe piaciuto poterti raccontare che tra la nebbia e i cinema meneghini conobbe e divenne amico di quei tre ragazzi di cui ti ho raccontato fino a qui: Mario, Alberto e Cesare; ma questo non è un romanzo d’appendice, non tutto si tiene come in uno strano anello. L’amicizia tra Germi e Monicelli dovrà aspettare per nascere quasi un decennio. Nell’anno – il 1936 – durante il quale, per quel che ne sappiamo, Germi vive in totale abbruttita solitudine in una soffitta della Bovisa, Monicelli e suo cugino muovono i primi passi nella produzione cinematografica tra Tirrenia e Roma, mentre Civita è completamente e definitivamente assorbito dalla sua attività di redattore mondadoriano.

 Alla fine di un anno completamente infruttuoso, Germi torna a Genova, dove matura la decisione definitiva di lavorare nel cinema. All’inizio del 1937 manda un soggetto ai GUF (Gruppi Universitari Fascisti) di Genova che erano incaricati di fare la preselezione per le richieste di iscrizione al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Viene scartato. Furioso Germi scrive una lettera di fuoco direttamente alla segreteria del Centro in cui smonta punto per punto la relazione di bocciatura del GUF e termina dicendo che «io non posso ritenermi bocciato poiché non sono stato sottoposto ad alcun esame… chiedo rispettosamente di essere ammesso agli esami di Roma, si che io possa dimostrare ciò che valgo – se valgo qualcosa».

Beh, probabilmente chi lesse quella lettera decise che il ragazzo che l’aveva scritta qualcosa valeva davvero. Pietro Germi è convocato a Roma dalla commissione esaminatrice del Centro.

Nell’autunno del 1937 Germi lascia per sempre Genova e si trasferisce nella capitale.

La commissione giudicatrice, formata da Luigi Chiarini, Umberto Barbaro, Paola Borboni e Alessandro Blasetti, è assolutamente ben impressionata dal candidato arrivato da Genova, ma c’è quel problema insormontabile. Il ragazzo non è in possesso di un diploma. Non può iscriversi al corso di regia.

I pochi critici e storici cinematografici degni di attenzione che si sono occupati di questa storia (in sostanza Fernaldo di Giammatteo, Giorgio Santarelli, Gianni Rondolino, Ephraim Katz e Mario Sesti) non sono in grado di affermare con certezza che a leggere la lettera inviata da Germi alla segreteria del Centro Sperimentale e ad averlo quindi chiamato a Roma sia stato proprio Blasetti. Ma, per come andarono le cose da questo momento in poi, possiamo supporlo con buona probabilità. Perché è proprio Alessandro Blasetti a darsi da fare per risolvere il dannato problema del mancato diploma.

Che cos’è il genio? Fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità d’esecuzione.

Blasetti vuole quel giovane al corso di regia, ne intuisce il talento. E ha un’idea geniale: Germi verrà accettato al corso di recitazione (per il quale non è necessario il diploma… poi magari apriamo un dibattito su questo punto decisamente classista, per cui il regista è un’attività che richiede una testa formata da un’istruzione “superiore” mentre l’attore e -probabilmente ancor più l’attrice- richiede solo il corpo; d’altra parte anche se poi si ricicleranno tutti inventandosi a posteriori fronde intellettuali mai esistite, erano la pura emanazione di un’istituzione fascista) ma frequenterà poi le sue lezioni al corso di regia.

Non fu un periodo facile. Durante gli anni passati al Centro «bisticciavo con tutti ma ero felice», racconta sempre nell’intervista fattagli da Fallaci. Per quanto protetto da Blasetti e, in parte anche da Chiarini, per il suo comportamento sprezzante e irriguardoso dell’autorità, si fa un sacco di nemici tra i burocrati dell’istituzione fascista. Comunque, realizza un paradosso. Pur senza diploma si diploma regista, con un corto girato nel 1939 insieme al suo compagno di corso, futuro produttore, Dino De Laurentis. Nel 1940 si sposa e viene richiamato alle armi, ma a causa di una grave pleurite e più probabilmente per intercessione del solito Blasetti, evita l’invio al fronte e collabora con il massimo esponente della propaganda fascista alla realizzazione di due film fondamentali dell’epoca: Retroscena e La corona di ferro.

Il tuo futuro, quello che combini poi nella vita, dipende sempre dalle persone che incontri. Pietro Germi, che aveva un carattere di merda, ebbe la fortuna di incontrare sulla sua strada persone che dietro a quel carattere videro tutto quello che valeva. Fu grazie alla benevolenza di Alessandro Blasetti (che gli farà da supervisore durante le riprese) se, quell’ “anarcoide malvestito e pieno di tic” (come lo definì Adriano Baracco, critico e sceneggiatore oggi giustamente dimenticato) arrivò, attraverso un percorso ambiguo e non certo privo di compromessi (c’è un buco, simile a quello della sua infanzia, nella biografia di Germi relativamente ai due buissimi anni dell’occupazione nazista di Roma: non sappiamo praticamente nulla di come trascorse il ‘43 e il ‘44), a realizzare il suo primo film da regista.

Nella primavera del ’45 gira Il testimone, uno dei 25 film italiani che usciranno nelle sale nel 1946. Il suo aiuto regista è Mario Monicelli.

Come Monicelli arrivò, da ciacchista di Ballerine a essere l’aiuto regista del primo film di Germi, te lo racconto nel prossimo capitolo. Adesso mi preme dirti che durante le riprese tra Pietro e Mario nacque un’amicizia che non si esaurirà nemmeno dopo la morte di Germi. Un’amicizia nata in modo difficile, perché  – come racconta Olga D’Ajello seconda moglie di Germi –per Pietro il rapporto con gli altri era un incubo: appena si accorgeva che qualcuno cercava di avvicinarglisi, lui scappava, rifuggiva da ogni rapporto impegnativo. Chissà, probabilmente fu merito di Monicelli che non si scoraggiò e capì l’uomo sotto quella scorza di timidezza e stronzaggine, oppure diventarono amici perché in fondo erano uguali, ma  la loro fu un’amicizia così profonda che, quando nel 1965 Pietro perse la moglie Anna, l’unica persona di cui, per lungo tempo tollerò la vicinanza fu proprio Monicelli.

Ma bando ai sentimentalismi. Quello che sto scrivendo non è un saggio su Pietro Germi e il suo cinema, quindi – per quanto per indole mi dilungherei a spiegarti perché – nonostante certa ottusa critica marxista (Guido Aristarco e quell’Umberto Barbaro convertito dal fascismo al comunismo) che lo ha sempre sminuito per risibili motivi ideologici-  sia, a livello di sintassi cinematografica, uno degli autori più rivoluzionari di quel meraviglioso ventennio (per il cinema) che va da Il brigante di Tacca del Lupo ad Alfredo Alfredo – mi tocca tirarla giù con il machete (come dicevo all’inizio) e fartela breve.

Tra il 1945 e il 1972 Germi realizza diciotto film, tra i quali almeno cinque capolavori assoluti: Il ferroviere del 1955, Un maledetto imbroglio del 1959, Divorzio all’italiana del 1961, Sedotta e abbandonata del 1963 e Serafino del 1968. Dopo Serafino la vena di Germi sembra spegnersi, Le castagne sono buone, del 1970 è una requisitoria moralista con pretese edificanti, mentre Alfredo Alfredo del 1972 è un film a tema (il divorzio) assolutamente privo di quella fluidità del ritmo tipica della sua sintassi cinematografica.

Sicuramente la malattia di cui è affetto dalla fine degli anni Sessanta, una cirrosi aggravata da epatite, ha avuto il suo peso nel declino della sua capacità di racconto.

Proprio alla fine del ’72 i medici gli dicono con chiarezza che la sua patologia è incurabile e che non gli restano molti anni di vita.

A causa della malattia, il suo ultimo progetto, un film sull’equilibrio tra cinismo e sentimentalismo che governa le dinamiche che legano un gruppo di amici -tema inusuale per uno che rifuggiva come lui le implicazioni dell’amicizia – rischia di non essere realizzato perché le assicurazioni non accordano la copertura necessaria all’inizio delle riprese. È l’amico Monicelli a sbloccare la situazione, impegnandosi ad assisterlo nella regia e, in qualsiasi evenienza, a terminare il film.

Tra il ’73 e il ’74 Pietro Germi, Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi e Tullio Pinelli lavorano alla sceneggiatura di quello che avrebbe dovuto essere il suo diciannovesimo film. Ma nell’autunno del ’74 Germi si aggrava in modo definitivo. Non può in alcun modo assumersi la regia del film che passa definitivamente a Monicelli.

Muore il 5 dicembre 1974, proprio il giorno stesso in cui cominciano le riprese di Amici miei.

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