C’è questa scena di La zona d’interesse ─ scritto e diretto da Jonathan Glazer sulla base del romanzo omonimo di Martin Amis ─ dove la moglie del comandante di Auschwitz Rudolf Höß prova con noncuranza una pelliccia sottratta a qualcuna tra le migliaia di deportate al campo, che si trova proprio di fianco all’abitazione della famiglia Höß, immersa in una tranquillità surreale nonostante gli elementi agghiaccianti che ricordano continuamente allə spettatorə dove ci si trova (in particolare il sonoro svolge un ruolo fondamentale, attraverso il sottofondo di una gigantesca macchina di morte che funziona a pieno regime). Nel frattempo le domestiche scelgono cosa prendere da un mucchio d’indumenti intimi appartenuti ad altre donne, forse già ammazzate. Per chi si tiene informatə, è molto difficile non pensare a tutti quei soldati israeliani che, nel mezzo del genocidio a Gaza, si sono fotografati sorridenti durante le razzie nelle case deə palestinesi sfollatə. Il film di Glazer mostra in modo cristallino ciò che la filosofa, storica e politologa Hannah Arendt chiamava la banalità del male, ovvero come persone magari ordinarie, con una loro quotidianità e i loro affetti, possano allo stesso tempo compiere o essere complici di crudeltà indicibili, uniformandosi a una società che disumanizza sistematicamente il nemico di turno. Ieri le persone ebree (e romaní, queer, disabili, comuniste…) sotto il nazismo, oggi lə palestinesi sotto occupazione ─ un parallelo che Glazer stesso non ha mancato di tracciare. Quando arrivi a considerare “animali umani” altre persone, poco t’importa se dietro il muro del tuo bel giardino, oltre il fazzoletto a cui riservi la tua attenzione decine di migliaia di vite vengono inghiottite dall’Inferno sulla terra.
Sbarcata su QUASI grazie a Paolo, scrive poco ma cerca di darci senso. Ama i film di Miyazaki, i gatti, la pappa al pomodoro e tante altre cose. Odia i fascisti. Se non può ballare non è la sua rivoluzione.