Time to people: una patente per le IA

Paolo Interdonato | Pantomime del Calisota |

Mentre l’entusiasmo mi avvolge con la veemenza di un orgasmo, sono seduto di fronte a mio padre. Sorseggiamo una bevanda innocua e mi dilungo sulle magnifiche sorti e progressive che ci saranno garantite dall’uso delle intelligenze artificiali. Cerco di distillare in poche frasi il senso di quello che ho capito dei Large Language Model. Poi mi lancio in una concione sfrenata sull’importanza del prompt. E non ho paura di dire le cose come stanno: le dimensioni contano. Più lungo è, meglio è.

Lui non perde mai il contatto dello sguardo. Mi segue incantato, sorride con sempre maggiore convinzione. Fa anche degli ampi gesti di assenso col capo. Allora capisco che ha spento l’apparecchio acustico e sta già pregustando la cenetta con quella signora di cui non vuole che io sappia nulla.

In fondo ha ragione lui. È nato nel 1936. Nel 1992, quando aveva l’età che ho io ora, aveva già attraversato alcune trasformazioni epocali: il cinema sonoro, la televisione, la radio a transistor, il colore, il telecomando, l’hi-fi, il videoregistratore, il PC, il telefono cellulare, persino i CD. Il suo mondo si era progressivamente riempito di oggetti fisici e materici che avevano ridefinito gli spazi domestici.

Io, invece, ho visto progressivamente sparire tutto; il mio mondo si è smaterializzato: il web, la connessione internet domestica, la mail, lo smartphone, le app, lo streaming, i social network, il cloud, i big data, la distribuzione delle funzioni attraverso API e microservizi, le intelligenze artificiali. In una trentina d’anni ho attraversato così tante rivoluzioni da sentirmi frastornato. E quante ce ne saranno quando mio figlio cercherà di spiegarmi il nuovo mondo, permettendomi di spegnere l’apparecchio acustico e perdermi nei miei pensieri?

Quando Thomas Kuhn racconta come funzionano le rivoluzioni scientifiche (e tecnologiche, aggiungo senza paura di perdere la mira), si concentra sull’assimilazione del nuovo paradigma. È un processo complesso, che richiede tempo. Tempo che non abbiamo. Stiamo affrontando uno tsunami brandendo un ombrellino pieghevole comprato al volo in un negozietto sul corso.

Non abbiamo le parole per dire (figuriamoci per capire) le trasformazioni nelle quali precipitiamo. Eppure, continuiamo a maneggiare strumenti meravigliosi senza averne la minima consapevolezza. Servono regole. Servono per tutelare tutte le persone che non sono ancora pronte. Cioè, tutte e tutti noi.

Le aziende che progettano queste tecnologie seguono una regola sola: time to market. Devi arrivare prima dei concorrenti, occupare il mercato, massimizzare il profitto. Tutto il resto viene dopo: le regole, la sicurezza, l’impatto sociale. Nessuno pensa a Kuhn e all’assimilazione del paradigma. Nessuno pensa alla complessità e ai rischi che si rovesciano sugli individui. Al time to people non pensa nessuno.

Le intelligenze artificiali sono meravigliose, ma hanno due gravi difetti: l’efficacia e la piaggeria. Sono così efficaci da far esplodere la produttività individuale: un bravo prompt engineer può fare in un pomeriggio un lavoro che prima delle IA richiedeva una settimana. Ma se produco lo stesso risultato con il 10% del tempo, che ce ne facciamo del 90% del tempo lavorabile di cui nessuno ha più bisogno?

E poi c’è la piaggeria. Le IA assecondano i preconcetti delle fonti con cui sono state addestrate e, soprattutto, le credenze di chi le usa. Senza spirito critico, diventano strumenti per consolidare la fede in stronzate e fascistizzare il pensiero.

Diventa necessario, anzi urgente, stabilire delle regole. Ma non possiamo aspettarci che le big tech si autoregolino a scapito del time to market. Dovrebbero intervenire i governi. Ma te la vedi un’amministrazione che incarna il pensiero di Trump e Musk decidere di imbrigliare la potenza economica di un’azienda tecnologica?

Non scherziamo.

Dobbiamo inventarci un approccio realmente rivoluzionario.

Mi è sempre parso geniale uno slogan in voga negli anni Settanta: «Gastronomia operaia, cannibalizzazione / coltello, forchetta, magnamoce o’ padrone!»

Adesso, purtroppo, questa strategia di redistribuzione delle ricchezze è diventata inadeguata. I ricchi – sempre più ricchi – sono sempre meno e i poveri sempre di più. Secondo Forbes, i miliardari nel mondo sono 2.781. Secondo Worldmeter, gli umani sono 8 miliardi 200 milioni e spicci. Pistolando un attimo sulla calcolatrice, si capisce che un miliardario deve sfamare quasi 3 milioni di persone. Prendiamone uno paciarotto come Musk, che peserà, a occhio e croce, un centinaio di chili, e viene fuori che ne spettano 0,033 grammi a testa.

Così non andiamo da nessuna parte. Se vogliamo davvero risolvere il problema, dobbiamo essere più creativi. Ecco sette misure di sopravvivenza, così semplici e radicali che, non appena le avrò elencate, verranno immediatamente cestinate da chi detiene il potere (perché, lo sai, non ce lo dicono):

  1. La cena dei filosofi: un comitato etico che valuti trimestralmente i rischi e i benefici di ogni nuova tecnologia. Non per sopprimerla, ma per classificarne la classe di efficienza etica. L’utente deve sapere se sta usando tecnologia A o G.
  2. Reddito di (data)base: se le aziende guadagnano miliardi con i nostri dati, abbiamo diritto a un rimborso per l’uso delle nostre informazioni personali.
  3. Patente per votare: il suffragio universale ha un difetto di fabbrica. Nella postdemocrazia, ormai, la minoranza che vota lo fa contro i propri interessi economici. Minoranza per minoranza, è necessario introdurre un esame su costituzione, economia ed etica. Si fa in presenza e senza telefoni.
  4. Lavorare meno, lavorare gli altri: se il lavoro si riduce drasticamente grazie alla tecnologia, perché mantenere la settimana da quaranta ore?
  5. Cancellazione delle pensioni: alternare periodi di lavoro, studio e riposo lungo tutta la vita, invece di ammazzarsi di fatica fino ai settant’anni e poi morire di noia in attesa della morte. Poi, è vero: da vecchi si rischia di essere meno agili e veloci. Non è che prima fossimo tutti falchi e aquile.
  6. Fallimento obbligatorio per le aziende: per evitare i dinosauri invincibili, le aziende vengono sciolte dopo un massimo di dodici anni e le loro risorse redistribuite.
  7. Lavoro forzato per i miliardari: vuoi essere miliardario? Bene. Oltre a pagare le tasse, devi lavorare per la comunità: ospedali, scuole, pulizia urbana. Un anno di lavoro per ogni miliardo accumulato (per intenderci, Musk dovrebbe lavorare per 416 anni). Poi siamo magnanimi e democratici: il numero di ore lavorate per settimana dipende dall’accordo che abbiamo trovato mettendo in atto il punto 4.

Visto? Era semplicissimo. Abbiamo cambiato il mondo da così a così.

Ora posso spegnere l’apparecchio acustico.

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