Sono andata a vedere La stanza accanto di Pedro Almodóvar, un’opera definita “matura”, spinta dal desiderio di vedere la Szoke House, la casa utilizzata come set e considerata una coprotagonista del film.
Progettata nel 2019 dallo studio Aranguren+Gallegos Arquitectos, sorge immersa in una foresta alle pendici del Monte Abantos, vicino a Madrid. È la committenza che ogni architetto desidererebbe avere.
Lo studio è noto a livello internazionale per la capacità di combinare innovazione e rispetto per il contesto, creando architetture che arricchiscono il paesaggio culturale spagnolo.
La villa è un rifugio isolato e incantevole, in perfetta osmosi con la natura. Un progetto in equilibrio tra armonia e tecnologia. Rivestita in acciaio corten arrugginito, si mimetizza tra i pini del bosco, assumendone lo stesso colore. I blocchi degradanti che la compongono sono progettati per seguire l’andamento della montagna, caratterizzandone il profilo, e sono orientati in modo da catturare la luce in ogni momento della giornata, grazie a pareti vetrate affacciate su lati opposti di ogni modulo.
Il paesaggio entra così negli interni come una scenografia in movimento e, quando le vetrate vengono spalancate, il vento attraversa la casa, incanalando i suoni e i profumi della foresta e degli animali che la abitano. Lo spazio vibra, creando un habitat ricco di vita.
La trasformazione degli interni dimostra come una buona architettura debba essere il luogo d’espressione di chi la abita. La troupe di Almodóvar, con estrema attenzione, costruisce il set sostituendo agli arredi rigorosi e minimali un’esplosione di colori, usati in maniera sublime. Con il suo inconfondibile stile, il regista crea un ambiente intimo e vivace, in cui ogni dettaglio visivo sfiora la perfezione.
Il colore caratterizza l’intero film, e la scenografa Carlota Casado ha citato tra le sue ispirazioni le opere di Georgia O’Keeffe, presente non solo nel grande quadro all’ingresso della casa, ma anche nella palette cromatica di tutte le ambientazioni. Anche gli outfit delle protagoniste si inseriscono in questa gamma di colori coordinati, così come gli elementi d’arredo, in gran parte pezzi iconici del design.
I movimenti di macchina contribuiscono a esaltare la raffinatezza degli ambienti con riprese lente, che accarezzano le immagini e sublimano le interpretazioni di Julianne Moore e Tilda Swinton.
Visivamente, The Room Next Door è un prodotto raffinato, e la villa è un esercizio di grande minimalismo. Ho raggiunto il mio scopo: l’ho visitata stando in poltrona.
Ma la regia è di Almodóvar, e davo per scontata una visione della realtà non edulcorata. Al di là della forma, è nella sostanza che emergono le criticità.
La scrittura è eccessivamente didascalica, quasi scolastica; i dialoghi risultano elementari nel tentativo di spiegare che ognuno ha il diritto di decidere della propria vita. Troppe ovvietà per un tema così importante, trattato omettendo ogni aspetto della sofferenza fisica e psicologica. Il tema dell’eutanasia, pur centrale, viene solo sfiorato, e la narrazione dell’intensa amicizia tra le due protagoniste si basa su un presupposto che non condivido.
Tu chiederesti mai a una persona che non vedi da anni di annullare completamente la sua vita per accompagnarti in un percorso travagliato? Io ho un’idea diversa degli affetti: non ci si impone, non si manipola, non si gioca con i sensi di colpa.
Lo confesso: seguo sempre meno Almodóvar. Sono legata alle sue opere giovanili, quando era il re della Movida, il movimento più esplosivo della Spagna post-franchista, che stravolse rapidamente e radicalmente arte, cinema, moda e ogni altra espressione di creatività in un clima di massima libertà, potenziato da un’intensa vita notturna.
I suoi film rappresentavano i desideri di una generazione che, dopo quarant’anni di dittatura e arretratezza, si ritrovava catapultata nella Madrid degli anni Ottanta, dove tutto pareva permesso.
Erano pellicole che rompevano ogni tabù, celebravano la libertà in ogni forma, la trasgressione; erano sperimentali, dall’impronta fumettistica, fortemente kitsch, autobiografiche e pop. Un cinema audace, originale, spiazzante, che non cercava il compromesso, ma scuoteva e divideva.
Negli anni Ottanta, Almodóvar diventa il simbolo della rinascita spagnola, ottenendo il successo di massa con Donne sull’orlo di una crisi di nervi nel 1988. Abbandonato completamente il cinema sperimentale e potenziando la sua parte più intimistica vince nel 2000 l’Oscar come miglior film straniero con Tutto su mia madre.
Nel tempo, il suo cinema si è trasformato: la provocazione è diventata riflessione, l’ironia si è smussata in compassione, la società che rappresentava è cambiata e lui con essa. Da cineasta underground e sperimentale, è diventato un autore consacrato, accolto nei festival internazionali e sempre più attento a una narrazione universale.
La sua voce, un tempo selvaggia e spregiudicata, si è fatta più misurata, quasi trattenuta. La trasgressione ha lasciato il posto alla compostezza, il caos creativo alla precisione stilistica. La stanza accanto, il suo primo film in lingua inglese, è l’emblema di questa evoluzione. L’obiettivo – perfettamente riuscito – era renderlo il più “americano” possibile. Ma a che prezzo? Per fare cassetta, era davvero necessario banalizzare la trama e patinare il dolore?
Preferisco riguardare il primo Almodóvar: folle, ingestibile e visionario, originalissimo e dirompente, quando era il giullare di corte più irriverente, geniale e provocatorio di Spagna.
Quel regista che non temeva di essere troppo, perché era proprio l’essere troppo a renderlo unico.
Non sa cosa ci fa qua. Dei fumetti era appassionata in passato. Curiosa e iperattiva vorrebbe vedere e vivere tutto: è una perenne dilettante di nuove passioni. Da sempre respira il mondo dell’interior design che è diventato parte della sua vita e del suo lavoro: ristruttura spazi collettivi e privati, progetta interni, disegna mobili e complementi d’arredo unici, ogni tanto anche in giro per il mondo. Vive di quello che le piace fare. Progetti futuri? Non fare progetti.