La parafrasi del tempo
Il 24 settembre 1977, Philip K. Dick tiene un incauto e confuso discorso pubblico in una sala del municipio di Metz. In generale, non gli piace parlare davanti alla gente, ma quella volta va anche peggio del solito. Quasi sicuramente è sotto l’effetto di stupefacenti, forse è davvero impazzito mentre scriveva Valis, fatto sta che il pubblico che si è radunato nella città francese per assistere alla seconda edizione del “Festival International de la Science-Fiction de Metz” resta turbato. Lo scrittore parla con un tono così monotono da sembrare il tipo che legge il verbale dell’ultima assemblea condominiale. Ha poi cambiato il testo del suo intervento fino all’ultimo momento e si è dimenticato di fornirlo all’interprete e quello, che traduce una frase alla volta in un siparietto di botta e risposta, qua e là si incasina. Insomma, un brutto momento che lascia nei presenti una sensazione di noia, follia, luoghi comuni e il sospetto che ci sia la volontà da parte dello scrittore di fondare una nuova religione. Col passare del tempo, perfino Dick inizia a dire sprezzante che quel discorso non si capiva perché non significava nulla.
Sette o otto anni dopo, quel testo viene pubblicato su “Linea d’ombra”, rivista di cultura e critica voluta e diretta da Goffredo Fofi. Il nome di Dick è riportato in copertina e io, che ho scoperto chi fosse solo dopo la sua morte, sono impazzito per Blade Runner e sto leggendo tutto quello che trovo in biblioteca, decido che quel mucchietto di fogli spillati vale le cinquemila lire che l’edicolante esige. Come arrivare alla fine della settimana è un problema che mi porrò più avanti.
L’articolo viene pubblicato con il titolo “Se questo mondo vi sembra spietato, dovreste vedere cosa sono gli altri”.
Sono andato a rileggerlo ed è molto più confuso di quanto ricordassi. Nella mia memoria, invece, ha una forma nitida e lineare. Credo che abbia addirittura un valore centrale nella mia formazione. A quel tentativo di fondare una religione, ci ho creduto. Ho aderito a un credo che ti riassumo per come lo ricordo, indifferente a quello che realmente dice Dick.
La realtà è l’abito di dio. E dio non ha vincoli di coerenza e continuità. Quando vuole si cambia d’abito. E la realtà e la nostra percezione del reale cambiano e s’intonano all’abito di dio.
Per capire il mondo, allora, bisogna diventare uno storico della moda e del costume e analizzare nel dettaglio che taglio avesse l’abito di dio in quella stagione.
“La parafrasi del tempo” è la serie di articoli con cui cerco di capire il mondo, guardando la successione incoerente e scombinata degli outfit indossati dalle divinità folli che ci hanno precipitato nel casino in cui viviamo.
Inizio dal 1954. E – te lo dico fin d’ora – non ho intenzione di assecondare la freccia del tempo.
I poveri disturbano

Il 1954 inizia con una buona e una cattiva notizia. La cattiva è che il governo Pella, l’ottavo esecutivo della Repubblica italiana, nato esplicitamente come “governo amministrativo” per approvare la legge di bilancio, non arriva all’epifania. Il 5 gennaio, il democristiano Giuseppe Pella (sostenuto da DC, monarchici, liberali, repubblicani e sudtirolesi) è costretto a dare le dimissioni.
La buona notizia è che a comunicare l’informazione agli italiani c’è il telegiornale. Alle ore 11:00 del 3 gennaio, Fulvia Colombo, con capelli così cotonati da fare invidia alla moglie di Frankenstein, si affaccia per prima sull’Italia dalla tetta di vetro dello schermo televisivo e, con viso teso e una voce radiofonica professionalissima che scivola sulle “S”, annuncia: «La Rai, Radiotelevisione Italiana, inizia oggi il suo regolare servizio di trasmissioni televisive.»
Da quel momento, gli italiani si assiepano attorno ai pochi schermi presenti nel paese. Soprattutto nei bar che si trasformano nei luoghi privilegiati per l’intrattenimento elettrico e svuotano un po’ alla volta le piazze. E mentre nelle case degli italiani, lentamente ma non troppo, si trova uno spazio dove collocare il nuovo elettrodomestico, i giorni passano e il telegiornale serale può dare notizia degli eventi salienti e dell’avvicendarsi dei governi.
Nel corso dell’anno, se ne insediano due: Il governo Fanfani I, sostenuto solo da DC e PRI, che durerà 22 giorni appena, e, dal 10 febbraio, il governo Scelba (appoggiato da DC, PSDI, PLI, PRI e SVP), che riuscirà a resistere fino al 6 luglio dell’anno successivo.
La presenza della televisione nella casa degli italiani rappresenta un big bang. Il decennio successivo alla fine del secondo conflitto mondiale è stato dedicato, tra ristrettezze e sacrifici, alla ricostruzione del paese. Ora, finalmente, le cose sembrano andare per il verso giusto e nell’aria si sente odore di Miracolo italiano. Come dice Totò, il bambino protagonista del film di Cesare Zavattini e Vittorio De Sica Miracolo a Milano (uscito due anni prima e che avrebbe dovuto intitolarsi I poveri disturbano), si può davvero sognare un mondo dove «buongiorno voglia davvero dire buongiorno».

Dal momento in cui gli italiani possono specchiarsi – o illudersi di farlo – nello schermo televisivo, la realtà in cui sono immersi e il modo in cui la percepiscono inizia a cambiare: si sviluppa progressivamente un nuovo sistema dei bisogni e dei consumi (anche se la pubblicità e “Carosello” arriveranno nel palinsesto RAI solo nel 1957). In dieci anni il reddito nazionale netto del Paese raddoppia. Il numero dei contadini si riduce di un terzo in favore degli operai. Le città vengono investite da un’ondata migratoria che sposta la residenza di decine di milioni di persone che abbandonano le campagne. Ogni anno raddoppia il numero di case abitabili costruite in città. È decisamente Miracolo.
Tra Ventennio fascista, due guerre mondiali, una guerra civile, l’occupazione militare e la ricostruzione di un paese distrutto dai bombardamenti e dai saccheggi, gli anni precedenti sono stati davvero interessanti, mossi da un tumulto sconcertante che non ha lasciato tregua. Non stupisce, allora, che tutti quanti cercassero un po’ di pace e un po’ di quiete. Pare che, nel 2010, il matematico inglese William Tunstall-Pedoe abbia usato un calcolatore per determinare, sulla scorta di un database di giornali quotidiani che allora pareva enorme, quale sia stato il giorno più noioso della storia e che questo esperimento abbia dato una risposta chiara e univoca: l’11 aprile 1954, un giorno senza guerre, senza catastrofi, in cui non è successo nulla. Già: il 1954 è stato un anno di quiete, nel lungo e pacifico dopoguerra.
Un simulacro di pianeta
54 di Wu Ming si apre con una poesia che rimarca che «Non c’è nessun dopoguerra. / Gli stolti chiamavano pace il semplice allontanarsi del fronte.»
In effetti la guerra non è mai finita. Si è raffreddata, forse. Il miracolo italiano ha reso evidente il benessere che credevamo di esserci meritati, ma il benessere e la ricchezza non possono esistere se non c’è disuguaglianze e disparità, se non ci sono poveri. Interi paesi che stanno sempre meglio richiedono l’esistenza di un Terzo Mondo, forse addirittura di un Quarto. E questi mondi che – come in un multiverso fottutamente reale – si sovrappongono al nostro, sono il territorio perfetto per esercitare il potere sul pianeta e sulle sue risorse.
La guerra che si rifiuta di finire, quella che chiamiamo fredda e che ha prodotto la contrapposizione dei blocchi statunitense e sovietico, ha sostituito, senza alcuna soluzione di continuità, il secondo conflitto mondiale. A Yalta e a Potsdam si è giocato il Risiko europeo dei confini. Una linea di contrapposizione che Churchill sapeva disegnare con nettezza assoluta nella mente e negli occhi del suo elettorato: «Da Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico una cortina di ferro è scesa attraverso il continente». Di qui noi, di lì loro!

La dottrina Truman, il piano Marshall, la nascita del Cominform, il blocco di Berlino, la creazione della NATO…
Insomma, non è che la ricostruzione fosse la sola preoccupazione di chi era sopravvissuto alla guerra. Bisognava rendere vivibili le macerie delle città bombardate, incendiate e distrutte, ma si sapeva che tutto attorno la guerra continuava. Quando arriva il Miracolo, nel 1954, il lungo dopoguerra viene rinfrancato dal tepore dello schermo televisivo, certo. Ma al contempo dai serramenti entrano gli spifferi raggelanti che provengono dall’emergere sempre più evidente della Guerra fredda.
E la Guerra fredda ha forme diverse.
Ci sono conflitti sotto gli occhi di tutti.
La Francia prende una batosta colossale a Dien Bien Phu ed è chiaro che ha perso la guerra in Indocina contro le forze comuniste. Dopo gli accordi di Ginevra, i francesi devono evacuare l’area settentrionale del paese. Si arriva alla divisione in due stati distinti: Vietnam del Nord, comunista, e Vietnam del Sud, filoccidentale. Negli anni a venire, il nome di quello stato tornerà spesso nel discorso intorno ai conflitti e allo scacchiere politico.
La CIA orchestra un colpo di stato in Guatemala per rovesciare il governo democratico di Jacobo Arbenz Guzmán, accusato di essere comunista.
Non pago delle sconfitte in Indocina, il colonialismo francese si ritrova di fronte agli attacchi del Fronte di Liberazione Nazionale in Algeria. Uno scontro destinato a cambiare gli equilibri interni alla NATO.

Ci sono eventi politici e di posizionamento.
In Unione Sovietica viene fondato il KGB, il comitato per la sicurezza nazionale, diretto da Ivan Aleksandrovič Serov.
Per garantirsi un baluardo per contrastare le forze comuniste, gli Stati Uniti, con il trattato di Manila, fondano la SEATO, l’equivalente della NATO per il sudest asiatico. L’alleanza non funziona un granché bene e sopravvivacchia, tra alti e bassi, una ventina d’anni appena.

Ci sono eventi di preparazione alla guerra.
Il varo del primo sottomarino a propulsione nucleare degli Stati Uniti che, in barba all’anarchia del capitano Nemo, si chiama USS Nautilus.
Nell’atollo di Bikini, nelle isole Marshall, in mezzo all’Oceano Pacifico, gli Stati Uniti iniziano una seria di test nucleari. Faranno esplodere, in poco più di due anni, 23 testate e non sempre si ricorderanno di evacuare le popolazioni vicine.
Per rispondere ai test statunitensi, l’Unione Sovietica accelera lo sviluppo delle armi termonucleari trasportabili. Arriveranno alla prima vera bomba H sovietica nel 1955.
E infine c’è l’uso di quella energia a fini civili.
A Obninsk, a un centinaio di chilometri da Mosca, l’URSS inaugura la prima centrale nucleare al mondo. È piccola (appena 5 megawatt) ma segna l’inizio della produzione di energia elettrica da fissione nucleare su scala industriale, dimostrando che l’energia atomica può avere applicazioni civili.
In risposta alla centrale sovietica, il programma nucleare civile statunitense “Atoms for Peace”, lanciato da Eisenhower nel 1953, accelera. La prima grande centrale, Shippingport, entrerà in funzione nel 1957.

Questo mondo che oppone due superpotenze gigantesche e bellicose si riorganizza su una nuova linea di faglia, pronta a tremare. La Guerra fredda non è solo un conflitto tra blocchi, è il simulacro di pianeta in cui tutti sappiamo di vivere. Ma mentre i due blocchi si sfidano, altre forze modellano il futuro: la scienza e la tecnica, che avanzano a gran velocità, promettendo miracoli e catastrofi.
L’anno del bonobo

Lo so, nel 1954 sono successe un sacco di cose importantissime dal punto di vista scientifico e tecnico. Mi piace, però, concentrarmi su un evento apparentemente irrilevante: il pan paniscus, primate meraviglioso che dovremmo cercare di emulare in ogni comportamento, ha conquistato il nome con cui lo conosciamo ancora oggi. Lo zoologo austriaco Eduard Paul Tratz e il biologo tedesco Heinz Heck decidono che il nome con cui lo si studia non rende giustizia a questa specie. Per una volgare questione di dimensioni della scatola cranica, gli studiosi chiamano il pan paniscus “scimpanzé pigmeo” o “scimpanzé nano”. Questo nome genera solo confusione. I due, con la cura straordinaria che da sempre caratterizza le traiettorie di pensiero degli scienziati, decidono di cambiare nome alla specie, ma commettono un errore di trascrizione. I primi esemplari di pan paniscus sono stati trovati, negli anni Venti, nei pressi della città di Bolobo sul fiume Congo. Qualcuno trascrive male il nome e la specie guadagna il nome, bellissimo, di bonobo.
Il bonobo è, insieme allo scimpanzé comune, la specie evolutivamente più vicina all’essere umano. A differenze degli umani: gestisce i conflitti con il sesso invece che con la violenza, creando legami sociali più fluidi; vive in un matriarcato dove le femmine cooperano per mantenere la pace e limitare l’aggressività maschile; non fa guerre o stermini; è empatico e incline alla condivisione spontanea; mantiene il gioco – e il piacere – per tutta la vita; ha meno stress sociale, perché non si incastra in gerarchie oppressive; l’equilibrio tra desiderio individuale e benessere collettivo lo rende più sereno.
E così, per un errore di trascrizione, la specie che meglio incarna l’arte di vivere senza conflitti guadagna un nome che non significa nulla, ma suona benissimo.

Il 1954 è anche l’anno in cui, a Boston e a Parigi, vengono eseguiti i primi trapianti di organi, IBM, a New York, fa la prima esibizione pubblica di una macchina che fa traduzioni automatiche, viene ucciso, in Tukmenistan, l’ultimo esemplare di tigre del Caspio, inizia, a Pittsburgh, la prima campagna vaccinale di massa sui bambini per debellare la poliomielite, si studiano per la prima volta i rischi dell’esposizione all’amianto, viene fondato il CERN, l’organizzazione europea per la ricerca nucleare.
Succedono anche cose strane. Per esempio, in Alabama, un meteorite di quasi 4 chili colpisce la signora Ann Elizabeth Fowler Hodges che sta leggendo comodamente sdraiata sul suo divano. Per fortuna, è un colpo di rimbalzo che si limita a graffiarla: l’oggetto celeste si è schiantato prima sulla radio. Ed è davvero una fortuna, perché doveva essere un oggetto di dimensioni importanti: Texas Instrument ha messo in commercio la prima radio a transistor solo qualche settimana prima.

Ma il vero boato del 1954 non arriva dal cielo. Lo scatena Leo Fender con un pezzo di legno e metallo che cambierà per sempre il suono in cui viviamo.
Rock e mandarini

La Fender Stratocaster, progettata da Leo Fender, George Fullerton e Freddie Tavares, ha un design ergonomico, con tre pickup single-coil e un ponte tremolo che offrono un suono versatile e brillante, adatto a clean, overdrive e assoli. Diventa rapidamente la chitarra elettrica più iconica della storia, fondamentale per l’evoluzione di un sound che sta prendendo forma in questi giorni.
Da circa un decennio, il suono di rhythm and blues e country si stanno fondendo, sporcandosi di jazz, blues, boogie woogie, folk e gospel. A questi suoni meticci viene dato un nome che richiama l’agitarsi erotico delle pelvi: “rock and roll”. All’inizio dell’anno, per la prima volta quel nome strano e conturbante viene abbreviato in “Rock’n’Roll”.
Succede tutto molto in fretta. A febbraio, Johnny “Guitar” Watson registra Space Guitar. In quel brano, anche se non suona una Stratocaster, sperimenta feedback e riverbero. Poco dopo Bill Haley & His Comets pubblicano Rock Around the Clock come lato B del 45 giri Thirteen Women (and Only One Man in Town). In pochi si accorgono di quel pezzo costruito scandendo le ore del giorno e della notte.
In luglio, esce il primo singolo di Elvis Presley che, in ottobre, farà il suo primo passaggio radiofonico come ospite di una trasmissione.
La follia del rock esploderà solo l’anno dopo, quando Rock Around the Clock sarà inserito nella colonna sonora de Il seme della violenza, film di Richard Brooks, e Chuck Berry pubblicherà Maybellene, ma i semi che lo portano a germogliare sono stati piantati.

C’è perfino un libro che sembra nascere proprio perché i giovani ascoltatori di questi suoni meticci e peccaminosi siano pronti a un futuro di emozioni nuove: The Doors of Perception di Aldous Huxley.
Il titolo si riferisce direttamente a un verso di William Blake: «If the doors of perception were cleansed, everything would appear to man as it is, infinite».
Nel libro Huxley descrive le proprie esperienze sono l’effetto del peyote, scoprendo che la mescalina fa esplodere la percezione della realtà, consentendo esperienze mistiche e trascendentali. Negli anni successivi, quel libro avrà un grande impatto sui giovani e su chiunque vorrà esplorare gli stati di coscienza alterati.
Non è il solo libro che allarga gli orizzonti dei lettori: nel 1954 escono Histoire d’O di Pauline Réage, Il signore delle mosche di William Golding, i primi due volumi de Il signore degli anelli di J.R.R. Tolkien, Ortone e i piccoli chi di Dr. Seuss, Vivi e lascia morire di Ian Fleming, Io sono leggenda di Richard Matheson e I mandarini di Simone de Beauvoir.

Quest’ultimo ci riporta una chiara idea della posizione degli intellettuali francesi –non più giovani – nel dopoguerra e, in particolare, in quest’anno incredibile. Attraverso personaggi ispirati a Sartre, Camus e alla stessa de Beauvoir, il romanzo racconta la fine delle illusioni rivoluzionarie e il conflitto tra impegno politico e libertà individuale. Ma è anche il racconto della ricerca di una gioia difficile da trovare: la protagonista Anne, alter ego della scrittrice, cerca di reinventarsi attraverso l’amore e il desiderio, trovando nella passione e nella felicità sessuale una forma di emancipazione e autenticità.
Mentre nel mondo i suoni e le letture cambiano, alla periferia dell’impero l’amore si fa attendere. In Italia, per esempio, primeggia nelle classifiche Te voglio bene (tanto tanto) di Renato Rascel, mentre Tutte le mamme, cantata da Gino Latilla e Giorgio Consolini, vince il festival di Sanremo.
Bisogna tornare in Francia per sentire una voce intonare la più disarmante (e disarmata) tra le canzoni, capace di mostrare la consapevolezza che, nonostante il tanto parlare di dopoguerra, «oltre la prima duna gli scontri proseguivano»: Le Déserteur di Boris Vian.
Mostri, frignoni e bastardi
«E dica pure ai suoi
se vengono a cercarmi
che possono spararmi
io armi non ne ho»
Con queste parole si conclude il canto di chi decide di non aderire ad alcuna guerra. Quando le scrive, Boris Vian ha 34 anni e ha già dato mostra dei suoi molteplici talenti: è uno scrittore, un poeta, un paroliere, un ingegnere, un cantante, un critico musicale, un patafisico, un musicista e un direttore artistico. Non basta. È anche un cardiopatico. Morirà di infarto in una sala cinematografica tra cinque anni, durante la prima di un brutto film, J’irai cracher sur vos tombes, tratto da un suo romanzo.
Al cinema, probabilmente Vian ci va spesso anche nel 1954. Come chiunque.

Gli Academy Award, gi Oscar del cinema, alla loro ventiseiesima edizione, premiano soprattutto Da qui all’eternità di Fred Zinnemann. Il film colleziona otto statuette: film, regia, attore non protagonista (Frank Sinatra), attrice non protagonista (Donna Reed), sceneggiatura (Daniel Taradash), fotografia, montaggio e sonoro. Pare che anche il caffè sul set non fosse niente male. Il premio come migliore attrice protagonista va a Audrey Hepburn per Vacanze romane. Il miglior attore protagonista è William Holden per Stalag 17.
Nel corso dell’anno sbarcano nelle sale Fronte del porto di Elia Kazan che consolida Marlon Brando nel ruolo di sex symbol, Sabrina di Billy Wilder con Hepburn sfavillante e bellissima come non mai, il musical Sette spose per sette fratelli di Stanley Donen, un paio di grandi film di Alfred Hitchcock, La finestra sul cortile e Delitto perfetto, e I sette samurai di Akira Kurosawa.
Anche in Italia si vedono grandi film. Solo per citarne alcuni: Senso di Luchino Visconti, L’oro di Napoli di Vittorio De Sica, Miseria e nobiltà di Mario Mattoli, La strada di Federico Fellini.
Esce anche Un americano a Roma di Steno in cui Nando Mericoni, interpretato da Alberto Sordi, dà una chiave di lettura della posizione italiana rispetto alla terribile contrapposizione della Guerra fredda. In un paese in cui ancora si preferiscono le canzoni cantate da Rascel e da Latilla e Consolini ai suoni elettrici della Stratocaster, chi abbraccia pienamente l’immaginario made in USA trova la sintesi perfetta per contrapposizione quasi manichea: «Maccarone, m’hai provocato e io ti distruggo. Adesso io me te magno!»
Un americano a Roma non è il solo film intriso dello spirito dei tempi. Sul finire dell’anno esce un film d’animazione che adatta La fattoria degli animali, il romanzo allegorico di George Orwell. Il film è una coproduzione inglese e americana, diretta e prodotta dagli animatori inglesi John Halas e Joy Batchelor. La pellicola, che tende a smussare, in particolare nel finale, la carica satirica di Orwell, è cofinanziata da Office of Policy Coordination (OPC), struttura propagandistica della CIA, che, in virtù del quattrino investito, richiede aggiustamenti e correzioni alla sceneggiatura, per aver certezza che il messaggio antisovietico passi con precisione e chiarezza.
In mezzo al clima da Guerra fredda, il solo paese che ha conosciuto l’uso di bombe atomiche a fini bellici, il Giappone, inventa un’icona dell’immaginario mondiale e un genere. Nel film Godzilla, diretto da Ishiro Honda e con effetti speciali di Eiji Tsuburaya, vediamo emergere dalle acque il primo kaiju, il mostrone nipponico che si erge sulle nostre città a dirci che il pericolo atomico può avere effetti che ci terrorizzano ancora.


Godzilla è un lucertolone che ha conquistato la posizione eretta, ha due file di pinne dorsali sulla schiena, sputa raggi mortali ed è alto cinquanta metri (e, negli anni a venire, crescerà parecchio). Negli stessi giorni nelle sale esce anche Il mostro della laguna nera di Jack Arnold e il paragone è impietoso. Mentre il Giappone trasforma il terrore atomico in un colosso che incarna l’incubo nucleare, Hollywood si accontenta di una comparsa in costume da pesce capace appena di trasportare una ragazza discinta tra le braccine squamose.
Paperi vestiti, politici disonesti e scienziati distratti

Il cinema non è il solo spazio dell’intrattenimento e del fantastico. Spendendo dieci centesimi appena, chiunque passi in un negozio in qualsiasi città o paese degli Stati Uniti, può portare a casa un albo a colori, spillato e stampato sulla carta più povera, ma pieno di storie meravigliose. Carl Barks, da oltre un decennio sta disegnando un mondo di paperi sognanti e avventurosi. La sua vita coniugale è già andata in frantumi un paio di volte e, nelle notti più buie, ha scoperto che il whisky può essere un buon amico. Nel 1954 decide di riprovarci: sposa la pittrice Margaret Williams, detta Garè, e, abbracciando questa nuova felicità sentimentale (e creativa, Garè si occupa delle campiture, degli sfondi e del lettering) mostra la consueta produttività. Nei circa trent’anni di lavoro quasi esclusivo sui paperi disneyano, Barks realizzerà quasi 6.700 pagine; e quasi 270 di queste sono datate 1954. È uno degli anni d’oro del periodo più florido della sua vena creativa: pubblica storie come Zio Paperone pesca lo skirillione, Zio Paperone e la dollarallergia e Zio Paperone e le sette città di Cibola. Vera bellezza, nessuna caduta di stile, inventiva infaticabile e costruzioni della pagina e del racconto che ancora oggi incantano. Il 1954 è per Carl Barks un anno normale, ma la sua normalità non deve farci dimenticare il suo gigantismo.
E mentre l’uomo dei paperi prosegue la sua traiettoria di racconto straordinario, il fumetto nordamericano cambia radicalmente.

Nel corso dell’anno, il maccartismo che aveva portato a processi, censure, epurazioni e suicidi arriva a mostrare la propria insensatezza e, allo stesso tempo, il fumetto si infila in un grave impiccio che mostra alcune similitudini con la caccia alle streghe.
La storia personale di Joseph McCarthy ci racconta la vita di un uomo privo di scrupoli e pronto a usare ogni mezzo pur di riuscire a ottenere cariche istituzionali. Per fare ciò, fa leva sulle paure del suo elettorato e attacca frontalmente avversari e persone a caso, muovendo accuse spesso inverosimile e – a ben vedere – piuttosto sciocche. Insomma, ora che i nostri vestiti sono zuppi di postdemocrazia, questa sembra la descrizione abbastanza precisa della maggior parte dei ministri. Ma, in quel momento, nel 1954, la cosa fa scalpore. Tutto è iniziato il 9 febbraio 1950, quando, durante un comizio a Wheeling, il senatore McCarthy ha agitato davanti ai presenti un mazzetto di fogli. Pare abbia detto: «Ho qui una lista di 205 persone, che sono note al Segretario di Stato per essere membri del Partito comunista e che, nonostante questo, ancora lavorano al Dipartimento, formandone la politica». Da quel momento, osservando quanto queste affermazioni casuali abbiano prodotto impatti benefici sulla sua immagini, McCarthy decide di muovere accuse di comunismo, ogni volta che gli pare possa essergli utile. Tra commissioni e sottocomitati, in una nazione avvolta dal panico rosso, la caccia ai comunisti diventa per McCarthy un mestiere a tempo pieno. Questa mansione non dura tantissimo: il 1954 è decisamente l’anno della brusca caduta di questo individuo pericoloso.

Mentre il senatore repubblicano McCarthy vede la sua posizione sgretolarsi, Fredric Whertham, uno psichiatra di origini tedesche, lontanissimo da qualsiasi istanza reazionaria, guarda con preoccupazione i giovani americani. Pratica a New York in un ente pubblico cittadino e passa le sue giornate ad analizzare i casi di ragazzi difficili e disturbati. Lo preoccupano, in particolare, gli influssi nefasti che possono produrre su quelle menti giovani e plagiabili i film, le trasmissioni radiofoniche e, soprattutto, i fumetti.
Sfoglia centinaia di albi e trova, in ognuno di questi, violenza, sesso, orrore, immoralità, criminalità impunita… Si accorge che tutti i ragazzi che precipitano nell’efferatezza del crimine leggono fumetti. Tutti.
A quel punto, per un mero errore di analisi del fenomeno rispetto al campione di riferimento, deduce che i fumetti inducono a comportamenti abnormi e criminali.
Se si fosse fermato un attimo a osservare che tutti i giovani statunitensi leggevano fumetti, e che la stragrande maggioranza di loro non commetteva stragi o omicidi seriali, forse le sue deduzioni sarebbero state meno nette e definite. Ma è andata così.
Wertham racconta e descrive i casi umani che lo hanno toccato personalmente, non nasconde il suo dolore di fronte a tanta abiezione e sofferenza. E affianca questi racconti con decine di esempi di invito all’immoralità che ha scovato, senza neanche troppa fatica, leggendo fumetti. Scrive qualche libro e diversi articoli, anche su riviste molto lette e quando, nell’aprile del 1954, pubblica il trattato Seduction of the Innocent, gli insegnanti, i genitori e chiunque abbia un ruolo che richiede di assumere una posizione di tutela nei confronti dei ragazzi ne sono seriamente colpiti. È evidente che il fumetto, libero di finire nelle mani di chiunque abbia a disposizione una moneta da dieci centesimi, può produrre danni incalcolabili alla morale del pubblico più giovane e inerme.

Qualche mese prima era nato un sottocomitato senatoriale incaricato di indagare gli influssi di radio e televisione sulla criminalità giovanile. A presiederlo c’è un senatore democratico che ha già partecipato una volta – andando vicino a vincere – alle primarie per candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti, Estes Kefauver.
Nello stesso aprile in cui esce il libro di Wertham, il sottocomitato si riunisce per indagare sull’industria del comic book. Le interrogazioni, che proseguono fino a giugno, non portano ad alcuna reale iniziativa contro il fumetto. Eppure, a questo punto, l’industria decide di darsi un sistema di regole ferree e fa nascere, all’inizio di luglio, la “Comics Magazine Association of America” che promuove e promulga il “Comics Code”, un codice censorio che impone la rimozione di tutto ciò che spaventa Wertham, gli insegnanti, i genitori e i perbenisti. Da quel momento, gli albi della maggior parte degli editori riportano in copertina un marchietto che garantisce che quell’albo è stato approvato dalla “Comics Code Authority” e quindi non farà alcun male ai suoi lettori, grandi o piccini. La promessa di un fumetto innocuo.
Il miracolo di un fumetto pericoloso

La casa editrice più colpita dal “Comics Code” è EC Comics di Bill Gaines. Il codice censorio definito dall’industria del fumetto è ricalcato abbastanza fedelmente sul “Motion Picture Production Code” (meglio noto come “Codice Hays”) che, dal 1934 al 1968, regolamenta i contenuti della maggior parte dei film prodotti dall’industria statunitense. Vietando la presenza di criminali, elementi orrorifici, mostri di vario tipo e ammiccamenti sessuali, il “Comics code” colpisce frontalmente gli elementi che sostengono la gran parte delle testate EC. Si tratta di pubblicazioni fedeli ai propri titoli, che, a bene vedere, sono proprio esplicativi: “Tales from the Crypt”, “The Haunt of Fear”, “The Vault of Horror”, “Crime SuspenStories”, “Shock SuspenStories” …


Accanto a questi periodici, la casa editrice pubblica, da ottobre 1952, “Mad” una rivista bellissima e rivoluzionaria di fumetti di critica e satira della contemporaneità, voluta, diretta e scritta da Harvey Kurtzman. Mentre il fumetto statunitense brancola nel buio censorio scatenato da Seduction of the Innocent e dalle indagini del sottocomitato sulla criminalità giovanile, in maggio arriva nei chioschi l’undicesimo numero di “Mad”. Per i consueti dieci centesimi, il lettore porta a casa 32 pagine spillate di anarchia ed eversione. La copertina, assecondando la tradizione satirica della rivista, replica l’impianto e la grafica di “Life”, uno dei più diffusi settimanali statunitensi di informazione e fotogiornalismo. L’undicesimo numero di “Mad” promette, proprio come farebbe “Life”, «La bella ragazza del mese» (specificando che «legge Mad»). E nella tradizione di “Life”, presenta un’immagine in bianco e nero, proprio come la foto di Marilyn Monroe pubblicata pochi mesi prima. Le somiglianze finiscono lì, perché il viso sulla copertina di “Mad” è disegnato da Basil Wolverton. La donna sulla copertina di “Mad” è una chiara erede di “Lena la iena”. Al Capp, nel 1946, aveva inserito nella sua striscia Li’l Abner la donna più brutta del mondo, senza mai mostrarne il volto ai suoi lettori, perché, vedendola, sarebbero impazziti. Di fronte alle proteste del suo pubblico, il disegnatore – che era un incredibile paraculo – aveva organizzato un concorso di disegno perché i partecipanti si cimentassero nel dare un volto a quella creatura mostruosa. La giuria della gara era composta da Salvador Dali, Boris Karloff e Frank Sinatra. Il concorso, cui avevano partecipato anche Carl Barks e Jack Cole, era stato vinto da Wolverton. Per uno dei consueti strani anelli in cui si chiude l’immaginario in cui viviamo, era stato proprio sul numero di “Life” datato 28 ottobre 1946 che i lettori americani avevano potuto posare lo sguardo sul volto coperto di pustole e foruncoli, sui capelli a spaghetto, sugli occhi asimmetrici e sui denti disposti a caso di Lena la iena. Ora, sulla copertina di “Mad”, un’erede di quella donna sorrideva al pubblico americano.

Tove Jansson, l’autrice finlandese delle storie dei Mumin, aveva già provato a far muovere i suoi troll nella forma del fumetto. Nel 1947, aveva realizzato per il quotidiano di Helsinki “Ny tid” una sequenza di strisce. I lettori di sinistra del giornale non avevano apprezzato le creaturine messe in scena da Jannson perché, a loro dire, troppo borghesi e la serie si era presto interrotta. Alcuni anni dopo, quando i romanzi dei troll stavano riscuotendo successo nell’edizione inglese, Associated Newspapers aveva contattato Tove Jansson per fare una versione a fumetti dei sui Mumin. Il 7 luglio 1954, l’autrice pubblica la prima striscia del suo fumetto che scriverà e disegnerà da sola fino al 1957, e poi con il fratello Lars fino al 1959. Il fratello proseguirà poi la serie da solo fino al 1975. È quello di questi piccoli troll un mondo all’apparenza fiabesco, ma contiene tensioni, esclusioni, fughe e un senso di diversità che si scontra con l’omologazione del tempo. Mentre “Mad” usa la satira per smontare il conformismo americano, i Mumin offrono un’alternativa più dolce, ma altrettanto radicale, alla paura dell’altro che sembra il leitmotiv dell’anno.

Uscita originariamente a puntate sul settimanale “Journal de Spirou” nel 1952, nel 1954 viene raccolta in volume per la prima volta la storia I ladri di marsupilami di Franquin. È l’avventura con cui il sublime disegnatore torna a disegnare Spirou dopo la prima delle sue crisi personali e creative di cui abbiamo notizia. Si tratta della storia in cui il marsupilami, destinato a diventare il personaggio più iconico della serie, entra definitivamente a far parte della saga di Spirou. C’è tutto: il pentimento, l’animalismo, l’indagine, gli inseguimenti, la battaglia, la redenzione, il grande ribaltamento finale e, soprattutto, la maestria del racconto e le risate che squassano.
In Francia e Belgio, il fumetto non ha subito il trauma del Comics Code e continua a respirare. Anche quando nasce dalla mente di un autore tormentato, può permettersi di essere leggero e libero. Mentre gli statunitensi ripuliscono le pagine dei loro albi, Franquin si diverte con un personaggio esuberante, senza regole e con la coda più lunga che si sia mai vista nella storia del fumetto.

Art Spiegelman, l’autore di Maus, nel 1954, ha sei anni. Troppo piccolo per essere folgorato dalla copertina dell’undicesimo numero di “Mad”. Vedrà quella immagine solo tra qualche anno, riprodotta in piccolo sul retro della copertina di una raccolta dei primi fumetti della rivista fatta dall’editore Ballantine e ne sarà travolto. Di fronte a quella immagine minuscola cambierà per sempre la propria idea di fumetto. Intervistato, dirà che, quella copertina che mimava la forma di un settimanale di informazioni serissimo, mettendo in luce i paradossi della verità e del racconto, gli aveva impartito la lezione più grande: «I media ti prendono in giro e con i fumetti si può dire tutto!»

Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).