Il fumetto ha bisogno di tempo. Un elogio della serialità

Francesco Pelosi | La cassetta degli attrezzi |

Il fumetto ha bisogno di tempo per esistere. Ha bisogno del tempo che gli dedichiamo nel leggerlo, del tempo che decidiamo di concedere a ogni vignetta e a ogni pagina, del tempo che batte e respira nei suoi spazi bianchi, fra i personaggi, fra le onomatopee, fra le parole. E ne ha bisogno perché il fumetto, arte del falso movimento per eccellenza, arte immobile, è in realtà governato dalla velocità.
Cinema e romanzo, il tempo, lo creano: il primo con l’intensità, il secondo con la lentezza. Un film riempie e avvolge lo spettatore, dilata il tempo fino a renderlo infinto grazie alle immagini, al movimento e al sonoro. Un romanzo lo fa all’opposto: le parole, completamente effimere e inconsistenti, ma capaci di evocare mondi interi accostandone appena due o tre, hanno il potere magico di far palpitare secoli interi o secondi infinitesimali nella mente e nel corpo di chi legge.
Il fumetto invece il tempo se lo mangia. E lo fa continuamente, vignetta dopo vignetta, pagina dopo pagina, nella sua paradossale velocità. Illusoria, certo, ma pur sempre velocità.
Mi viene in mente, con un paragone che è anche metafora, l’intuizione geniale delle sorelle Giussani che creano Diabolik per farne una lettura che duri il tempo di un viaggio in treno verso il lavoro, o i mangaka giapponesi che, leggenda o meno, costruiscono le loro pagine perché siano lette in un tempo che va dai 2 ai 3 secondi, così che l’intero capitolo, tra le 20 e le 30 pagine, possa durare esattamente da una fermata della metro alla successiva.
Proprio per questa sua velocità intrinseca e paradossale, il fumetto ha quindi bisogno di tempo per esistere, per incunearsi, stratificarsi, sedimentare nei cuori, nelle menti, negli occhi. Nell’inconscio collettivo.

I fumetti che hanno colpito masse e generazioni, i fumetti che hanno fatto la “Storia del Fumetto”, sono seriali o hanno comunque a che fare con la serialità. Tutti, nessuno escluso.
Che si parli di manga (una puntata a settimana e poi un tankobon al mese o più), di fumetto popolare da edicola italiano o comics americani (un episodio alla settimana o al mese), di bande dessinée francesi (un albo o due all’anno), di strip (una al giorno, alla settimana, al mese) o storie brevi a episodi pubblicate su rivista (quindicinali, mensili, bimestrali, semestrali, annuali), si tratta sempre di opere seriali. Opere che durano più di un libro, opere che camminano costanti nel tempo, prendendosi, episodio dopo episodio, il loro spazio. Di nuovo: il fumetto ha bisogno di tempo.
Mi sembra che il formato libro, “one-shot”, per quanto abbia permesso opere straordinarie, fatichi ad avere la potenza necessaria a far sì che il fumetto rimanga. E quando lo fa, quasi sempre ha alle spalle una serializzazione precedente o un autore nato e cresciuto fra le pagine di pubblicazioni seriali e che ne conosce bene i meccanismi, così da innervarli anche nella rapidità di un graphic novel e permettendo alla sua storia di sedimentare nell’immaginario.
Questa mi pare essere la peculiarità (o, meglio, un’altra delle peculiarità) del fumetto. Per esistere a lungo e non essere un mero mordi e fuggi, un meccanico usa e getta senza amore (l’amore lo crea il tempo, la frequentazione, la costanza, l’abitudine alla conoscenza reciproca), il fumetto ha bisogno di essere spalmato su periodi che vanno almeno dall’anno al decennio. 

Un personaggio dei fumetti, in certa misura, è come un simbolo, come un logo. E in quanto tale ha necessità di essere reiterato e ripetuto per sedimentare nelle coscienze.
Pensando a quelli che vengono considerati i grandi capolavori del graphic novel, quasi tutti, prima della raccolta in volume, hanno avuto una serializzazione su rivista. Certo, non poteva essere altrimenti: la maggior parte di quelli che consideriamo pietre miliari del romanzo grafico, e che sono tutt’oggi punti di riferimento per autori e critici, sono stati realizzati quando il concetto stesso di graphic novel come specifica merceologica era appena nato e la serializzazione era considerata la normale, se non l’unica, vita del fumetto. Ma, al di là di questo dato storico, quelle opere hanno in quel modo avuto il tempo di “esserci” e di “rimanere”.
Per citarne solo alcuni, tra i più famosi e riconosciuti: Maus di Art Spiegelman è uscito a puntate su “Raw”, il magazine di Spiegelman e di Françoise Mouly, tra il 1980 e il 1991; Black Hole di Charles Burns: 12 albi in formato comic book, dal 1995 al 2005 per Kitchen Sink Press prima e Fantagraphics poi; Persepolis di Marjane Satrapi: quattro volumi, dal 2000 al 2003, per L’Association; Jimmy Corrigan, il ragazzo più in gamba sulla terra di Chris Ware: dal 1995 al 2000 su “Acme Novelity Library”, la rivista inizialmente autoprodotta da Ware, poi passata sotto Fantagraphics.
Certo, ci sono alcune eccezioni, a partire da Will Eisner, quello che viene storicamente considerato il padre del graphic novel (anche se ormai è acclarato che sia solo la prima persona che ha fatto un uso sistematico del termine). Ma nel caso di Eisner, che ha comunque lavorato decenni nel fumetto seriale prima di approdare al romanzo grafico, come anche nel caso di Paco Roca, per citare un altro autore di graphic novel molto amato in Europa e le cui opere nascono direttamente in formato libro, è il segno stesso a diventare logo, simbolo riconoscibile e reiterato. Il segno di Paco Roca è talmente unico e riconoscibile che assume esso stesso la valenza di un personaggio iconico. Non è Corto Maltese, non è Asterix, non è Dylan Dog, non è Snoopy: è Paco Roca. È Will Eisner. È Bastien Vivès. È Daniel Clowes (di nuovo, un autore nato su rivista). Autori che nel tempo della morte del fumetto seriale (Eisner, ovviamente, in anticipo sui tempi, come sempre è stato), sono diventati essi stessi seriali, tanto le loro opere sono esteticamente e ideologicamente uguali a sé stesse: quasi un logo, un simbolo, una ripetizione. Insomma, una serialità.
A scanso di equivoci: dico tutto questo senza nessuna valenza negativa. La ripetizione “sempre uguale ma sempre diversa”, se saputa maneggiare, come nel caso delle opere citate, è per me un assoluto valore aggiunto che, personalmente, amo alla follia. Ed è a tutti gli effetti il fondamento del successo delle strip e del fumetto seriale.

Tornando a Eisner, vale comunque la pena ricordare che il suo Contratto con Dio, quello che molti libri accademici indicano come il “primo graphic novel della storia”, non è esattamente un romanzo, quanto piuttosto una raccolta di racconti ambientati tutti nello stesso caseggiato del Bronx. Questo tipo di tecnica narrativa viene usata da Eisner anche in altre occasioni, come negli splendidi Il palazzo o Dropsie Avenue, e proprio per la sua caratteristica di scegliere un’ambientazione comune per protagonisti sempre diversi trasuda “serialità” da tutti i pori.
Se con i fumetti seriali il gioco è quello di adattare i protagonisti iconici ai vari contesti ambientali e narrativi, con i pochi autori di graphic novel che sono davvero riusciti a emergere e a crearsi un vasto seguito di lettori, la situazione si è ribaltata: i vari contesti ambientali e narrativi sono stati adattati al segno, al modo, alla voce dell’autore.
Pensando a Zerocalcare per esempio, a oggi il maggior fenomeno italiano prodotto dall’era del graphic novel (cominciata in Italia con lo scoccare del XXI secolo e la nascita di Coconino Press di Igort, Carlo Barbieri e Simone Romani), le sue opere mettono insieme tutte le istanze indicate fin qui: c’è  un protagonista iconico, ovvero Zerocalcare stesso, o meglio, il suo alter ego disegnato; il segno è anche voce e logo: piaccia o non piaccia, lo stile di disegno di ZC è anch’esso ormai iconico; il suo è un fumetto seriale travestito da graphic novel: da anni, prima sul blog e poi nei libri, fino alle serie tv, stiamo seguendo le avventure di Zero e del suo gruppo di amici, calati di volta in volta in contesti ambientali e narrativi diversi.
Altro esempio calzante è quello di Andrea Pazienza, autore di culto, percepito come il padre spirituale di un certo tipo di narrazione, che nel graphic novel sembra aver trovato la sua espressione ideale: mi riferisco al fumetto dell’ “intimo” e del “racconto di sé”, quello che in Giappone viene chiamato “watakushi manga” e che ha in Tsuge Yoshiharu il suo nume tutelare, autore anch’esso dedito – anche se quasi certamente solo per mere contingenze finanziarie e circostanziali – al fumetto seriale.
Andrea Pazienza invece ha sempre e solo fatto serialità. Di più: ha creato, con il personaggio di sé stesso nella vita reale, una complessa serialità che usciva continuamente dal fumetto e in esso rientrava. Pazienza ha fatto esplodere la serialità, costellando la sua opera di frammenti e non finiti che, riallacciati alle sue apparizioni pubbliche, alle interviste e agli scampoli di vita privata che già facevano parte della sua aura mitologica – la dipendenza da eroina su tutte, sublimata nel suo capolavoro, Gli ultimi giorni di Pompeo – ricomponevano e creavano una nuova serialità per i tempi futuri. E autori come Fumettibrutti o, di nuovo, Zerocalcare, sembrano seguire la stessa strada: una serialità espansa, dalla carta alla carne e ritorno.

Quando dico che il fumetto ha bisogno di tempo, che il fumetto il tempo se lo mangia, e che lo spazio di un libro è nella maggior parte dei casi troppo breve, troppo poco, per impattare sull’immaginario, non sto dicendo ovviamente che i graphic novel dovrebbero essere più lunghi. Sto dicendo, piuttosto, che potrebbero essere dilazionati in episodi e in più libri, così da trasformare il tempo in spazio, creando continuità, affezione e amore. Spazio che si prolunghi nelle nostre coscienze affamate di tempo e lasci un segno, una cifra, un ricordo inamovibile e sempre presente.
Penso a Berlin di Jason Lutes, uscito in tre libri che ne fanno uno solo, a Jonas Fink o No Pasarán di Vittorio Giardino, che fanno la stessa operazione ma spalmata su vent’anni di lavoro, così come anche il Clyde Fans di Seth.
E pensando a Seth, ecco che il suo George Sproot, per me uno dei massimi capolavori a fumetti di sempre, si dimostra nuovamente anche un inarrivabile testo teorico: George Sproot infatti è un’opera che è stata inizialmente serializzata sul “The New York Time Magazine”, in tavole domenicali – che sono, risalendo la storia del fumetto, l’evoluzione della vignetta a tutta pagina che ha portato alla strip, ovvero l’unità di misura base del racconto a fumetti – e poi raccolta in volume, dove svela compiutamente il suo essere stata pensata come un graphic novel fin dal principio.
La serialità non esclude la forma compiuta del graphic novel, ne è anzi l’anima segreta. La componente vitale che ne scandisce il tempo, dandogli spazio dentro di noi.

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