Jules Feiffer e lo sguardo sulla vita

Omar Martini | Memorie e cuccioli |

Ci sono alcuni autori che, per ragioni insondabili, ti accompagnano per tutta la vita. Li vedi evolvere, cambiare, crescere o, qualche volta, decadere. Allo stesso tempo, tu evolvi, cambi, cresci e sicuramente decadi mentre entri in contatto con le loro opere. Nel mio caso non sono tanti, ma a fine gennaio, nel giro di una settimana, sono scomparsi due autori a cui sono profondamente legato: David Lynch e Jules Feiffer.

I due creatori, oltre ad avermi dato molto, da un punto di vista emozionale e intellettuale, avermi stimolato e avermi fatto comprendere nuovi modi di osservare le cose, mi hanno anche messo di fronte, in momenti diversi, ai miei limiti intellettuali e alla mia incapacità di entrare in contatto, se non addirittura capire, le loro opere. Credo sia capitato a tutti di affrontare qualcosa (un fumetto, un romanzo, un film o anche un disco) nel momento sbagliato. In certe situazioni, pensi che quello che stai per fruire ti piacerà sicuramente, e invece… la noia, l’indifferenza o la mancanza di sintonia sono il risultato della tua lettura, visione o ascolto. Poi a volte, dopo un po’ di tempo (mesi… anni…) riaffronti quella stessa opera e si stabilisce immediatamente un contatto profondo, tanto da domandarti come hai fatto prima a non vedere quanto fosse bella ciò che avevi snobbato così profondamente. Nel caso di Lynch è accaduto due volte per la mia incapacità di “guardare”; con Feiffer, invece, si è trattato “meramente” di una mancanza di esperienza di vita.

La prima volta che mi sono imbattuto in Feiffer non avevo la più pallida idea di chi fosse. Non ricordo se andavo ancora alle scuole elementari oppure già alle media, e mio zio, sapendo che mi piacevano i fumetti, mi regalò un numero di “Linus” (non credo di avergli mai chiesto la ragione, ma forse pensava che, avendo il nome di un bambino, potesse essere qualcosa di adatto a me in quel momento). Probabilmente lessi solo i fumetti e saltai i testi scritti (abitudine che mantenni per diversi anni a seguire), ma ci sono due cose che mi sono rimaste impresse: il senso di inquietudine che mi trasmise un racconto di un autore che, solo successivamente, riconobbi essere Altan, e il senso di straniamento che ebbi nel guardare delle vignette scontornate che non capivo bene cosa fossero e che ritraevano uno dei miei idoli cinematografici dell’infanzia: Fred Astaire. Abituato alle sue piroette in bianco e nero in scenari eleganti e raffinati, come la splendida Venezia completamente reinventata in studio di Cappello a cilindro, e ai suoi gorgheggi vellutati mentre cercava di far innamorare di sé Ginger Rogers, non riuscivo a conciliare quella versione del ballerino che si muoveva senza darsi un attimo di tregua e che, allo stesso tempo, non faceva altro che parlare di cose che non comprendevo. Quel personaggio monologante non era l’attore che amavo e non mi avvicinai più a “Linus” per almeno altri dieci anni.

Fu al secondo incontro che Feiffer iniziò a diventare un autore interessante. Fin da piccolo ero stato un grande appassionato dello Spirit di Will Eisner, prima grazie al Manuale dei fumetti di B. P. Boschesi, in cui il breve testo che descriveva il personaggio mi aveva colpito profondamente, poi con l’”Eureka pocket” a lui dedicato che mi aveva entusiasmato, sebbene a volte il rimpicciolimento delle tavole andava oltre la capacità umana di discernimento di quelle incomprensibili macchie di nero. Per cui, quando la casa editrice Kitchen Sink iniziò la ristampa in comic book di tutte le storie di quel personaggio realizzate nel dopo guerra, accompagnate da un breve “dietro le quinte” sulla genesi del racconto, ne rimasi estasiato. Quello che mi colpì fu “scoprire” che a un certo punto le storie non erano più realizzate completamente da Eisner ma iniziarono a essere scritte da un certo Jules Feiffer… e che erano proprio belle (nella mia ingenuità pensavo che Eisner fosse sempre stato l’unico a scrivere e disegnare Spirit)! Non solo scriveva bene, ma aveva anche delle soluzioni narrative e grafiche che trovavo innovative. E infatti qualche tempo dopo, durante quel paio di anni che, assieme all’amico Massimo Perissinotto, insegnammo in una scuola di fumetto, uno dei materiali che utilizzavo in quelle lezioni, per spiegare alcuni aspetti della costruzione della tavola, erano le fotocopie di una storia ambientata di notte in uno zoo, in cui le onomatopee e il lettering diventano letteralmente dei personaggi che spaventano il povero Ebony, l’assistente di Spirit.

In questo periodo di innamoramento, ebbi una prima avvisaglia che il nostro rapporto non sarebbe stato sempre rose e fiori, e che sarebbe dovuto passare, come ogni relazione, attraverso qualche momento difficile. È necessario fare un’altra piccola digressione: da bambino c’erano stati alcuni titoli di film che erano entrati nel mio immaginario, pur non avendoli mai visti e a volte non sapendo nemmeno bene di che cosa parlassero. In questo gruppo c’era Conoscenza carnale che, probabilmente per quel titolo così proibito e, se ricordo bene, per quel divieto ai minori di 18 anni, si portava dietro un’aura da film porno, nonostante ci fosse uno come Jack Nicholson che, sebbene all’epoca non l’avessi mai visto recitare, avevo comunque la percezione che si trattasse di un attore serio. Quindi, poco più che ventenne, con un crescente interesse verso questo autore, trovai la sceneggiatura di quella pellicola in una libreria dell’usato: un’edizione cartonata della Bompiani che riproduce, su sfondo nero, una foto che, a memoria, era quella del manifesto originale in cui due persone, nude, di profilo, appoggiate schiena contro schiena, sembrano nascondersi il volto. Quella lettura fu il primo “scherzo” che mi giocò Feiffer, la prima volta che mi fece intuire come, in quel momento, non avessi ancora gli strumenti per capirlo. All’epoca, quando non mi era ancora chiaro come le dinamiche tra uomo e donna potessero essere molto più complicate di quello che mi apparivano, quella storia di amici che non sono realmente amici, di relazioni che, nel corso degli anni, si sfasciano o, semplicemente, si inaridiscono, mi sembrava qualcosa di aliena, incomprensibile… forse quanto l’astronauta David Bowman, quando trovò alieno e incomprensibile il monolite alla fine di 2001 Odissea nello spazio. E a posteriori mi domando anche quanto alieno debba essere sembrato quel film con tante parole, silenzi e decisamente poco sesso (mostrato), nonostante il titolo e l’immagine allusiva del manifesto, a un pubblico che forse si aspettava una sexy-pellicola come erano di moda in quegli anni. E devo dire che questo suo essere alieno, questo monolite, deve continuare a far grattare la testa alla scimmia stupita che lo osserva se, molti anni dopo, una delle tante collane di VHS da edicola, allegate a un importante settimanale, lo inserì in una collana dal titolo “I classici proibiti”. Probabilmente di proibito, all’epoca, per quella scelta, c’era solo l’uso del cervello.

Non ho avuto molta fortuna con i suoi exploit cinematografici perché, pur avendo anagraficamente l’età giusta per aver potuto vedere al cinema l’adattamento di Popeye – Braccio di Ferro di Robert Altman, con Robin Williams nella parte del marinaio, non andai a vederlo perché ero in un periodo di disinteresse nei confronti di quel personaggio, e, analogamente, mi persi anche il suo Voglio tornare a casa! diretto da Alain Resnais, un film sullo scontro tra cultura statunitense e francese nonché sulla diversa considerazione intellettuale tra il fumetto e la letteratura, perché provavo un’analoga indifferenza verso il cinema francese, se non nella sua accezione apparentemente post-moderna di Luc Besson e Leos Carax.

Qualche anno dopo (non tanti, non sufficienti comunque per rendermi più esperto su come gira il mondo), dopo aver concluso l’università e aver regalato il mio anno allo Stato, mi trasferii a Bologna. Le letture di fumetti statunitensi aumentarono, in parte guidate dall’amico Luca Bernardi, che mi prestò Tantrum, un libro orizzontale, con la prefazione di Neil Gaiman (un autore moderno e di tendenza, almeno in quegli anni, che parla di un fumettista… “vecchio”?) e pubblicato da Fantagraphics (ma non facevano solo “Love & Rockets”, Daniel Clowes e fumetti autobiografici?). Una serie di apparenti contraddizioni verso cui nutro dei dubbi, ma che vengono presto superate dall’entusiasmo di Luca. Lo leggo ed ecco il secondo colpo basso, il secondo scherzo che mi fa Feiffer… perché attraverso quell’uomo che ridiventa bambino e mette in crisi il “mondo perfetto” che lo circonda mi sbatte in faccia la crisi della mezza età, il desiderio di fuga e di ritornare bambino, per ricominciare e affrontare una nuova vita, magari in modo diverso. Leggere una storia realizzata nel mio mezzo di comunicazione preferito e in un formato (il graphic novel) in cui credevo profondamente, ma che a metà degli anni Novanta non si sapeva ancora se si sarebbe consolidato oppure se si sarebbe rivelato solo una moda passeggera, sembrava rappresentare il culmine del mio interesse… ma invece si rivelò un fallimento completo. Era un fumetto (questo era un elemento fondamentale) che, nonostante lo spunto apparentemente fantastico, non era di genere (altro elemento che iniziava a essere importante) e aveva un’ambientazione realistica (altra cosa verso cui mi sentivo sempre più attirato), però… però non mi sentivo a mio agio in quel territorio apparentemente familiare ma eccessivamente grottesco, non c’erano elementi che mi attirassero e sentivo un distacco probabilmente simile a quello che avevo provato quando avevo letto la sceneggiatura di Conoscenza carnale. Feiffer si faceva beffe di me perché porgendomi quello che pensavo di volere (un libro a fumetti con tematiche adulte) mi metteva di fronte alla mia presunzione e supponenza, mi prendeva in giro, faceva, elegantemente, un dito medio alle mie convinzioni e idee. Sembrava quasi che volesse dirmi di stare attento a quello che desideravo perché quello che avrei ottenuto mi sarebbe potuto anche non piacere… e così accadde. Quello che all’epoca non avevo capito era una rappresentazione della vita che veniva espressa in maniera matura e non attraverso quelle rappresentazioni convenzionali a cui ero stato abituato fino a quel momento. Quello che Feiffer faceva, e che avrei compreso solo successivamente, era di inserire in ogni storia, anche quelle apparentemente più leggere, un punto di vista sulla vita che, per ragioni satiriche/politiche o per motivazioni più di “costume”, era espressa in termini grotteschi ma, allo stesso tempo, partecipi. Era uno sguardo originale che riusciva a focalizzare il tema della storia e a renderlo evidente ai lettori, era una voce che, con i balbettii e i monologhi solipsistici tipici dei suoi personaggi si esprimeva in modo profondamente personale. Confrontate, per esempio, i dialoghi di Piccoli omicidi, agghiacciante opera teatrale e film sull’incomunicabilità e sulla violenza insensata, con quelli delle sue vignette degli anni Sessanta, oppure con quelli della trilogia composta da Kill my Mother, Cousin Joseph e The Ghost Script: troverete che, nonostante gli anni e le forme espressive diverse, il tono di Feiffer è inconfondibile e riesce ad adattarsi in maniera perfetta e a mantenere l’efficacia. In quell’istante non ero in sintonia con questo autore o forse non ero in sintonia con la realtà che mi circondava. Probabilmente ancora bambino, non avevo ancora raggiunto l’età adulta per desiderare di tornare indietro.

Però bastò qualche anno (una diecina direi, a occhio e croce) e la vaga idea di pubblicare qualcosa di suo in Italia, e iniziai una ricerca personale per individuare quali delle sue opere potessero essere adatte a un pubblico italiano. Mi divisi quindi tra prestiti in biblioteca e qualche acquisto in lingua originale e, sebbene quelle letture non portarono a nulla, fu il momento in cui il satiro, il commentatore sociale e politico, l’equilibrista della forma alzò il velo e mi permise, finalmente, di apprezzare e riconoscere il suo genio e la sua intelligenza. È il momento migliore per un lettore, quando si immerge nella multiforme ed estesa opera di un autore e rimane stupefatto dalla varietà e dalla bellezza di quello che sta leggendo e guardando: le antologie italiane con il materiale pubblicato su “Linus” (a cui aveva collaborato anche Umberto Eco), in cui compare la riscrittura della favola di “Cenerentola”, adattata al consumismo moderno (“Passionella”), l’antimilitarismo di “Munro” (in cui si anticipa, sebbene con un ribaltamento opposto, Tantrum, e la cui versione animata, premiata con l’Oscar, con quelle voce dei soldati che si sovrappongono l’una con l’altra, oltre a fornire una versione “sonora” dei brevi monologhi che nessuno ascolta, tipici di Feiffer, sembra anche anticipare quel sottofondo di voci che si intrecciano, quasi incomprensibili, del film M*A*S*H di Robert Altman), e diverse storie autoconclusive in cui il testo fuoriesce dai balloon e interagisce in maniera più diretta e fluida con le immagini; la raccolta delle sue strisce per il “Village Voice”, Explainers, primo di una ipotetica collana di quattro volumi che non sarebbero mai usciti e che mi permise di fare un viaggio nel passato degli Stati Uniti, con le sue paure, illusioni e miserie; il saggio sul super eroe The Great Comic Book Heroes, in cui fu tra i primi a inquadrare in maniera efficace il fenomeno di quel genere fumettistico essenzialmente statunitense; la visione di Piccoli omicidi (l’unico suo film che sono riuscito a guardare); i suoi exploit come scrittore per ragazzi, come La mia stanza è uno zoo! e The man on the ceiling, quest’ultimo profondamente legato al mondo del fumetto; il sottile e divertente meta-fumetto per ragazzi Meanwhile… che gioca (ancora) con le convenzioni del mezzo e con i generi delle storie d’avventura. Come detto in precedenza, tutte queste variegate opere mantengono lo stesso tipo di voce e la stessa visione del mondo: acuta, spesso feroce, ma sempre con una partecipazione e una sensibilità che non si trasforma mai in odio.

In quel periodo così intenso di lettore, lo “riconosco” anche in un episodio della quinta stagione della serie tv Mad Men, il mio appuntamento fisso durante gli anni Dieci, quando la seconda moglie del pubblicitario Don Draper va a un’audizione per aggiudicarsi una parte nel testo teatrale Little Murders: una delle tre persone che deve valutare il suo provino è, indiscutibilmente, Jules Feiffer.

E poi, la prova finale: riaffrontare Tantrum. Questa volta la scintilla scatta. Sebbene di generazioni diverse, ora intuisco le ragioni che spinsero Feiffer a scrivere e disegnare quella storia, capisco le motivazioni dei personaggi e comprendo perché si comportano in quel modo, così in sintonia con la storia. Non voglio ritornare bambino, ma posso provare empatia verso quei sentimenti di disperazione, smarrimento e confusione.

Passano gli anni, cambia il paese e la città, ma la passione per Feiffer, di cui sono riuscito con fatica a trovare qualcosa anche qui, non si attenua. Così, quando vengo a conoscenza dell’uscita di un suo nuovo libro, Kill my Mother, lo compro immediatamente. Quello che mi colpisce subito, sia in questo che nei due libri successivi, è la capacità di continuare a rinnovarsi. I dialoghi mantengono quel ritmo particolare, il disegno piuttosto schizzato tiene abbastanza bene, soprattutto se consideriamo che stiamo parlando di un autore di oltre ottant’anni, e la composizione della tavola continua a essere ricreata a seconda della necessità. Non è l’opera di un uomo al tramonto, di un autore che continua stancamente e a fatica a macinare pagine non all’altezza della propria gloria passata, bensì sono i libri di un artista che ha ancora qualcosa da dire, che parlando delle meschinità del passato ci mette di fronte alla nostra inadeguatezza, alla nostra stupidità, alla nostra incapacità di vivere il presente.

E come “Bertoldo si confessa ridendo”, così il nostro giullare si diverte a confonderci, a raccontarci storie che ci allietano ma che, nel momento in cui ridiamo, capiamo immediatamente che siamo noi a essere i veri bersagli.

Il giorno che ho saputo della sua scomparsa, vedendo una sua foto postata da Peter Kuper, mi è salita una profonda tristezza. Non è una persona che conosco o con cui sono entrato in contatto, ma quando un autore ti accompagna per tutta la vita, diventa un riferimento a cui guardare periodicamente, tornare a frequentare quando ne hai voglia perché sai che lui ci sarà sempre per te, oppure sperare perfino che possa ancora sfornare qualcosa di nuovo. Ora però so che lui non è più lì a stupirmi, a divertirmi e a darmi una gomitata per farmi intuire che ogni tanto continuo a non capire proprio tutto della vita. Fortunatamente però ho ancora qualche libro da leggere e da comprare (lo ammetto: questa volta non mi sono affrettato ad acquistare il suo recente Amazing Grapes, ma lo farò presto), per cui potrò ancora fingere che sia lì, disponibile a ridere con me… ma anche di me.

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